La logistica in Emilia-Romagna si regge sullo sfruttamento dei lavoratori
I pacchi consegnati in mezza Italia passano per un sistema di contratti irregolari, licenziamenti improvvisi e cooperative losche
di Isaia Invernizzi e Valentina Lovato
Fuori dal magazzino di Logista, nell’interporto di Bologna, è rimasto solo un cartello. È accanto a una sbarra sempre abbassata e dice “posto di controllo” in diverse lingue. Tra poco sarà spostato, come i nastri trasportatori e i muletti che fino a poche settimane fa trasportavano quintali di sigarette. Migliaia di stecche ordinate in pacchi scaricati ogni giorno dai tir in arrivo dall’estero, dalla Romania e dalla Croazia, smistati e spediti alle tabaccherie di mezza Italia. Nel piazzale del magazzino i camion non entrano più. Gli ultimi dieci operai al lavoro devono smantellare gli scaffali e le postazioni di carico; gli altri magazzinieri, una settantina, aspettano di capire quale sarà il loro futuro dopo aver perso il lavoro attraverso un messaggio inviato via WhatsApp.
Logistic Time, la cooperativa del consorzio Metra che lavorava nel magazzino per conto della multinazionale Logista Italia, l’ha mandato il 31 luglio. Il telefono ha squillato alle 22, era sabato sera. «Buonasera, a seguito della riduzione delle attività, nella data di lunedì 2 agosto 2021 lei sarà dispensato dalla sua attività lavorativa. Il trattamento economico verrà garantito con gli strumenti previsti di legge. Cordiali saluti». Una forma di licenziamento che è stata definita “inaccettabile” da chiunque: dai sindacati, dal presidente della Regione Stefano Bonaccini e dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, nonché da alcuni imprenditori. Ma è solo uno dei tanti licenziamenti che negli ultimi mesi sono arrivati con modalità totalmente inedite per le lavoratrici e i lavoratori della logistica.
«C’è qualcosa che non va se un settore cresce e le condizioni dei lavoratori invece peggiorano», ha detto il ministro Orlando. In Emilia-Romagna, dove la logistica è cresciuta in modo significativo negli ultimi anni, questi casi sono un segnale evidente della precarietà ormai strutturale, di regole inefficaci e di condizioni di lavoro sempre peggiori. Secondo sindacati, associazioni, politici e lavoratori, gli stessi licenziamenti “inaccettabili” avvenuti in Emilia-Romagna presto potrebbero essere la normalità in altre regioni, se la politica non interverrà dopo anni in cui la regolazione del settore è stata perlopiù delegata al mercato, convinti che avrebbe funzionato.
All’interporto di Bologna le strade sono tutte uguali. Capita di perdersi nonostante i grandi cartelli gialli. Le vie non hanno nomi ma numeri. «Logista? Non è più qui. Prima era all’area 7, adesso troverà gli ultimi dipendenti alla 13.2. I nomi delle cooperative cambiano così velocemente che non sappiamo più dove mandare gli autisti», dice un guardiano mentre indica la direzione giusta.
Decine di muratori lavorano alla costruzione di un nuovo capannone nell’area a nord: fino a pochi anni fa l’interporto, che si trova in una zona strategica a nord di Bologna, all’incrocio di cinque direttrici di traffico internazionale, era decisamente più piccolo. Grazie allo sviluppo della logistica è cresciuto fino a occupare una superficie di 4,1 milioni di metri quadri. Se le previsioni saranno rispettate, nei prossimi anni si espanderà per un altro milione di metri quadri.
Pietro De Marco ha 31 anni e ricorda bene il suo primo giorno di lavoro in Logista, nove anni fa. «Sono entrato alle sei di mattina e sono uscito alle undici di sera. C’erano pochi diritti: era la normalità», dice. Anche per questo è diventato delegato del sindacato di base SI Cobas, il più rappresentativo nei magazzini della logistica, non solo in Emilia-Romagna. Solo con le diverse trattative avviate negli ultimi anni, in Logista sono state accolte alcune delle richieste dei lavoratori, come l’applicazione del contratto nazionale e regole più chiare per gli straordinari.
