Com’è finito il ddl Zan
Quali sono le spiegazioni sullo sgretolamento al Senato della maggioranza che sosteneva la legge contro l'omotransfobia
Metà dell’aula del Senato ha applaudito ed esultato mercoledì all’approvazione della richiesta di «non passaggio all’esame degli articoli», una procedura del regolamento parlamentare che era stata soprannominata “tagliola” e che ha con ogni probabilità affossato definitivamente il disegno di legge Zan: il ddl interveniva su due articoli del codice penale e ampliava la cosiddetta “legge Mancino” inserendo accanto alle discriminazioni per razza, etnia e religione (già contemplate) anche le discriminazioni per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità.
La “tagliola” è stata una tattica dei partiti della destra per bocciare una legge che non volevano, ma è riuscita anche grazie a un certo numero di “franchi tiratori”, senatori delle forze che teoricamente sostenevano la legge e che però hanno votato contro le indicazioni di partito.
Da mercoledì pomeriggio è in corso l’ennesimo duro scontro intorno al ddl Zan, probabilmente l’ultimo: il Partito Democratico, principale promotore della legge, accusa Italia Viva, il partito di Matteo Renzi che aveva avuto un ruolo importante nelle discussioni sulla legge, di aver votato con il centrodestra; Italia Viva accusa il PD di aver gestito l’approvazione parlamentare della legge in modo dilettantesco; la parte moderata di Forza Italia critica a sua volta il PD, per essersi rifiutato di accettare un compromesso e aver fatto fallire consapevolmente la legge pur di non cambiarla; la destra invece esulta, essendo riuscita in un obiettivo strategico su cui aveva investito moltissime risorse, a poche settimane dalle sconfitte alle amministrative.
Ora che il Senato ha accantonato la discussione sul ddl Zan dovranno passare sei mesi prima che la stessa aula discuta di nuovo la legge, che non potrà essere identica. Ma a partire dal deputato Alessandro Zan, primo firmatario, tutti parlano del ddl come di un progetto ormai definitivamente fallito: le trattative sul testo attuale sono probabilmente compromesse, ed è impossibile prevedere come sarà la situazione politica tra sei mesi.
Ricostruire chi e come abbia concretamente fatto fallire la legge è difficile, perché il voto sulla “tagliola” si è tenuto a scrutinio segreto, su richiesta di Lega e Fratelli d’Italia, che sapevano che in questo modo avrebbero avuto più possibilità di ottenere una vittoria. Nelle ultime ore sono stati fatti vari conti su quanti siano stati i “franchi tiratori” nelle forze che sostenevano il ddl Zan.
In Senato c’erano 287 presenti su 320, e quindi la maggioranza era a 145 voti. PD, Movimento 5 Stelle, Autonomie e Italia Viva, i partiti che sostenevano la legge e che avevano annunciato il voto contrario alla “tagliola”, avevano sulla carta 132 voti, ma alla fine ne sono arrivati solo 131. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia ne contavano 130, e ne hanno raccolti 154. In mezzo c’è il Gruppo Misto con le sue varie componenti, dagli ex M5S a +Europa, contraria alla “tagliola”, fino a Idea-Cambiamo, gruppo di centrodestra che era favorevole.
Probabilmente non si capirà mai come sia andata esattamente. Il PD ha ipotizzato ci siano stati circa 16 “franchi tiratori”, individuandoli principalmente tra i senatori renziani che però avevano solo 12 senatori presenti. Secondo le ricostruzioni giornalistiche sono stati probabilmente di più, fino a 23-25, sparsi anche tra le correnti più cattoliche del PD e nel M5S. Ma si sa anche che nel Misto e nella stessa Forza Italia c’erano diversi senatori favorevoli al ddl Zan, e quindi c’è la possibilità che a sabotare segretamente la legge siano stati ancora più senatori nel centrosinistra.
Il ddl Zan nel novembre del 2020 era stato approvato alla Camera con 265 voti favorevoli e 193 contrari, sempre a scrutinio segreto e dopo l’ostruzionismo di Lega e Fratelli d’Italia. Quel disegno di legge, fatto di dieci articoli per meno di dieci pagine totali, era già il frutto di una trattativa tra i partiti, che avevano incluso degli emendamenti presentati da Forza Italia per intervenire sui punti più controversi. Nei mesi successivi però la discussione al riguardo si era polarizzata notevolmente, diventando una questione identitaria sia per i sostenitori che per gli oppositori della legge.
Da una parte i partiti di destra avevano investito molto capitale politico nella campagna contro il ddl Zan, diffondendo un grande allarmismo sui rischi e sugli aspetti controversi della legge. Nell’estate era emerso anche l’intervento del Vaticano, che aveva chiesto al governo di modificare il testo con una criticatissima nota formale.
Dall’altra parte, Zan era diventato un personaggio mediatico, ed era riuscito a suscitare una estesissima e agguerrita mobilitazione tra famosi influencer e personaggi dello spettacolo, che aveva avuto come evidente effetto un diffuso interesse verso l’approvazione della legge specialmente tra i più giovani.
Entrambi questi fenomeni avevano fatto sì che le due fazioni opposte si arroccassero sulle loro posizioni di partenza, riducendo la disponibilità a trattare. E mentre la discussione sul ddl Zan diventava uno dei temi politici centrali della scorsa estate, il percorso parlamentare della legge si era messo male.
