I modi per contare con le dita non si contano sulle dita di una mano

La “dattilonomia” ha una storia millenaria e ancora oggi è completamente diversa tra differenti aree e culture del mondo

(Central Press/Getty Images)
(Central Press/Getty Images)

Tra paesi diversi, e ancor più tra culture diverse, cambia il modo di contare con le dita. In Italia, in genere, si parte per esempio dal pollice e si prosegue con indice e medio per arrivare a segnare un “tre” (un segno, tra l’altro, che ha profonde implicazioni storiche nei Balcani, dove andrebbe evitato). Sempre sui diversi gesti per fare un “tre” con le dita di una mano si basa la scena di Bastardi senza gloria che da circa un decennio è la più citata quando si parla di dattilonomia, l’atto di contare con le dita. Nella scena del film diretto da Quentin Tarantino, una spia britannica è infatti smascherata perché non usa le dita per ordinare da bere come avrebbe fatto un tedesco

 

Tra le tante piccole differenze (in Italia e nel mondo c’è chi il due e il tre li fa senza pollice), ce ne sono altre più rilevanti. Come ha raccontato di recente BBC, in alcune aree del Medio Oriente molte persone iniziano infatti a contare partendo dal mignolo, e in Giappone è consuetudine partire con le dita aperte e poi chiuderle, partendo dal pollice: una mano chiusa, in cui le quattro dita coprono il pollice, è insomma un “cinque”.

In alcune zone dell’Africa orientale in cui si parlano lingue bantu ci sono invece ragioni culturali, legate all’importanza di certe simmetrie, per cui i numeri pari sono rappresentati in modo simmetrico sulle due mani: il “sei”, per esempio, si fa mostrando indice, medio e anulare su entrambe. In Cina, invece, si tende a contare fino a cinque in modo non troppo diverso da come si fa in Occidente, ma dal “sei” in poi si usano quelle che BBC definisce «rappresentazioni simboliche». Il sei, per esempio, si può fare aprendo solo il pollice e il mignolo, il dieci incrociando indice e medio.

Tutti questi sistemi condividono comunque due punti di partenza: sono in base dieci, il modo in cui generalmente l’umanità ha deciso di contare molto probabilmente proprio perché sono le dita delle mani; e sono lineari e monodimensionali, nel senso che uno-vale-uno, cioè ad ogni dito corrisponde l’aumento di una sola unità numerica.

Tutti questi sistemi condividono però anche uno svantaggio non indifferente: arrivano solo fino a dieci. Che va bene per esempio per ordinare da bere, ma risulta inefficace nel caso in cui occorra dare forma a esigenze numeriche più complesse.

Esigenze che sono in parte assecondate da altri sistemi che ancora esistono per il mondo. C’è per esempio una modalità di contare che, anziché accontentarsi delle dita, sfrutta le linee che su ogni dito separano falangi, falangine e falangette. In questo sistema – ancora oggi usato per esempio in alcune parti dell’India – su ogni dito vengono individuate quattro posizioni: in genere le prime, corrispondenti all’1, al 2, al 3 e al 4 sono sul mignolo, dall’estremità più vicina al palmo a salire verso a quella vicina all’unghia. Le ultime quattro posizioni, corrispondenti al 17, 18, 19 e 20, sono invece sul pollice. Pollice che, tra l’altro, per i numeri fino al 16 – per cui quindi non serve – può essere usato per tenere il conto, spostandosi sulle varie posizioni delle altre quattro dita. Così facendo, su una sola mano si può arrivare fino a venti. Esistono poi altri sistemi che sfruttano le nocche e gli spazi tra le dita, in un modo per certi versi simile a quello a cui qualcuno fa affidamento per ricordarsi quanti giorni ha un certo mese.

Nel mondo ci sono però sistemi ancora più complessi, pensati per contare, con il solo uso delle proprie mani, ben oltre il cento e, talvolta, il mille. Alcuni di questi sono semplicemente bidimensionali. Vuol dire, in breve, che una mano viene usata per sommare le unità (e quindi, magari usando il sistema indiano, arrivare fino a venti), e l’altra per tenere conto di quante volte si è arrivati fino a venti. In questo modo, si può arrivare a contare fino a 400 (cioè 20 volte 20).

Sistemi come quest’ultimo – o come l’ancor più avanzato “Chisanbop”, sviluppato in Corea del Sud negli anni Quaranta del Novecento – ne ricordano altri in uso già diversi secoli fa. Come scrisse sul Boston College Magazine Jonathan M. Bloom, professore di arte islamica e asiatica, «le origini della dattilonomia sono ignote, ma è certo che la pratica fosse in uso già nell’antichità classica», e che – viste le necessità e la scarsità di alternative – permettesse di arrivare ben oltre il “venti”.

