Storie e regole dietro un grande premio letterario
Il Guardian ha raccontato bene cos'è per il mondo dei libri il Booker Prize, che sarà assegnato stasera
Di premi letterari ce ne sono tantissimi ma solo pochi sono ritenuti davvero importanti da case editrici e scrittori: sono quelli che per fama e autorevolezza spingono le persone a comprare e leggere i libri che premiano. In Italia hanno questo potere il Premio Strega e, in misura minore, il Premio Campiello. Il più influente al mondo è sicuramente il Nobel per la Letteratura, ma per via dell’ampiezza del mercato editoriale in lingua inglese è molto rilevante anche il Booker Prize, che è il principale premio letterario del Regno Unito ed è tenuto in considerazione anche dagli editori italiani quando scelgono quali libri stranieri pubblicare.
Come con lo Strega, anche col Booker ci sono spesso contestazioni delle scelte della giuria, delle regole stesse del premio e dei criteri (veri o presunti) grazie a cui certi libri sono scelti per la finale o per la vittoria. Le polemiche però contribuiscono a rendere interessante il premio. Lo racconta bene un articolo di Charlotte Higgins pubblicato sul Guardian in vista della premiazione di quest’anno, che sarà stasera: i meccanismi interni al premio, e le strategie degli editori per far vincere uno dei loro libri, sono quasi una forma di intrattenimento a sé. «Non è solo un premio per i libri, ma un inebriante groviglio di dibattiti, controversie e congetture: in sintesi, un’istituzione culturale».
Il Booker Prize è assegnato ogni anno a un libro di narrativa scritto in inglese e pubblicato nell’anno del premio. Solitamente si tratta di un romanzo, ma anche libri di narrativa di ampio respiro ibridi o sperimentali sono ammessi, mentre le raccolte di racconti no. Come succede per lo Strega, nei mesi che precedono la premiazione viene diffusa prima una lista di dodici (o tredici, o quattordici) semifinalisti e poi una di sei finalisti (allo Strega di norma sono una “cinquina”).
Assegnato per la prima volta nel 1969, il Booker fu fondato su iniziativa di un editor, Tom Maschler, che aveva notato l’influenza sulle vendite di libri in Francia del Premio Goncourt, il celebre riconoscimento letterario che esiste dal 1896 (lo Strega dal 1947, il Campiello dal 1963).
Negli anni tra i vincitori ci sono stati V.S. Naipaul e Nadine Gordimer (entrambi successivamente vincitori del Nobel), William Golding, Salman Rushdie (che divenne celebre e potè cominciare a vivere facendo solo lo scrittore proprio grazie al premio), J.M. Coetzee e Kazuo Ishiguro (altri due vincitori del Nobel, il primo ha vinto il Booker due volte), Arundhati Roy, Ian McEwan, Margaret Atwood e Hilary Mantel.
Il nome “Booker”, nonostante la somiglianza con la parola inglese per “libro”, è dovuto a quello dell’azienda che per prima e fino al 2002 sponsorizzò il premio, una società di distribuzione alimentare. Inizialmente la partecipazione era riservata ai libri di scrittori britannici, irlandesi, zimbabwesi e provenienti da paesi del Commonwealth britannico per via dei mercati in cui operava il Booker Group.
I criteri geografici sono stati rimossi nel 2014: la ragione ufficiale era la loro insensatezza all’interno dell’attuale mercato editoriale in lingua inglese, che è piuttosto integrato, ma c’entrava sicuramente anche il voler rendere il Booker più internazionale, aprendolo agli innumerevoli scrittori statunitensi. Nel Regno Unito la scelta è stata molto criticata per il timore che «gli americani arrivassero a dominare il premio» (quest’anno tra i semifinalisti una sola è britannica, tre sono statunitensi) e ancora tre anni fa 30 editori britannici hanno scritto una lettera per chiedere un ritorno alla vecchia regola.
Paese di provenienza degli autori a parte, le regole per candidare un libro al Booker Prize sono piuttosto complicate. La prima è che i concorrenti sono proposti dai membri della giuria ma anche e soprattutto da chi li ha pubblicati. In teoria ogni marchio editoriale – dunque ogni editore indipendente ma anche ogni divisione di un grande gruppo, come in Italia potrebbero essere Rizzoli ed Einaudi, entrambe appartenenti a Mondadori – può candidare un solo libro, ma di fatto esistono numerose eccezioni che permettono alle case editrici di fare strategie affinché più di uno dei loro libri sia preso in considerazione.
