Anche le lumache nel loro piccolo si allevano
E poi si raccolgono, per mangiarle o per sfruttarne la bava: è un settore di nicchia, ma ha dentro approcci diversi e perfino delle rivalità
di Gabriele Gargantini
In un campo di San Martino di Venezze, nel Polesine, sulla riva destra dell’Adige e poco lontano da Rovigo, Roberta Pellegrini sta raccogliendo lumache. Lo fa come fossero funghi o ortaggi: cammina piano, guarda, seleziona e raccoglie. Il campo è suo e le lumache stanno in recinti che occupano una superficie totale di circa cinquemila metri quadrati, all’interno dei quali Pellegrini le ha allevate. Le sta raccogliendo perché ormai è autunno e per le lumache è il momento del letargo: «se vengono due giorni di freddo io non ne trovo più neanche una», dice. Bisogna quindi raccoglierle prima, anche perché «prevedono pioggia, e non si raccoglie col bagnato».
Mentre le prende in mano, Pellegrini le valuta: «questa avrà un mese, è dell’accoppiamento di settembre e, se le condizioni saranno buone, in primavera si svilupperà» dice di una grande quanto un’unghia; «questa è una chiocciolina di tre mesi, a marzo sarà bella matura» dice di un’altra; «questa è di aprile ed è proprio una bella lumaca pronta», commenta mentre ne poggia sul palmo una di circa dieci grammi di peso, nella quale già si vede la «bella bordatura» del guscio. «Queste invece è difficile che vivano oltre l’inverno», sentenzia indicandone alcune oggettivamente ancora molto piccole.
Pellegrini gestisce “La lumaca polesana”, uno dei centinaia di allevamenti italiani di lumache, che si stima coprano insieme un terreno totale di almeno seimila ettari, con un giro di affari annuo vicino ai 200 milioni di euro. Ma sono stime non necessariamente precisissime, perché di molti allevamenti, specie quelli più piccoli, per un mercato perlopiù locale, ci sono poche informazioni. Le lumache sono allevate per essere mangiate, ma anche per altri usi: soprattutto quelli legati allo sfruttamento in ambito cosmetico della loro bava, verso la quale negli ultimi anni c’è stato un interesse crescente, secondo qualcuno esagerato.
C’è chi attorno alle lumache ha costruito grandi attività commerciali e prevede grandi prospettive di crescita. E chi invece, come Pellegrini, gestisce allevamenti di ben più modeste dimensioni e ambizioni.
Nel mondo, le lumache si mangiano da millenni: erano cibi nutrienti e prede evidentemente semplici da catturare. Ma già nel primo secolo dopo Cristo i romani ne allevavano diverse specie, dando loro da mangiare farine e piante diverse, così da modificarne il sapore. I princìpi e i modi con cui sono allevate oggi in Italia sono però in buona parte frutto del lavoro fatto negli ultimi decenni da Giovanni Avagnina, che nel 1978 fondò l’Associazione Nazionale Elicicoltori. Da “elicicoltura”, parola che fu lui a introdurre, con riferimento alla “coltura” di una particolare specie di lumaca nota come Helix.
Avagnina, che ha 72 anni, spiega che le lumache hanno «una carne preziosa dal punto di vista dietetico, senza grassi e con molte sostanze che sono utili al corpo umano». Racconta che iniziò ad appassionarsi di lumache in seguito a studi di veterinaria e che l’idea di allevarle arrivò dopo che «per motivi ecologici di sopravvivenza della specie» ne era stata fortemente limitata la raccolta, prima in alcune regioni italiane, poi in tutta Europa (fatta eccezione per l’isola di Creta). È al momento vietata in alcuni periodi dell’anno, e regolamentata da leggi regionali: in certe aree di Italia c’è ancora tuttavia chi la pratica per venderle all’ingrosso.
