L’importanza dei riti, e dei ghiri, per la ‘ndrangheta
Le iniziazioni sono seguite da grandi mangiate di roditori, in una delle tante tradizioni bizzarre ma centrali dell'organizzazione
Durante una recente perquisizione a Delianova, in provincia di Reggio Calabria, in un’operazione antidroga, i carabinieri hanno trovato nel freezer di un’abitazione 235 ghiri surgelati. Altri erano vivi, in gabbie, pronti per essere ingrassati e poi uccisi. Le cene a base di ghiro, animale protetto e considerato da qualcuno un cibo proibito, non sono rare in alcune zone della Calabria. È una tradizione antica, un piatto che risale agli antichi romani, presente anche in altre regioni italiane e che in Calabria riguarda anche i riti di ‘ndrangheta.
È un’abitudine radicata soprattutto in alcune zone, sull’altipiano della Sila, nel cosentino, e nelle serre dove si incontrano le province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Catanzaro. Secondo un rapporto della Lav, la Lega antivivisezione, nel solo comune di Guardavalle, in provincia di Catanzaro, ne vengono catturati 20.000 l’anno.
Grandi cene a base di ghiri, in tegame o in umido, seguono i battesimi, e cioè le iniziazioni dei nuovi affiliati della ‘ndrangheta, oppure gli incontri che sanciscono le alleanze o la risoluzione di una disputa. È anche il piatto da offrire agli ospiti, un messaggio che simboleggia l’evasione della legge dello stato, l’esistenza di regole locali. Due anni fa un gruppo di affiliati a una ‘ndrina – una cosca della ‘ndrangheta – fu individuato mentre era a caccia di ghiri di notte: ne aveva catturati 200. La caccia avviene sempre di notte, quando ogni tipo di caccia è vietata, soprattutto tra settembre e ottobre quando i ghiri si preparano al letargo.
Ha detto al Post Enzo Ciconte, docente di Storia della criminalità organizzata e autore del libro Riti criminali – I codici di affiliazione alla ‘ndrangheta: «Le cosiddette “mangiate” sono importantissime per l’organizzazione criminale. Vale la stessa regola dei matrimoni: essere invitati o esclusi ha un significato preciso. Vale come esempio la storia di Carmelo Novella, detto “lo scissionista” che voleva rendere indipendente il suo ramo lombardo dell’organizzazione dalla madre patria Calabria. Quando ci fu un importante matrimonio in Aspromonte, talmente grande che dovettero prenotare due ristoranti, lui non fu invitato. Poco dopo lo ammazzarono».
La ‘ndrangheta si basa su riti e tradizioni, alcuni appaiono grotteschi ma servono sempre a sancire appartenenza e lealtà. È un’organizzazione criminale che fa affari in tutto il mondo, che si è impiantata nel Nord Italia e nei Paesi Bassi, in Germania e in Canada, in Spagna e Regno Unito che siede in consigli d’amministrazione e controlla aziende, che guadagna enormi quantità di denaro. Ma ovunque si trovino, gli affiliati rinforzano il legame con il territorio dei padri e dei nonni.
Nelle tasche di una delle vittime della strage di Duisburg, in Germania, dove il 15 agosto del 2007 sei esponenti della famiglia Pelle-Vottari furono uccisi dagli affiliati alla ‘ndrina Nirta-Strangio, fu trovato un santino bruciato, segno che era appena terminato un rito di affiliazione.
Sempre in Germania, in un bar di Singen nel Land del Baden-Wurttemberg, ci fu una riunione di ‘ndrangheta filmata dalla polizia. Prima di iniziare il capo della ‘ndrina, per battezzare il locale, pronunciò queste frasi: «Io lo battezzo come lo hanno battezzato i nostri tre cavalieri di Spagna… i nostri tre cavalieri che dalla Spagna sono partiti, se loro hanno battezzato con ferri e catene, con ferri e catene lo battezzo io… se loro hanno battezzato con carceri scuri e carceri penali, con carceri scuri e carceri penali lo battezzo io».
In Svizzera, a Frauenfeld, venne ripresa un’altra riunione. Lì prima di iniziare il capo disse: «Io vi battezzo utilizzando ceppi e catene, nella stessa maniera in cui i nostri cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso l’avevano fatto in Spagna, nel 1830, prima del loro arresto in Calabria».
È una filastrocca, una leggenda che le famiglie della ‘ndrangheta si tramandano da generazioni. Osso, Mastrosso e Carcagnosso erano cavalieri spagnoli che facevano parte della Garduña, società segreta di Toledo, che arrivarono in Italia nel 1412, fuggiti perché colpevoli di un delitto d’onore: avevano ucciso un uomo che aveva offeso una loro sorella. Restarono, secondo la leggenda, 9 anni, 11 mesi e 29 giorni nell’isola di Favignana, davanti a Trapani, in Sicilia, che poi lasciarono dopo aver scritto le regole della società, e cioè le leggi mafiose. Andarono in Sicilia, Calabria e Campania dove fondarono mafia, ‘ndrangheta e camorra.
