Il generale che ha guidato il colpo di stato in Sudan
Abdel Fattah al Burhan ha 61 anni e una lunga carriera militare alle spalle piena di conflitti violenti e alleati potenti
Abdel Fattah al Burhan è il militare che ha guidato il colpo di stato compiuto lunedì in Sudan, che ha portato all’arresto del primo ministro e di altri membri del suo governo e alla fine almeno temporanea del potere condiviso tra esercito e civili. Burhan è uno degli esponenti più importanti dell’esercito sudanese, ed è anche un personaggio estremamente controverso: sia perché ha preso parte ad alcuni brutali conflitti che hanno coinvolto il Sudan negli ultimi decenni, come quello in Darfur, sia perché nonostante le sue dichiarazioni non sembra intenzionato a riconsegnare il potere ai civili.
Burhan, 61 anni, originario di una cittadina a nord della capitale Khartoum, entrò in accademia militare molto presto, completando poi la sua istruzione in Giordania ed Egitto, paese con cui ha mantenuto fino ad oggi rapporti molto stretti e di amicizia.
Fece carriera dentro l’esercito soprattutto durante gli anni del regime di Omar al Bashir, durato dal 1989 al 2019 e terminato con un colpo di stato guidato proprio dai militari alleati con l’opposizione civile (il potere condiviso tra militari e civili, terminato con il golpe di lunedì dell’esercito, si era prodotto dagli eventi del 2019). Si distinse in particolare per essere stato uno dei pochi generali non islamisti durante il regime islamista di Bashir: in un certo senso, ha scritto Associated Press, dopo il 2019 questo suo aspetto aiutò il Sudan a venire fuori dalla situazione di isolamento internazionale imposta al paese durante il trentennio precedente.
Uno degli eventi più discussi oggi della carriera militare di Burhan fu la sua partecipazione come comandante dell’esercito sudanese alla guerra in Darfur (regione occidentale del Sudan) iniziata nel febbraio 2003 tra gruppi ribelli e governo centrale, accusato di opprimere le popolazioni locali non arabe. Durante il conflitto, alcune milizie assoldate dall’esercito sudanese, tra cui Janjaweed, furono accusate di enormi violenze, stupri e crimini di guerra contro le persone appartenenti alle comunità non arabe della regione.
È in quegli anni che Burhan si avvicinò molto a Mohamed Hamdan Dagalo, più noto con il soprannome Hemedti. Allora Hemedti era il leader di Janjaweed, milizia che alla fine della guerra confluì parzialmente in un gruppo paramilitare molto potente, le Rapid Support Forces (RSF), considerate una specie di secondo esercito in Sudan, coinvolto anche nel colpo di stato di lunedì. Oggi Hemedti è uno degli uomini più potenti di tutto il paese.
Quello che successe in Darfur è dal 2005 oggetto di un processo al Tribunale internazionale dell’Aia, nei Paesi Bassi.
Burhan non è ancora mai stato incriminato, e in tutti questi anni ha sempre preso le distanze dalle violenze raccontate durante il processo, mostrandosi anche collaborativo con i giudici. Secondo alcuni analisti, tra cui Suliman Baldo, che lavora al centro The Sentry (specializzato in crimini di guerra commessi in Africa), la presenza del processo potrebbe spingere Burhan e Hemedti a non rispettare la promessa di ridare il potere ai civili: mantenersi liberi dal loro controllo, ha detto Baldo, aiuterebbe i due militari a sfuggire alla giustizia internazionale.
Ad ogni modo, la collaborazione tra Burhan e Hemedti continuò anche dopo la guerra del Darfur e durante un altro conflitto in cui fu coinvolto il Sudan: la guerra in Yemen, iniziata nel 2015 tra l’allora governo yemenita appoggiato dall’Arabia Saudita e i ribelli houthi, appoggiati dall’Iran.
Il Sudan intervenne con milizie mandate dal regime di Bashir per combattere contro i ribelli houthi: quindi contro l’Iran, un paese che fino al 2014 era considerato un partner strategico del Sudan. A partire da quel momento, e per diverse ragioni tra cui la speranza di ottenere aiuti economici, Bashir decise di avvicinare progressivamente il Sudan all’Arabia Saudita e ai paesi arabi del Golfo Persico, vicini a loro volta all’Egitto, paese con cui – come detto – Burhan aveva legami di lunga data.
Quando nel 2019, dopo il colpo di stato contro Bashir, Burhan e Hemedti divennero rispettivamente il capo e il vicecapo del Consiglio Sovrano del Sudan, l’organo a partecipazione civile e militare che avrebbe dovuto portare il paese a elezioni democratiche nel 2023, i due militari partirono da quelle nuove alleanze per cercare appoggi all’estero: in particolare il sostegno di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Lo trovarono, e riuscirono a consolidare il proprio potere.
Per il momento gli alleati del Sudan non hanno criticato l’ultimo colpo di stato, ma è ancora presto per dire cosa succederà, e se il nuovo regime sudanese subirà dei contraccolpi internazionali.
Secondo Cameron Hudson, analista ed ex funzionario del dipartimento di Stato americano, non succederà, perché i paesi del Golfo e quelli a guida autoritaria, come l’Egitto, continueranno a preferire che il Sudan sia guidato da leader militari in grado di tenere sotto controllo le proteste, per il timore che quelle stesse proteste possano ispirarne altre nella regione.