Negli ultimi decenni, allevatori diversi in diverse parti d’Italia e del mondo hanno sviluppato approcci, metodi e tecniche diverse. Nella stragrande maggioranza dei casi, restano però sempre validi i princìpi fondamentali proposti da Avagnina, che prevedono che le lumache siano allevate all’aperto, in grandi recinti in cui si possono riprodurre e all’interno dei quali siano coltivate piante con cui nutrirle. In questo modello l’obiettivo non è, come dice Avagnina, «parcheggiare le lumache» ogni anno in attesa che crescano, ma far sì che oltre a crescere si riproducano anche.
È il modo con cui Pellegrini alleva le sue lumache. Lo fa da un po’ più di dieci anni, dopo essersi appassionata all’argomento e dopo aver fatto alcuni viaggi in Francia, in Piemonte e in Sicilia per studiare altri allevamenti. Iniziò con trenta recinti per una superficie totale di oltre 10mila metri quadrati (più di un campo da calcio) al cui interno arrivarono a esserci fino a 80mila lumache. Più della metà morì però il primo anno. In effetti, spiega Pellegrini, «i primi due anni furono pieni di delusioni».
Col tempo, tuttavia, dopo aver deciso di diminuire la superficie totale, dopo aver spostato altrove i recinti, e dopo averci preso la mano («la lumaca è un animale a tutti gli effetti, con tutta una sua serie di problematiche»), le cose andarono meglio. Da qualche anno, aggiunge, «le lumache in movimento in estate sono circa 30mila».
I campi autunnali e ormai non molto verdeggianti in cui le sta raccogliendo vengono arati e seminati a marzo, nel suo caso soprattutto con bietole a foglia larga e con un particolare tipo di colza polacca che ha il vantaggio di avere poco fiore e tanta foglia. Una volta che le lumache sono uscite dal letargo (in genere, in un clima come quello in cui le alleva Pellegrini, verso marzo: «ma questo è stato un anno particolare è quindi sono uscite più tardi»), inizia la parte che riguarda il loro allevamento.
Anzitutto, bisogna assicurarsi che non siano troppe, «non più di 25 per metro quadrato», perché altrimenti c’è il rischio che il cibo non sia sufficiente e che le lumache inizino a mangiarsi tra loro: «quando in un allevamento sono troppe, vince la natura e c’è il cannibalismo», dice.
Poi bisogna far sì che le piante di cui le lumache si cibano abbiano acqua:«nel periodo estivo, di sera, perché con l’acqua troppo calda altrimenti si bruciano e si seccano». Nei suoi recinti, Pellegrini mette anche assi di legno sotto le quali le lumache vanno per essere più riparate e perché lì è più umido. Mentre Pellegrini le sta raccogliendo, la maggior parte delle lumache sta lì sotto, oppure vicino alle reti.
Le lumache vanno inoltre difese ai predatori. I più temibili, nell’esperienza di Pellegrini, sono i topi e le cornacchie. Per i primi i disincentivi principali sono rappresentati, oltre che dalle reti, da apposite lamiere interrate poste ai lati dei recinti e, più semplicemente, da un gatto. Per le seconde, Pellegrini ricorda di avere provato, negli anni, a installare coperture di diverso tipo e di averle trovate tutte troppo costose e comunque non abbastanza efficaci. «Avevo provato anche a mettere sopra il tessuto-non-tessuto» spiega «ma per loro [le lumache] è stato un suicidio perché non essendo inverni freddi venivano fuori e si attaccavano alla rete, e alla prima vera gelata morivano tutte, quindi ho detto basta».
Mentre raccoglie lumache insieme a una sua collaboratrice che la aiuta in tutte le fasi dell’allevamento, Pellegrini spiega che quello che sta per finire è stato «un anno particolare, in cui in tanti recinti la vegetazione è praticamente morta». Da un lato vuol dire che è stata mangiata dalle lumache, che quindi «sono ingrassate bene»; dall’altro significa che a un certo punto rischiava di finire il cibo, e che quindi ha dovuto darne loro altro: per esempio zucche, carote o anche apposite farine, tra l’altro utili per rafforzarne il guscio.