Secondo altre credenze, sia della ‘ndrangheta sia della camorra, Osso rappresenta Gesù Cristo, Carcagnosso raffigura San Pietro e Mastrosso San Michele Arcangelo. «È una storia inventata che ha uno scopo identitario» spiega Ciconte. «I ragazzini della ‘ndrangheta crescono ascoltando questa favola così come altri crescono con Cappuccetto Rosso. I giovani ‘ndranghetisti saranno così convinti di discendere da una stirpe nobile, i tre cavalieri, e di avere un compito d’onore e non di essere semplici delinquenti. È la stessa storia dei Beati Paoli siciliani, la setta dei vendicosi. Non sono probabilmente mai esistiti ma i mafiosi se la tramandano come segno di appartenenza a una stirpe nobile».
Nella sentenza emessa dal Tribunale di Reggio Calabria al termine del processo Crimine-Infinito contro le cosche impiantate nel Nord Italia si legge: «È evidente che non può parlarsi di una ‘ndrangheta vecchio stile che si limita a rituali inoffensivi e di una ‘ndrangheta militare che si insinua negli affari o che si dedica al narcotraffico: la ‘ndrangheta, anche quella che importa dal Sudamerica o che ricicla nei mercati finanziari mondiali ingenti risorse economiche, è quella che ha come substrato imprescindibile rituali e cariche, gerarchie e rapporti che hanno il loro fondamento in una subcultura ancestrale risalente nel tempo, che la globalizzazione del crimine non ha eliminato ma che probabilmente costituisce la forza di quella organizzazione e il suo valore aggiunto».
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Non esiste, in sostanza, una ‘ndrangheta moderna e spietata e un’altra che celebra ricorrenze con cene a base di ghiri pronunciando strane formule di rito: è la stessa, che rimane legata alla tradizione nonostante i ricambi generazionali. Qualsiasi cambiamento non può prescindere dal rispetto delle liturgie e delle regole. Durante un processo il collaboratore di giustizia Giovanni Iannò disse alla Corte: «la ‘ndrangheta è una e sola, ordina delitti, ci sono state le faide, ci sono stati omicidi fra di loro, faide locali e tutte cose ma è una ‘ndrangheta. È un corpo, ha regole e nasce a Reggio Calabria e si radica in tutte le parti del mondo».
Quando cominciò l’operazione Crimine-Infinito, nei primi anni Duemila, nell’elenco di indagati in Lombardia c’erano 17 imprenditori nel campo dell’edilizia. C’erano un architetto, un biologo, cinque pensionati, un cuoco, un organizzatore di meeting, il titolare di una ditta di abbigliamento, il proprietario di un vivaio. Il pubblico ministero di Milano, Alessandra Dolci, disse: «Mi sono chiesta, ma come può un imprenditore che sta in Lombardia da vent’anni, che ha condizioni agiate, ha una fabbrica, dipendenti, una famiglia, chiedere lui, perché è così, perché così è andata, di essere affiliato alla ‘ndrangheta? Perché?».
Molti di quegli indagati erano stati filmati dalle forze dell’ordine il 2 settembre, quando la tradizione ‘ndranghetista vuole che i capi si ritrovino a rendere omaggio al santuario della Madonna di Polsi, a San Luca, in una valle nell’Aspromonte.
Spiegò Nicola Gratteri, magistrato impegnato da anni nella lotta alla ‘ndrangheta: «Ogni anno a settembre nel santuario della Madonna di Polsi in pieno Aspromonte, nel Comune di San Luca, i capimafia si riuniscono per discutere le strategie criminali. È considerato un luogo sacro non solo per i pellegrini ma anche per la ’ndrangheta. Si riuniscono a Polsi perché è il luogo della custodia delle 12 tavole della ‘ndrangheta. Perché la forza della santa, rispetto alle altre organizzazioni criminali, è che fa osservare in modo ortodosso le regole». La Santa è la società maggiore, cioè il livello più alto dell’organizzazione. Le 12 tavole sono quelle in cui, secondo la leggenda, sono scritte le regole dell’organizzazione e che sarebbero custodite proprio a Polsi.
Già nel 1901, in un rapporto di un tenente dei carabinieri alla Regia Procura di Reggio Calabria, c’era scritto: «L’ingresso nella società ha luogo ordinariamente il 2 settembre di ogni anno alla festa della Madonna di Polsi d’Aspromonte, in prossimità del convento dove si radunano i principali capi delle associazioni a delinquere dell’intera provincia e di quelle vicine».