Dal 31 luglio le consuete trattative hanno lasciato spazio alla protesta quotidiana nel tentativo di salvare i posti di lavoro. «Poco dopo aver ricevuto il messaggio su WhatsApp, molti colleghi hanno iniziato a chiamarmi perché non riuscivano a capire cosa volesse dire essere “dispensati dall’attività lavorativa”. Sabato sera alle 22 ci è stato detto che lunedì non avremmo lavorato, poi abbiamo saputo che il 31 luglio il magazzino sarebbe stato chiuso definitivamente». I dipendenti hanno protestato per settimane, hanno organizzato manifestazioni, presidi, e ottenuto la solidarietà delle istituzioni anche se le dichiarazioni dei politici regionali e del ministro del Lavoro sono servite a poco.
Il metodo è stato identico a quello di tante altre chiusure: Logista ha disdetto in anticipo l’appalto con Logistic Time, la cooperativa che lavorava a Bologna, e ha trasferito la gestione della merce in altri magazzini – a Tortona, in Piemonte, e nel Lazio, ad Anagni – dove i costi della manodopera sono inferiori. Le modalità, i tempi e le comunicazioni sono forse inaccettabili, come sono state definite da politica e sindacati, ma rispettose della legge.
All’inizio di ottobre i sindacati confederali, Cgil, Cisl e Uil, che hanno una minoranza di iscritti in Logista, hanno firmato un accordo con l’azienda che prevede incentivi all’esodo fino a un massimo di 25mila euro o trasferimenti a Tortona. Sono state ipotizzate assunzioni in altri magazzini dell’interporto, posti di lavoro di cui però al momento si sa poco. Il sindacato SI Cobas non ha firmato la proposta e ha annunciato di voler continuare la protesta.
Per il vicepresidente di Logista Italia, Federico Rella, gli accordi «sono il risultato dello straordinario lavoro congiunto delle parti coinvolte, dell’impegno sociale e delle importanti risorse economiche poste in campo da Logista Italia e da Logistic Time nell’interesse dei lavoratori coinvolti nella vertenza iniziata lo scorso agosto». Interpellata, l’azienda non ha voluto dare ulteriori chiarimenti. In poche settimane sono stati cancellati quasi cento posti di lavoro.
Il finale è stato lo stesso per i lavoratori di Work Più, una cooperativa che ogni giorno smistava migliaia di pacchi per Nexive, un’azienda di Poste Italiane, in un magazzino a Calderara di Reno, un altro dei poli logistici nell’area di Bologna. Qui arrivavano i tir carichi di pacchi di Amazon, Zara, Zalando: venivano scaricati nei piazzali e divisi a seconda delle città dove erano destinati. Il lavoro iniziava alle otto di sera e finiva verso le cinque di mattina, quando gli ultimi camion lasciavano il magazzino.
Durante il lockdown del 2020, quando non era possibile uscire di casa, gli ordini si sono triplicati e i magazzinieri di Nexive non si sono mai fermati. Hanno smistato pacchi con vestiti, scarpe, detersivi, scope, carta igienica, ma anche piante, biciclette, ricambi per auto. «Un giorno dal cassone di un tir è spuntata anche una motocicletta comprata online, imballata alla perfezione», dice Emiliano Gaida, uno dei cinquanta ex lavoratori di Nexive. «All’inizio dell’epidemia non ci davano nemmeno le mascherine: abbiamo dovuto lottare per averle». Per stare al passo con la crescita degli ordini sono state fatte assunzioni, ma i turni sono diventati pesanti per via dell’enorme quantità di merce spostata ogni giorno.
A scoprire la chiusura del magazzino è stato un giovane lavoratore e delegato sindacale, Matteo Ricco. È successo per caso. Il 28 giugno era a casa e mentre consultava un sito di annunci immobiliari ha notato alcune foto con luoghi a lui familiari. Ha riconosciuto i piazzali, i bancali, i cartelli del magazzino dove lavorava. «In affitto a 20.900 euro al mese», c’era scritto nell’annuncio.
I delegati sindacali hanno cercato contatti con la cooperativa e l’azienda per avere spiegazioni, ma non hanno avuto risposte fino al 17 settembre, quando è stata annunciata la chiusura, fissata al 30 settembre. Sono stati messi tutti in ferie forzate e nessuno è più tornato al lavoro. «In questo settore la precarietà è fin troppo normale», dice Ricco, che ha 21 anni e a novembre inizierà a cercare un nuovo impiego. «Raccontiamo cosa ci è successo per mettere in guardia i colleghi di altri magazzini, perché purtroppo vicende come la nostra capitano sempre più spesso. Non è possibile lasciare a casa cinquanta persone da un giorno all’altro».