Plutarco descrisse la pratica già nella Persia nel primo secolo dopo Cristo e, come spiega Bloom, «poeti arabi e persiani del periodo classico usavano talvolta riferirsi al fatto che la mano di qualcuno formasse un 93 per far capire che quella persona aveva il pugno chiuso, segno di avarizia». Questo perché, in base al sistema allora in uso, che richiedeva l’uso di entrambe le mani e permetteva di andare quantomeno fino a 99, la posizione usata per rappresentare il numero 93 richiedeva che una delle due mani fosse chiusa. E la mano chiusa era segno di qualcuno poco propenso ad aprirla per pagare qualcosa.

Anche alcuni versi del Corano contengono riferimenti che sono stati associati alla dattilonomia. Per quanto riguarda invece l’Europa, le tracce letterarie suggeriscono che a Roma si usassero le mani per contare: come l’aneddoto secondo cui una folla mostrò il numero otto con le mani all’imperatore Marco Aurelio, per ricordargli che era stato lontano da Roma per tutti quegli anni.

È invece del settimo secolo “De computa vel loquela digitorum”, il capitolo del libro De temporum ratione che il monaco Beda il Venerabile dedicò al conto con le dita. Nel quale era presentata e spiegata una tecnica per arrivare fino a 9.999, ma che a quanto pare raramente veniva usata per andare oltre il 99. Una tecnica peraltro molto simile a quella che nel 1494 il matematico e religioso Luca Pacioli presentò, con tanto di illustrazioni, nel suo Summa de arithmetica.

Un altro sistema per arrivare e superare il mille con le mani lo spiegò qualche anno fa il matematico James Tanton. È una tecnica, spiegata nella seconda metà del video, che si basa sull’assegnazione a ogni dito di una potenza del 2: 1, 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256 e 512. Con un po’ di aritmetica, ogni numero compreso tra 1 e 1.023 (cioè 210-1) può essere rappresentato alzando solo alcune di quelle dita (per fare 1023, bisogna alzarle tutte, per fare 100 si alzano le dita che corrispondono al 64, al 32 e al 4).

Tanton presenta anche ulteriori metodi che, a patto che si sia parecchio bravi a far di conto e insolitamente abili nel piegare le dita in un certo modo, permettono di arrivare fino a numeri nell’ordine delle decine di migliaia.

Un’altra semplice soluzione trovata in passato da chi doveva contare e non voleva fermarsi a dieci era usare anche i piedi, specie in epoche e culture in cui non erano granché diffuse calzature che li coprissero. Sono molte le culture e le lingue nel mondo che lo hanno fatto, ricorrendo perciò al sistema numerico vigesimale, e in certi casi ne rimangono anche tracce parziali. Perfino in Francia i numeri oltre il 70 si esprimono notoriamente in questo modo – quatrevingt è l’80 – come residuo dell’eredità celtica. Anche in altre culture, segni di questo approccio restano nel fatto che la parola usata per dire “venti” abbia qualche radice comunque con quella usata per riferirsi ai piedi. Si sa inoltre che certe culture dell’Australia e della Nuova Guinea usassero, per contare, anche altre parti del corpo.

Come ha spiegato a BBC Andrea Bender, professoressa e ricercatrice dell’università di Bergen che si occupa di culture e linguaggi, la dattilonomia offre però ancora grandi spazi di approfondimento. Anzitutto nella ricostruzione e nella ricerca di tutti i modi che nel tempo e nel mondo sono stati usati per contare e comunicare certi numeri attraverso le proprie dita, magari per scopi commerciali con persone di un’altra lingua. E poi per capire come determinati approcci abbiano avuto o abbiano tuttora un’influenza su come determinati gruppi di persone pensano e parlano. Lo studio dell’uso delle dita per contare potrebbe inoltre avere diversi punti di contatto con l’etnomatematica, cioè lo studio etnografico di come certe pratiche matematiche sono nate e cresciute.

Nella sintesi di BBC, secondo Bender «fin qui le ricerche hanno a malapena grattato la superficie della moltitudine di modi con cui diverse culture usano le dita per contare». Insieme al suo gruppo, Bender sta quindi per «iniziare una grande ricerca mondiale».

Ci sono comunque alcune possibili prove del fatto che già alcune migliaia di anni fa (su quante, esattamente, c’è un certo disaccordo) anziché usare le mani per contare, alcuni esseri umani le impiegassero per fare segni in sistema numerico unario: il più semplice possibile, che prevede un solo simbolo ripetuto più volte.

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