Da allora molte cose sono rimaste uguali. Un collaboratore di giustizia, Rocco Varacalli, disse che prima di riunirsi i capi devono lasciare le armi a una cosiddetta sentinella che le ritira pronunciando questa cantilena: «Mi travesto da sbirro d’omertà e perquisisco ogni uomo della società». Anche il rito della perquisizione è antico: serviva a evitare che le discussioni potessero degenerare in scontri ma anche ad assicurarsi che ogni affiliato avesse con sé un’arma, cosa imprescindibile per gli uomini d’onore. Varacalli racconta che quando fu affiliato, alla fine della cerimonia gli venne chiesto che cosa aveva da offrire all’organizzazione. «Io risposi la Jeep, pensando che dovessi regalare qualcosa. Tutti si misero a ridere e gli spiegarono che doveva offrire una cena e baciare in fronte tutti i presenti».
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Enzo Ciconte nel suo libro riporta la testimonianza di un carcerato che venne affiliato alla ‘ndrangheta in cella a Saluzzo quando aveva già 30 anni (un’anomalia perché l’affiliazione arriva di solito a 14-15 anni). Così raccontò il rito del battesimo, che viene chiamato anche rimpiazzo oppure “fare qualcuno malandrino”: «Giurai che non sarei mai andato contro le regole della società a costo anche di andare contro la mia famiglia. Da quel momento non ero più quello di prima visto che occupavo un posto da uomo. Mi praticarono un taglio a forma di croce sulla parte superiore del pollice destro vicino all’unghia. Dal dito destro dovevano cadere tre gocce di sangue dentro un piatto».
Uno ‘ndranghetista di grado più elevato prese poi un santino di San Michele Arcangelo, lo bruciò parzialmente, mise la cenere sulla ferita. «Quindi bruciò completamente il santino e mi disse: “Quando non ci saremo più saremo come questa polvere”. Poi mi insegnò il gergo dello sgarrista, il primo livello dell’affiliato: “Osso è il capo società, Mastrosso il contabile, Carcagnosso il mastro di giornata, quello che svolge l’attività quotidiana. L’onorata società per noi è l’albero della scienza suddiviso in fusto, rifusto, ramo, ramoscello e fiore. I primi tre rappresentano la maggiore mentre gli altri due la minore. Tutto insieme è l’onorata società”». Per maggiore e minore si intendono i due livelli in cui è divisa l’organizzazione.
Anche in carcere il rito, che preferibilmente viene celebrato l’ultimo sabato del mese al tramonto, si conclude con la classica mangiata. E il ghiro difficilmente manca.
Il primo livello di uno ‘ndranghetista è quello di picciotto, non ancora affiliato. Poi, man mano che si conquista spazio nell’organizzazione, aumenta la dote (è il grado, ma nessuno dell’organizzazione utilizza il termine considerandolo “da poliziotti”). Scrisse in un memoriale il pentito Antonio Belnome, ‘ndranghetista di Giussano, in provincia di Monza e Brianza: «Una volta entrato a far parte della ‘ndrangheta non riuscirai a uscirne. È come una droga per un drogato, ti entra nella pelle e nel sangue, acquisisci la sua mentalità, diventi sempre più spietato. Una volta che si raggiunge l’apice è finita: non puoi più fidarti di nessuno, devi guardarti alle spalle, spostarti da un luogo all’altro, fuggire dai nemici. E alla fine ti ritrovi solo, senza famiglia e senza amici».
Dopo il picciotto c’è il camorrista e poi lo sgarrista. Quindi si entra nella società maggiore. Prima santista, poi vangelista, quindi quartino, trequartino e padrino. Per le doti maggiori i riti cambiano: a Osso, Mastrosso e Carcagnosso subentrano Mazzini, Garibaldi e Lamarmora oppure Gasparre, Melchiorre, Baldassarre e Carlo Magno. Per lo sgarrista, che ha come santa protettrice Elisabetta, i cavalieri sono Minofrio, Mismizzu e Misgarru. Per il padrino la formula è una specie di filastrocca: «A nome del principe russo, conte Leonardo e fiorentino di Spagna, con spada e spadino è formato il Padrino».
Durante un processo, il pentito Gianni Cretarola spiegò così i riti della ‘ndrangheta a un giudice: «Lei ieri mi ha fatto una precisazione dicendo “Parliamo dei riti o parliamo della favella dando un tono di colore a questa udienza”. Volevo precisare che queste cose che le ho raccontato non sono né una nota di colore né un folklore calabrese ma sono ciò che costituisce la vera forza, il vero collante della ‘ndrangheta: sono quello che la differenziano da tutte le organizzazioni criminali a livello mondiale; sono quello che fanno resistere gli affiliati all’interno delle carceri anni e anni di galera e di condanne».