Per riprodursi, le lumache si arrangiano da sole. Sono infatti animali ermafroditi insufficienti: in estrema sintesi, ognuna è dotata di organi maschili e femminili, ma per la riproduzione serve comunque che siano in due. Le lumache che alleva Pellegrini sono della specie Helix Aspersa, molto diffusa in Italia, e diventano sessualmente attive dopo circa sei/sette mesi di vita. Le riproduzioni, in un clima come quello del Polesine, sono due l’anno: le prime già verso aprile («come si svegliano cominciano subito la loro attività sessuale») e già a maggio si iniziano a vedere le prime uova.
In genere da ogni riproduzione ne arrivano tra le 80 e le 100 e «sono come le uova di storione, ma bianche». Le uova, risultato di un accoppiamento che dura alcune decine di ore, sono in genere deposte in piccole nicchie nel terreno, e dopo circa un mese si schiudono in piccole lumache che già hanno il loro piccolo guscio.
Mentre commenta il raccolto – «aspetta che ne ho vista una bella», «questa peserà almeno 12 grammi», «questa fa la timida, non esce» – Pellegrini spiega che oltre alla dimensione il parametro per individuare quali lumache sono pronte (cioè quelle che hanno già raggiunto il loro peso massimo, e che con buona probabilità si sono già riprodotte) è la grandezza della bordatura: il bordo esterno e bianco del guscio.
Dai recinti polesani di Pellegrini qualche lumaca riesce talvolta a evadere («l’orto di mia mamma ne è sempre pieno»), e qualche altra finisce invece per entrare. Oltre alle Helix Aspersa che alleva, delle sottospecie Maxima e Mueller, durante la raccolta le capita anche di trovare una Helix Lucorum, «una lumaca selvatica, di montagna», finita suo malgrado in un recinto con alcune decine di migliaia di altre lumache da allevamento con le quali non può riprodursi, poiché appartiene a una diversa specie.
Questo, a grandi linee, è il modo con cui Pellegrini alleva e raccoglie lumache, talvolta arrivando a raccoglierne anche un quintale in un solo giorno. Ci sono però tanti altri metodi, più o meno simili al suo. A volte sono personali, sviluppati da specifici allevatori; in altri casi sono codificati e omologati in ogni loro aspetto.
È il caso del “metodo Cherasco”, adottato da centinaia di elicicoltori italiani e, da qualche anno, da alcune centinaia di allevatori stranieri. Cherasco è una città di diecimila abitanti in provincia di Cuneo, di cui spesso si parla per il suo stretto legame con una serie di attività che riguardano le lumache. La città è infatti sede dell’Istituto Internazionale di Elicicoltura, a sua volta legato a una serie di marchi del settore.
Dal 2016 l’Istituto Internazionale di Elicicoltura è diretto da Simone Sampò, che ha elaborato il “Disciplinare chiocciola metodo Cherasco”, che propone una serie di regole su come le chiocciole (Sampò preferisce chiamarle così, altri preferiscono invece dire “lumache”, altri ancora alternano e accettano l’una e l’altra dizione) vanno allevate e nutrite, e su come possano poi essere sfruttate in tutta una serie di attività che puntano a creare quella che Sampò definisce “economia elicoidale”. Cioè una sorta di evoluzione – dalle prospettive non totalmente chiare – dell’economia circolare, la cui ambizione è sfruttare le lumache in gastronomia e nella cosmesi, ma anche in settori e attività di altro genere.
«Con l’economia circolare lo scarto diventa risorsa» ha detto di recente Sampò al Venerdì di Repubblica, «in questo caso invece è la stessa materia che si autorigenera e tutto può crescere all’infinito». Per esempio, ha proseguito Sampò, «dal guscio si ricavano prodotti per gli odontoiatri o scrub per l’esfoliazione della pelle» e «l’intestino diventa nutriente per gli allevamenti di trote».
