Cosa c’è nei “Facebook Papers”
I documenti che mostrano i problemi di Facebook con la disinformazione non sono nuovi ma hanno diversi elementi notevoli, a partire dal modo in cui sono stati pubblicati
Lunedì diversi giornali americani, e qualcuno europeo, hanno pubblicato contemporaneamente articoli dedicati a Facebook e basati sui documenti interni diffusi dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen. I documenti amplificano e raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza di Facebook nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma, a volte per carenza di mezzi tecnici, e a volte per non danneggiare i profitti che derivano dall’attività delle persone su Facebook.
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Gli articoli usciti lunedì sono decine (il sito di cose tecnologiche Protocol li ha elencati tutti) e sono basati sugli stessi documenti che il Wall Street Journal aveva usato per la sua ampia inchiesta su Facebook, chiamata “Facebook Files” e uscita a puntate tra metà settembre e l’inizio di ottobre.
Haugen, inizialmente, aveva dato accesso esclusivo ai documenti ai giornalisti del Wall Street Journal, ma in seguito ha deciso di consegnare i documenti ad altre testate, che hanno formato una specie di consorzio e hanno accettato di cominciare a pubblicare i loro articoli tutti assieme lunedì mattina (benché alcuni abbiano violato l’accordo, chiamato embargo, e abbiano cominciato a pubblicare venerdì sera).
Il Wall Street Journal, dunque, ha avuto la precedenza sulla consultazione dei documenti e sulla pubblicazione di articoli basati sui leak (le informazioni trapelate), mentre il consorzio degli altri giornali ha avuto la possibilità di accedervi soltanto dopo. La mole dei documenti di Haugen, tuttavia, è così ampia che i giornali coinvolti hanno comunque pubblicato numerosi approfondimenti e dettagli. Hanno fatto parte del consorzio 17 giornali americani, tra cui il New York Times, il Washington Post e riviste come l’Atlantic, più alcuni giornali europei, come il Financial Times e Le Monde.
I giornalisti del consorzio hanno anche deciso di cambiare nome alla massa di documenti, e dunque anche all’inchiesta: mentre il Wall Street Journal aveva parlato di “Facebook Files”, i giornali che hanno pubblicato lunedì hanno parlato quasi tutti di “Facebook Papers”, anche se si tratta grossomodo degli stessi documenti. Non è del tutto chiaro in realtà se i documenti siano esattamente gli stessi, ma comunque lo è la gran parte.
I documenti affidati al consorzio da Haugen sono gli stessi consegnati a una commissione del Congresso americano, e alcuni elementi, come per esempio i nomi dei dipendenti di Facebook, sono stati omessi.
Poiché sono basati sugli stessi materiali, nel loro complesso gli articoli sui “Facebook Papers” ricalcano i temi già trattati dal Wall Street Journal nella sua inchiesta sui “Facebook Files” e descritti da Haugen sia nelle sue apparizioni televisive sia nella sua nota deposizione al Congresso, all’inizio di ottobre: mostrano come la dirigenza di Facebook abbia spesso messo il profitto e la ricerca dell’engagement (cioè il coinvolgimento degli utenti) davanti alla sicurezza e al benessere degli utenti.
Tra le inchieste del Wall Street Journal, per esempio, una delle più rilevanti mostrava come Facebook, nonostante avesse ricevuto un rapporto sui disagi psicologici provocati sugli adolescenti da Instagram (social network di proprietà di Facebook), non avesse preso nessuna iniziativa per risolvere il problema.
Uno dei principali nuovi aspetti dell’inchiesta riguarda il fatto che Facebook sia in gran parte impreparato a contrastare la disinformazione fuori dagli Stati Uniti (dove nel 2020 l’azienda ha impiegato l’87 per cento del suo budget per la creazione di un algoritmo di riconoscimento della disinformazione) e da pochi altri paesi occidentali che considera importanti per il suo business.
Come ha scritto il New York Times, le cose sono enormemente complicate in paesi che Facebook considera centrali, come l’India, dove il social network ha 340 milioni di utenti e dove si parlano 22 lingue riconosciute ufficialmente, più vari dialetti. I documenti di Haugen mostrano che «Facebook non aveva abbastanza risorse in India e non era in grado di gestire i problemi che lui stesso aveva introdotto nel paese, come la proliferazione di post contro i musulmani».