La maggioranza che sosteneva la legge era molto meno solida al Senato di quanto fosse alla Camera, per via della composizione del Senato, e sia in commissione che in aula la legge era andata avanti sempre con margini ridottissimi, anche a scrutinio palese. Italia Viva aveva quindi cominciato a insistere sulla possibilità di cambiare la legge pur di arrivare all’approvazione coinvolgendo anche Forza Italia e la Lega, pur sostenendo che avrebbe continuato a votarla anche così com’era. Ma il PD non si era fidato, accusando il partito di Renzi – che ieri peraltro era in visita in Arabia Saudita al momento del voto – da una parte di avere in realtà creato le prime crepe nella maggioranza a sostegno del ddl Zan e di voler usare il pretesto del negoziato per affossarla del tutto, e dall’altra di voler annacquare il testo della legge fino al punto da renderla inefficace rispetto ai suoi obiettivi.
L’incognita maggiore davanti al ddl Zan, a fronte di numeri così risicati, era proprio la prospettiva di sottoporre la legge al voto segreto in Senato. Oggi infatti c’è un diffuso malcontento in diversi partiti, ci sono molti parlamentari interessati a mandare segnali ai propri leader e a sabotare certe strategie favorendone altre. C’entra anche il fatto che l’attuale segretario del PD, Enrico Letta, non è lo stesso che aveva fatto le liste parlamentari (le aveva fatte Matteo Renzi), così come le note forti tensioni interne al Movimento 5 Stelle. Nei prossimi mesi si deciderà poi se questa legislatura arriverà alla sua scadenza naturale nel 2023 o finirà prima, determinando la fine della carriera parlamentare di molti attuali deputati e senatori che non saranno rieletti per via della riduzione del numero dei seggi.
In molti, a questo proposito, hanno visto nelle trame e negli stratagemmi a voto segreto di mercoledì un’anticipazione di quanto avverrà a gennaio con l’elezione del presidente della Repubblica.
Ad ogni modo, era diventato chiaro che il ddl Zan rischiava di non avere una maggioranza al Senato. Ne era nato un durissimo scontro tra PD e Italia Viva. Il PD accusava i renziani di aver tolto il sostegno alla legge per via di uno strategico allineamento di interessi con il centrodestra. Italia Viva sosteneva invece che avrebbe continuato a votare la legge, ma che mancava comunque la maggioranza per via dei senatori scettici di PD e M5S.
In questa rete di accuse reciproche, il PD aveva deciso di non discutere eventuali compromessi con il centrodestra sugli articoli più controversi, come proponeva Italia Viva. In un voto preliminare al Senato, il ddl Zan aveva avuto un solo voto di maggioranza, a scrutinio palese: un segnale evidente che a scrutinio segreto sarebbe con ogni probabilità stata bocciata.
L’importanza di mantenere così com’erano gli articoli contestati, in particolare la definizione di “identità di genere” tra i motivi delle discriminazioni puniti dalla legge Mancino, così come la Giornata contro l’omotransfobia nelle scuole, era sottolineata con grande convinzione dai promotori della legge. «Non si tratta sui diritti» era stato uno degli slogan più citati in quelle settimane.
Senza la sicurezza di una maggioranza, e con nessun progresso nelle trattative, dopo i voti e l’ostruzionismo di luglio e agosto la discussione era però stata sospesa per via delle elezioni amministrative e il ddl Zan era uscito dal dibattito.
Con la nuova calendarizzazione della discussione del ddl Zan, questa settimana, il PD aveva deciso di adottare un approccio molto diverso. Visto che il tempo al Senato era evidentemente poco – per via della legge di bilancio, e poi dell’elezione del presidente della Repubblica – il segretario Letta aveva annunciato che ora il partito era disposto a trattare per modificare la legge e assicurarsi una maggioranza più ampia. Questo radicale cambio di intenzioni, non particolarmente spiegato e motivato, è stato evidentemente tardivo.
Impostare e portare avanti trattative del genere in pochi giorni era infatti difficilissimo, e il tentativo di Letta e Zan è fallito subito. La destra sembrava ormai convinta di poter affossare del tutto la legge, e non aveva interesse quindi a trattare. Italia Viva e una parte di Forza Italia avevano chiesto qualche giorno in più, ma Lega e Fratelli d’Italia non avevano accettato la richiesta del PD di ritirare la “tagliola”. Non si era insomma trovato un accordo, per l’ennesima volta. È proprio per la gestione di questi ultimi giorni che il PD sta ricevendo diverse critiche, secondo le quali l’annuncio di voler trattare doveva semmai arrivare prima, o perlomeno essere accompagnato da una vera strategia che invece è mancata.
Al voto di mercoledì in Senato il centrosinistra è arrivato insomma con una maggioranza per nulla certa, e senza che ci fosse stato tempo per imbastire la nuova dichiarata strategia di mediazione annunciata del PD, che fino a ieri si diceva comunque fiducioso di poter contare su almeno 140 voti in Senato. I conti erano sbagliati di almeno una decina di senatori, e l’iter del ddl Zan è finito in malo modo.