«Ci ho sempre visto del business», aveva detto Sampò un anno fa parlando di elicicoltura a Linkiesta, in una delle sue molte interviste di questi ultimi anni. Nell’articolo – intitolato “L’uomo che sussurrava alle chiocciole, e che ce ne farà innamorare” – Sampò era definito «un visionario, folle, geniale cultore di chiocciole», e diceva:
«Dobbiamo spiralizzarci verso il futuro, questo è il progetto più grande del secolo, la cui ricerca e sviluppo dovrebbero essere supportate dalle istituzioni. Quando le carni rosse non basteranno per tutti, le chiocciole rappresenteranno la più grande alternativa all’alimentazione a base di insetti. Come imprenditore guardo alla famiglia Ferrero, che dalla crema Gianduia ha creato la Nutella. Ecco io voglio essere quello per il mercato, dare al metodo Cherasco un format vincente. Bisogna alimentare il nostro brand, le lumache non saranno più escargot ma chiocciole metodo Cherasco. Qui [a Cherasco] è dove Napoleone ha firmato la pace, dove non è mai arrivata la peste, ora vorrei che Cherasco diventasse famosa come la città delle chiocciole».
In questi ultimi anni il “metodo Cherasco” ha avuto un notevole successo, tra l’altro molto raccontato e celebrato, centinaia di allevatori lo hanno adottato e talvolta già si parla di Cherasco come della “capitale della chiocciola”. C’è tuttavia chi è poco convinto dei modi, delle attività promozionali e dei sistemi di affiliazioni che ruotano attorno al “metodo Cherasco”. Alcuni elicicoltori esprimono dubbi di vario genere nei riguardi di un approccio che, molto in breve, sembra voler offrire a molti allevatori prospettive di guadagni che giudicano irrealistiche. Pellegrini stessa dice che le «aziende commerciali di grande entità» fanno promesse «non reali».
Crede in un approccio di altro tipo anche Avagnina, che di Cherasco è stato sindaco e che dell’Istituto di Elicicoltura di Cherasco è stato fondatore e direttore per molto tempo, ma da cui si è allontanato da alcuni anni. Avagnina, che in passato aveva collaborato con Sampò e con il quale dice di non avere però nessun tipo di rapporto, collabora ora col centro di elicicoltura di Coclè, che ha sede a Piana di Monte Verna, in provincia di Caserta. Il sito dice:
Oggi il Web è molto, forse troppo ricco, di venditori improvvisati di allevamenti, su moduli, in serre, senza recinti e regole; l’unico scopo è la vendita (specialmente tramite internet), di ogni sorta di materiale, lumache non adatte alla riproduzione, mangimi e alimenti che esaltano e promettono crescite velocissime dei molluschi. Purtroppo molti di questi venditori spesso nascono come allevatori e diventano falsi promotori perché il lavoro è meno faticoso.
Al di là delle beghe e delle rivalità interne al settore dell’elicicoltura italiana, in parte dipendenti da questioni personali, Avagnina ha idee diverse sull’approccio con cui vanno allevate le lumache. «Non si possono creare illusioni negli allevatori dicendo che [l’elicicoltura] è il nuovo oro, che si guadagnano un sacco di soldi e che lo possono fare tutti», dice. Secondo lui, in certi casi «si sta facendo una narrazione esasperata di un lavoro agricolo che ha quarant’anni di storia». La sua opinione su certe promesse di guadagni facili e veloci, è che «se fosse così Mediobanca farebbe lumache, anziché altri investimenti».
Secondo Avagnina «si può pensare a imprese elicicole su ampia scala», ma con la consapevolezza che richiedono tempo, investimenti comunque non indifferenti e che sono soggette a tutti i rischi di un’attività agricola. In alternativa, l’elicicoltura deve invece essere «un’attività adatta a persone che hanno terra disponibile e integrano il loro reddito con allevamenti di non eccessiva estensione».
È per molti versi il caso di Pellegrini, che negli anni ha scelto di ridurre la superficie dedicata all’elicicoltura, e la cui attività ha proporzioni ridotte, da piccola impresa agricola, che si regge su un lavoro manuale e con strumenti semplicissimi. Una volta raccolte a mano, le sue lumache vengono infatti portate in un garage in cui ci sono due contenitori con bordi in legno e pareti in rete rigida, all’interno dei quali vengono messe a spurgare, a espellere cioè escrementi e terra.