Su The Verge, si racconta che in Etiopia Facebook non ha quasi nessuna risorsa per contrastare il diffondersi della disinformazione, benché nel paese il social network abbia milioni di utenti e un ruolo rilevante nella vita pubblica. Altri esempi riguardano l’Afghanistan, dove Facebook ha 5 milioni di utenti e anche le pagine per denunciare l’incitamento all’odio sono tradotte male.
Il Washington Post si è concentrato invece su alcuni documenti che riguardano l’attacco al Congresso americano dello scorso 6 gennaio, e racconta come nei mesi precedenti all’insurrezione ci fossero state alcune avvisaglie della possibilità che il malcontento organizzato su Facebook potesse trasformarsi in un’azione violenta, ma furono in gran parte ignorate.
Sono citate anche diverse ricerche interne a Facebook, che mostrano come i meccanismi di funzionamento del social network siano funzionali alla diffusione della disinformazione e dell’incitamento all’odio, e di come dentro a Facebook molti dipendenti e dirigenti ne siano consapevoli: in un rapporto del 2019, un ricercatore scriveva che «ci sono forti prove che le meccaniche fondamentali del prodotto siano una parte importante della ragione per cui questo tipo di discorsi [di disinformazione e incitamento all’odio] prolifera sulla piattaforma».
In generale, i documenti di Haugen contengono moltissime discussioni avvenute dentro a Facebook, e mostrano come i dipendenti siano stanchi e sopraffatti dal proliferare di disinformazione e incitamento all’odio: «Con tutto il rispetto, non abbiamo avuto abbastanza tempo ormai per capire come gestire la piattaforma senza amplificare la violenza?», scriveva un dipendente di Facebook dopo l’assalto al Congresso, in risposta al messaggio di un dirigente. «Abbiamo alimentato questo fuoco per molto tempo e non dovremmo sorprenderci se adesso è fuori controllo».
Facebook ha contestato e smentito le ricostruzioni fatte dai giornali basandosi sui documenti di Haugen. Nei giorni scorsi ha anche tentato di screditare la sua ex dipendente, e ha sostenuto che i documenti diano un’immagine incompleta e in gran parte falsa dei processi decisionali dentro all’azienda.
C’è anche una storia di media
Un altro aspetto dei “Facebook Papers” riguarda il modo in cui Haugen li ha consegnati ai giornali del consorzio. Lo ha raccontato Ben Smith, il commentatore di questioni legate ai media del New York Times, che ha descritto come Haugen, dopo aver dato i documenti da lei raccolti al Wall Street Journal, abbia deciso di condividerli anche con altri giornali. Il 7 ottobre, quando ormai l’inchiesta del Wall Street Journal si era conclusa, lei e alcuni suoi collaboratori hanno organizzato una videochiamata su Zoom con i rappresentanti di 17 testate americane, con cui si sono offerti di condividere i documenti ad alcune condizioni, tra cui quella dell’embargo sulla pubblicazione fino a lunedì 25.
Come scrive Ben Smith, i giornalisti coinvolti hanno tutti accettato le condizioni di Haugen, e questo è un segnale dello spostamento dei rapporti di forza tra i media e le loro fonti, che adesso dispongono di “mega-leak”, cioè di enormi quantità di documenti e materiale, e usano varie strategie per assicurarsi che il loro materiale sia adeguatamente diffuso. «Dapprima [Haugen] ha dato i documenti al Journal per un rilascio esclusivo. Poi ha aperto l’equivalente giornalistico di un negozio outlet, consentendo ai giornalisti di due continenti di scandagliare tutto quello che il Journal aveva lasciato indietro in cerca di gemme informative nascoste. La sua intenzione era di allargare il cerchio, ha detto».
I giornalisti delle varie testate, così, si sono trovati riuniti in un consorzio informale patrocinato da Haugen e dai suoi, e per alcune settimane hanno comunicato in una chat su Slack, il programma di chat lavorative, in quella che Alex Heath, giornalista di The Verge, ha definito «la cosa più strana di cui abbia mai fatto parte, dal punto di vista del giornalismo». Il nome della chat, scelto da Adrienne LaFrance, giornalista dell’Atlantic, era: “A quanto pare adesso siamo un consorzio”.
Il consorzio si è spezzato venerdì, quando alcuni giornalisti hanno cominciato a pubblicare i loro articoli prima della scadenza dell’embargo.