I libri degli autori finiti in finale nelle passate edizioni del premio infatti possono sempre essere candidati. Inoltre i marchi editoriali che nei cinque anni precedenti hanno avuto propri libri in semifinale possono candidarne da uno a quattro in più. Infine ogni marchio editoriale può sottoporre all’attenzione della giuria una lista di altri libri (fino a cinque), in modo che possano valutare se includerli tra i candidati a loro discrezione.
Una delle strategie usate dalle case editrici per aumentare le probabilità che un loro libro vinca il Booker è usare la candidatura formale per proporre il libro di un autore poco famoso o esordiente, e tenere per la lista aggiuntiva quello di uno scrittore noto e apprezzato sperando che la giuria si senta in obbligo di includerlo. «È molto rischioso», ha detto però Dan Franklin, ex capo della casa editrice Jonathan Cape, a Charlotte Higgins: «Spesso i nomi famosi sono trascurati». Un’altra tattica, più scorretta, è fondare un nuovo marchio: secondo il critico e giurato del Booker nel 2013 Stuart Kelly è ciò che ha fatto Bloomsbury fondando il marchio collaterale Bloomsbury Circus, che a suo dire non ha una linea editoriale molto diversa da Bloomsbury.
Infine si cerca di tenere conto dei gusti (veri o presunti) dei giurati, che cambiano ogni anno e possono essere critici letterari, scrittori, ex editor ma anche persone non appartenenti all’industria, come attrici e attori. Nel 2020 ad esempio furono candidati molti thriller perché nella giuria c’era Lee Child, autore dei romanzi con protagonista l’ex poliziotto militare Jack Reacher: la strategia però non funzionò, nessun thriller raggiunse la longlist, cioè la semifinale.
Considerando la grande quantità di marchi editoriali esistenti, i membri della giuria devono leggere più di un centinaio di libri: quest’anno sono stati 158. Il numero è molto aumentato nel tempo perché nel Regno Unito come in Italia si pubblicano sempre più libri: nel 1969 i candidati erano una sessantina, già nel 1994 130.
Per contratto ogni giurato deve leggere tutti i libri candidati – non è così per tutti i premi letterari – e il compenso che ognuno di loro riceve è stabilito anche tenendo conto dell’impegno necessario. «Ci sono state giornate in cui ho letto due romanzi interi e ne ho iniziato un terzo», ha raccontato a Higgins la storica Maya Jasanoff, capo della giuria di quest’anno. Nel 2006, forse a causa dell’eccesso di lettura, la romanziera Candia McWilliam ebbe un problema agli occhi dopo aver fatto la giurata, tanto che alla cerimonia di premiazione poteva a stento tenerli aperti: la sua condizione però venne tenuta nascosta perché «l’ilarità di una giurata cieca a un premio letterario avrebbe messo in cattiva luce il premio o i suoi sponsor».
In passato alcuni ex giurati hanno confessato di aver letto solo una cinquantina di pagine di alcuni candidati ritenuti poco interessanti, ma per molti altri leggere tutti i libri interamente è questione di orgoglio. «Devi farlo», ha detto Stuart Kelly, «per dovere e per cortesia».
Ogni giuria si organizza a modo suo per scegliere semifinalisti, finalisti e libro vincitore. Jasanoff ha proposto ai suoi colleghi di presentare tre preferiti per ogni incontro mensile della giuria (in ognuno degli incontri si parlava di venti o trenta libri diversi). Dopo qualche ora di «terapia di gruppo letteraria», secondo la definizione della direttrice del Booker Gaby Wood, i libri venivano divisi in tre categorie: quelli che restavano in gara, quelli fuori e quelli su cui il giudizio era sospeso fino alla riunione successiva. «Non eravamo d’accordo su tutto», ha detto Jasanoff a Higgins dopo che a luglio è stata diffusa la lista dei semifinalisti: «Ognuno di noi ha dovuto rinunciare ad almeno un libro che avrebbe voluto in semifinale, ma pensiamo che abbia senso includere quelli che hanno sia grandi sostenitori che grandi critici».
Per scegliere i finalisti, ogni giurato ha dovuto dividere la longlist tra libri che secondo lui dovevano assolutamente restare in gioco e libri che invece si potevano tralasciare e le singole preferenze sono state consegnate a Wood privatamente, per evitare che alcuni giurati si accordassero per far passare tutti i propri preferiti. Questo sistema ha permesso a tre libri di entrare subito tra i finalisti, senza discussioni, e ha permesso di escluderne altri due molto facilmente: poi la giuria ha dibattuto per assegnare i tre posti rimanenti per la shortlist.
