Cosa sono state le “baby pensioni”
Dal 1973 al 1992 permisero a più di 400mila dipendenti pubblici di andare in pensione dopo meno di 20 anni di lavoro
Quando in Italia si parla di riformare il modo in cui funzionano le pensioni – cosa che capita ciclicamente da decenni – arriva quasi sempre il momento in cui viene rievocato il caso delle “baby pensioni”, come esempio concreto di alcune riforme del passato alle quali viene attribuita una parte degli attuali problemi del sistema previdenziale.
L’espressione si riferisce a un sistema pensionistico agevolato per i dipendenti pubblici, introdotto nel 1973 e rimasto in vigore fino al 1992, che consentiva di andare in pensione dopo 20 anni di lavoro a tutti i dipendenti pubblici, e dopo 14 anni e 6 mesi alle donne sposate con figli. Si stima che in totale ne abbiano usufruito 424.802 persone, di cui il 56,5% donne, e che ancora oggi il sistema costi alle finanze dello stato più di 7 miliardi di euro all’anno (per avere un’idea delle proporzioni, si stima che introdurre un vero congedo di paternità retribuito e universale costerebbe 1,5 miliardi di euro l’anno).
Il sistema delle “baby pensioni” – voluto dal governo del presidente del Consiglio Mariano Rumor, della Democrazia Cristiana – ha permesso a centinaia di migliaia di dipendenti statali di andare in pensione in media intorno ai 40 anni di età, e in alcuni casi anche prima. Le testimonianze e gli studi di questi decenni mostrano che tante di queste persone hanno poi continuato a lavorare, non sempre regolarmente.
L’introduzione del sistema delle “baby pensioni” da parte del governo italiano va letta nel contesto generale in cui si trovava l’Italia in quel periodo, considerando due fattori: la fine di vent’anni di grande benessere economico e i mutati equilibri della politica italiana.
In quel periodo l’Italia usciva da un periodo di costante crescita economica che negli anni Sessanta aveva portato il Prodotto Interno Lordo (PIL) a crescere con un tasso medio del 6,50% all’anno. Con l’inizio degli anni Settanta, però, l’economia italiana cominciò a rallentare. Proprio nel 1973 in risposta all’appoggio degli Stati Uniti a Israele nella guerra dello Yom Kippur, i paesi arabi dell’OPEC, la principale organizzazione di paesi produttori di petrolio, decisero di porre un embargo sulle esportazioni di petrolio verso molti paesi occidentali, tra cui l’Italia.
Questo fece sì che il prezzo del petrolio aumentasse in poche settimane del 400 per cento, causando una grande crisi energetica. Pochi giorni prima dell’approvazione delle “baby pensioni”, per contrastare gli effetti di questa crisi, il governo Rumor varò un piano di “austerity” che prevedeva tra le altre cose il divieto di circolare in auto la domenica.
Dal punto di vista politico l’introduzione delle “baby pensioni” aiutò la Democrazia Cristiana a non perdere voti nei confronti del Partito Comunista, i cui consensi negli anni Settanta cominciarono ad aumentare sempre di più, fino a raggiungere il loro massimo storico nel 1976.
Nessun partito allora, però, si rese conto di quali effetti potevano avere le “baby pensioni” sul lungo termine, e nemmeno i sindacati, il cui atteggiamento fu piuttosto prudente. Nel 2011 Franco Marini, ex presidente del Senato e tra il 1985 e il 1991 segretario generale della CISL, disse a questo proposito in un’intervista al Messaggero: «Sì, è vero che non c’era nella classe politica né nel corpo dello stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell’impatto che l’allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle “baby pensioni” causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata».
Per comprendere questa mancanza di comprensione della politica di ciò che poteva significare introdurre queste agevolazioni per i dipendenti pubblici, va specificato che dal Dopoguerra il tasso di occupazione era cresciuto rapidamente e quello di disoccupazione si era mantenuto stabilmente sotto il 6% fino all’inizio degli anni Settanta. La popolazione in età lavorativa era mediamente giovane, e la crisi economica non era ancora arrivata. Dovettero passare più di dieci anni perché la crisi mostrasse pienamente i suoi effetti, con il tasso di disoccupazione che superò il 9%. Solo allora la politica si preoccupò degli effetti che le “baby pensioni” avrebbero potuto avere in futuro.
Negli anni Novanta l’esplosione del debito pubblico e l’invecchiamento della popolazione italiana cominciarono a rendere insostenibile lo squilibrio del sistema pensionistico, e si pensò quindi di superare le “baby pensioni” e riformare l’intero sistema previdenziale.
La riforma del 1992 le eliminò del tutto, nonostante in molti continuino ancora oggi a usufruirne, e impose un aumento graduale dell’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini, aumentando anche gli anni minimi di contribuzione da 15 a 20. Con una successiva riforma – la legge Dini del 1996 – si superò inoltre il sistema col quale fino ad allora si calcolava la pensione, quello retributivo, che per il calcolo dell’assegno mensile si basava sulla media delle retribuzioni degli ultimi anni e altri parametri legati all’anzianità contributiva.
Al suo posto venne introdotto il sistema contributivo, che invece si basa sulla somma dei contributi che i lavoratori hanno versato nella loro intera vita lavorativa: l’importo annuo della pensione viene calcolato moltiplicando questa somma per un coefficiente di trasformazione, che varia a seconda dell’età del lavoratore al momento in cui è andato in pensione.