La logistica è diventato uno dei settori più strategici dell’economia grazie alla globalizzazione e all’e-commerce. Nelle 90mila imprese che operano in Italia lavorano 1,5 milioni di persone, secondo le stime del ministero del Lavoro. Il fatturato complessivo è di 80 miliardi di euro all’anno. Secondo i dati dell’osservatorio B2c del politecnico di Milano, nel 2020 in Italia sono stati fatti acquisti online per oltre 30 miliardi di euro in crescita del 45 per cento rispetto all’anno precedente.
Centinaia di migliaia di pacchi ordinati online arrivano quotidianamente nelle case di tutta Italia, nel giro di pochi giorni e in alcuni casi in poche ore dall’ordine, perché le piattaforme sono costruite a misura di consumatore, con alle spalle una rete di magazzini sempre più estesa e un sistema di consegne efficiente e veloce. Ogni passaggio è controllato per rispettare i tempi stabiliti e garantire la soddisfazione del cliente.
Dal 2003, con la legge Biagi che riformò il sistema di tutele previsto dalla legge contro il caporalato, la 1369 del 1960, le aziende hanno spinto verso l’esternalizzazione del lavoro con la conseguenza di un aumento dei casi di sfruttamento. Grazie a questa nuova regolamentazione, molto più permissiva, le grandi aziende della logistica possono lavorare in Italia con pochissimi dipendenti diretti: fanno affari grazie a una catena di appalti e subappalti formata da cooperative, mini appaltatori e microaziende che applicano contratti con un costo del lavoro molto più basso rispetto al contratto collettivo nazionale.
Spesso gli stipendi vengono pagati in parte con indennità di trasferta, esente da tasse, senza che il lavoratore si sia mai spostato dal magazzino. Oppure si ricorre al metodo del falso part time: su dieci o dodici ore al giorno lavorate, in busta paga ne compaiono quattro o cinque. Nella catena degli appalti le responsabilità sociali sono diluite e i lavoratori, la maggior parte immigrati, sono più deboli, con poche possibilità di rivendicare i propri diritti.
Con meno tutele e diritti diminuisce anche la sicurezza sul lavoro. Nella notte tra mercoledì 20 e giovedì 21 ottobre nell’area 13.4 dell’interporto di Bologna è morto Yaya Yafa, 22 anni, assunto solo due giorni prima da un’agenzia interinale come addetto allo spostamento della merce per il consorzio Metra, nell’ambito dell’appalto Dedalog, nel magazzino di SDA, una delle grandi aziende della logistica, di proprietà di Poste Italiane. Mentre stava scaricando un camion è rimasto schiacciato tra il veicolo e la ribalta numero nove del magazzino.
La procura ha aperto un’indagine per omicidio colposo, i sindacati hanno indetto uno sciopero di due ore all’interporto. Il neo sindaco di Bologna, Matteo Lepore, ha convocato un incontro con Regione, ispettorato del lavoro e sindacati per «valutare e condividere assieme le azioni da intraprendere per rispondere al tema della qualità del lavoro nell’ambito del settore logistico».
In un sistema così libero, strutturato su più livelli a volte nascosti, non è raro trovare illegalità. Gli ispettori del lavoro non devono sforzarsi più di tanto: se ne scoprono nella maggior parte dei controlli. Secondo l’ultimo rapporto annuale di tutela e vigilanza in materia di lavoro, pubblicato dall’Ispettorato del lavoro, nel 2020 in Emilia-Romagna sono stati rintracciati 6.821 lavoratori irregolari. Il 75 per cento delle cooperative controllate è risultato irregolare e il “trasporto e magazzinaggio” è stato uno dei settori con il tasso di irregolarità più alto, al 71,7 per cento. L’Emilia-Romagna è risultata anche prima regione in Italia per numero di lavoratori coinvolti (1.696) in “illecite esternalizzazioni di manodopera in materia di appalti”.