Alcuni giorni dopo, le lumache “pulite” e ancora vive vengono messe in sacchetti. Pronte per essere vendute, «a 10 euro al chilo se vengono a prenderle, a 12 se devo portarle io». Pellegrini vende le sue lumache al mercato, a privati interessati a cucinarsele a casa e anche ad alcuni ristoranti.
Le sue lumache vengono anche utilizzate per produrre bava, ma non è una cosa che fa lei. In breve, le consegna a un laboratorio che se ne occupa e che secondo una «stimolazione cruelty free» le «spruzza con acqua salata», così da far produrre loro una «bava grezza», che viene poi «controllata, purificata e lavorata» per produrre creme, sieri e detergenti per il corpo e per il viso, e anche un burrocacao. Le lumache usate per ottenere bava possono poi tornare nei recinti, e diventare lumache per uso alimentare, che per Pellegrini resta predominante. A Cherasco, invece, la bava viene ottenuta grazie a un apposito impianto di estrazione che sfrutta «una sostanza ricca di ozono», e che parlando col Corriere della Sera Sampò ha definito una «beauty farm» per chiocciole.
Con riferimento alla bava, Avagnina dice che «è un discorso da prendere con le pinze» e che secondo lui «è una bolla che presto potrebbe scoppiare». Cita a questo proposito dati secondo cui «dal 2019 a oggi il prezzo della bava di lumaca si è dimezzato». Secondo Avagnina bisognerebbe quindi concentrarsi soprattutto sulla produzione per scopi alimentari, che secondo i dati da lui citati cresce di circa il 2-3 per cento l’anno dall’inizio degli anni Ottanta (fatta eccezione per il periodo successivo al disastro di Chernobyl). Anche i prezzi all’ingrosso sono in crescita e ormai vicini ai cinque euro al chilo. Altri dati citati da Avagnina parlano di consumi, nel 2019 in Italia, di 42mila tonnellate di lumache, il 63 per cento delle quali importate dall’estero e per la maggior parte non allevate ma raccolte in paesi fuori dalla Comunità Europea, dove ancora è consentito farlo.
Per quanto a molti potrebbe sembrare vetusta, esotica o per nulla attraente l’idea di mangiare una lumaca, e per quanto il loro peculiare allevamento sia qualcosa di piccolo e non granché noto, l’elicicoltura è un settore a suo modo vivace. In mezzo ai vari metodi e approcci, alle diverse previsioni che oscillano tra «il progetto più grande del secolo» e una «bolla che potrebbe presto scoppiare, rimane centrale un aspetto più legato al sapere contadino. Pellegrini stessa, nel rispondere a diverse domande su tempi, modi e numeri della sua attività usa più di una volta la parola “dipende”, motivando la risposta col fatto che troppi fattori influenzano e modificano certe pratiche, certi abitudini e quindi anche certi risultati.
A essere oggetto di interpretazioni e visioni diverse è lo stesso prodotto di questo settore, che si trova talvolta dall’ortolano (perché tradizionalmente chi raccoglieva lumache lo faceva mentre aveva a che fare con funghi o altri ortaggi, magari per evitare che li mangiassero) e altre volte in pescheria, perché le lumache sono molluschi. Allo stesso modo, qualcuno le considera una prelibatezza e qualcun altro non le mangerebbe nemmeno sotto tortura.
A questo proposito, Pellegrini dice che che prima di pensare di allevarle non le aveva mai mangiate e che ora invece ha iniziato a apprezzarle: soprattutto “pasticciate, alla polesana”. Oltre a mangiarle, è anche finita per essere fortemente identificata con questa sua attività: per questo, qualche anno fa ricevette in regalo «da una ragazza che le aveva prese per dare da mangiare a un camaleonte» alcune «lumache da compagnia, quelle africane». All’inizio erano tre, poi erano arrivate a essere dodici, dopodiché ne ha a sua volta regalate alcune. Ora le tiene a casa, in una teca, ma dice che «sono insulse» e non fanno nemmeno la bava. «Sono più affezionata a queste», dice di quelle che alleva.