Alla fine sono rimasti fuori sia Kazuo Ishiguro che Rachel Cusk, due autori molto stimati e apprezzati, e qualche giurato è rimasto deluso, come avviene ogni anno. Secondo la scrittrice Sarah Hall fare da giurata al Booker è un’esperienza «che spezza il cuore» e bisogna affrontarla fin dall’inizio sapendo che si rimarrà deluse. Lo scrittore Chigozie Obioma, uno dei giurati di quest’anno e finalista al premio per due volte in passato, ha detto a Higgins che il processo di scelta del vincitore lo ha un po’ «demoralizzato» perché alla fine la complessità della scelta la rende molto questione di fortuna: «Quest’esperienza mi ha fatto pensare “non sperare mai più che un tuo libro possa vincere un premio, significa farsi del male”».
Nel 2001 la scrittrice A. L. Kennedy, che aveva fatto la giurata per il Booker nel 1996, criticò duramente il premio definendolo «un mucchio di corruzione e insensatezza»: disse che il libro vincitore era sempre determinato «da chi conosce chi, chi va a letto con chi, chi vende droga a chi, chi è sposato con chi, o da qual è lo scrittore che si pensa sia ormai arrivato al suo turno di vincere». È una critica per certi versi simile a quella rivolta allo Strega, che almeno in parte è influenzato dai rapporti dei più di quattrocento giurati, che spesso sono scrittori, con le case editrici. Il Booker tuttavia si presta un po’ meno a tali accuse, sia perché i giurati cambiano ogni anno, sia per la vastità del mondo editoriale da cui provengono, incomparabile rispetto alle dimensioni del mondo culturale italiano.
Quanto alle critiche di Kennedy nello specifico, secondo lo scrittore Jonathan Coe, un altro giurato del 1996, erano dettate dalla frustrazione per l’eliminazione del suo libro preferito.
Non esistono dei criteri formali per scegliere il libro vincitore. Secondo il giornalista Sameer Rahim, giurato nel 2020, bisogna cercare un qualche criterio «oggettivo» per distanziare la giuria da un semplice «club del libro di persone molto colte». Per il critico Jon Day, giurato nel 2016, bisogna invece dare ascolto all’istinto che fa dire “voglio consigliare questo libro a tutti i miei amici”.
Di solito i libri più sperimentali o con contenuti difficili non arrivano in finale e alla vittoria perché dividono la giuria. Certe scrittrici le cui opere non hanno particolari ambizioni di grandiosità sono diventate note per non vincere mai: un esempio è Ali Smith, che è arrivata in finale quattro volte.
I giurati devono rileggere tutti i libri ancora in gara sia prima di decidere la shortlist che prima di stabilire il vincitore. Secondo Stuart Kelly queste letture ripetute sono la ragione per cui i libri comici e i gialli non vincono mai: «Qual è una battuta che è ancora divertente dopo che l’hai letta tre volte? Con i gialli, alla seconda lettura ci si può concentrare sul contesto sociale della storia. Ma alla terza?».
In generale, spiega Higgins, «il Booker si muove su uno stretto margine tra la reputazione letteraria e l’interesse popolare: se i vincitori sono considerati troppo di nicchia c’è il rischio che i lettori non si facciano convincere (…), se il premio diventa troppo pop è comunque un problema perché si presuppone che il Booker premi usando criteri più nobili dell’attrattiva commerciale». Alcuni giurati hanno ammesso di tenere conto, almeno nelle fasi preliminari, anche di alcuni criteri politici, favorendo scrittori giovani e appartenenti a minoranze.
Una grande differenza tra il Booker Prize e i premi letterari italiani è l’entità del premio in denaro che riceve lo scrittore vincitore: oggi vale 50mila sterline, quasi 60mila euro. Per un confronto: chi vince il premio Strega riceve 5mila euro; chi vince il Campiello 10mila. A questo premio – messo a disposizione dal finanziatore Michael Moritz, un ex giornalista, autore della prima biografia di Steve Jobs, diventato ricco investendo in aziende della Silicon Valley – si devono poi aggiungere i numerosi contratti di traduzione in altre lingue e, talvolta, quelli per le trasposizioni televisive o cinematografiche che vengono proposti ai vincitori.
Bernardine Evaristo, vincitrice del Booker a pari merito con Margaret Atwood nel 2019, ha raccontato che a due anni di distanza è tuttora molto impegnata con le richieste di interviste. Evaristo ha 60 anni e ha scritto otto romanzi, ma prima di Ragazza, donna, altro, il romanzo con cui si è aggiudicata il premio, non aveva mai potuto vivere di sola scrittura, ora sì. Ha solo il problema che con tutti gli impegni che le ha procurato la vittoria al Booker ha poco tempo per scrivere.