Per molte di queste cooperative l’epidemia da coronavirus è stata un’occasione. Anche nella logistica, nonostante la crescita avvenuta durante il lockdown, sono state aperte procedure di cassa integrazione senza troppe giustificazioni. «Bastava dire “cassa Covid”: i controlli sono stati minimi», spiega Eleonora Bortolato, sindacalista di SI Cobas. «Molte multinazionali ne hanno approfittato e con la scusa di riorganizzare hanno spostato la merce in altre parti d’Italia. Si discute molto delle delocalizzazioni all’estero, ma queste non sono meno gravi».
Secondo Bortolato, in Emilia-Romagna il mercato della logistica si è sviluppato in maniera più rapida rispetto al resto d’Italia e negli ultimi mesi, dopo lo sblocco dei licenziamenti, le speculazioni sotto forma di riorganizzazioni hanno avuto un’accelerazione. I più danneggiati sono i lavoratori dei magazzini che negli ultimi anni avevano ottenuto condizioni salariali migliori. «Con la scusa della crisi hanno spostato la merce da Bologna, dove un lavoratore prende 9 euro all’ora, in altre regioni, dove i nuovi assunti vengono pagati 6 euro all’ora e sono precari. Succede tutto in pochissimo tempo e senza che nessuno possa intervenire: significa che qualcosa non torna», dice Bortolato.
Alla base delle scarse possibilità di intervento delle istituzioni c’è anche il rifiuto del confronto da parte delle multinazionali, che non si presentano quasi mai ai “tavoli di crisi”, come vengono chiamati gli incontri in cui si cerca di trovare una soluzione ai licenziamenti. Fausto Tinti, sindaco di Castel San Pietro e consigliere delegato alle Politiche del lavoro e ai tavoli di salvaguardia del patrimonio produttivo della città metropolitana di Bologna, spiega che molte aziende si riorganizzano solo sulla base del profitto perché non hanno legami con il territorio.
«Non possono dire “riorganizzo, chiudo, e lascio tutti a casa” come se niente fosse», dice. «Le multinazionali usano tutte le possibilità garantite dalle leggi senza tutelare l’occupazione. Guardano solo tempi e costi. Un processo di riorganizzazione, anche alla luce delle tutele garantite alle aziende durante l’epidemia, dovrebbe essere accompagnato dalla ricerca di soluzioni sostenibili per i lavoratori e le lavoratrici. Purtroppo capita raramente».
A chiedere più controlli non sono solo i lavoratori, i sindacati e le istituzioni, ma anche le stesse associazioni delle cooperative. Francesco Milza, presidente di Confcooperative dell’Emilia-Romagna, sostiene non siano pericolose in quanto tali. «Il modello delle cooperative è stato sfruttato come strumento privilegiato per operazioni non regolari e i primi danneggiati siamo noi che lavoriamo da decenni nel rispetto del territorio e dei lavoratori», spiega. «Ci siamo imbattuti in casi clamorosi: in una cascina abbandonata c’era la sede di quaranta cooperative».
Negli ultimi anni in Emilia-Romagna sono nate cooperative che nel giro di pochi mesi hanno assunto centinaia di dipendenti e fatturato milioni di euro prima di chiudere dopo appena due anni di attività. In queste operazioni si nascondono le irregolarità e, talvolta, gli affari della criminalità organizzata. Milza dice che servirebbero più controlli sulle cooperative neonate, un sistema di allerta che scatta quando la crescita è così rapida da essere sospetta. «Inoltre i committenti, le multinazionali, devono avere la responsabilità di verificare se le imprese stanno pagando contratti regolari».
Il 7 luglio, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha annunciato la creazione di una task force per contrastare le illegalità nel settore della logistica. Ci sarà una condivisione delle banche dati tra ministero del Lavoro, ispettorato del lavoro, INAIL, Agenzia delle Entrate, procura nazionale antimafia e carabinieri per la tutela del lavoro: l’obiettivo è distinguere le cooperative vere da quelle finte o vuote, analizzare in modo approfondito il fenomeno delle esternalizzazioni e la catena degli appalti. A quasi vent’anni dalla liberalizzazione della logistica, anche con i controlli serrati annunciati dal governo non sarà semplice trovare una soluzione alla situazione già consolidata di un settore che ha potuto espandersi e strutturarsi sfruttando regole lasche e vincoli facilmente aggirabili.