Le conseguenze di Brexit, finora
È passato meno di un anno dall'uscita del Regno Unito, e ne abbiamo visto soltanto un piccolo pezzo
L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, completata a gennaio, torna spesso sulle pagine dei quotidiani italiani ed europei per ragioni che quasi sempre hanno a che fare con la politica, che sia un nuovo compromesso con l’Unione sullo status dell’Irlanda del Nord o l’approccio del governo britannico guidato dai Conservatori verso le nuove istanze indipendentiste della Scozia. Raramente si parla dell’impatto concreto che Brexit ha avuto in questi mesi e avrà nei prossimi anni.
L’unica cosa su cui sono d’accordo quasi tutti gli analisti è che quest’impatto avrà una lunga durata: siamo appena all’inizio di una storia che proseguirà ancora per molto tempo.
Nei primi mesi del 2021 erano circolate moltissime stime sulle conseguenze negative che Brexit avrebbe avuto per il Regno Unito nel breve-medio termine: erano dati che non negavano nemmeno i sostenitori di Brexit, convinti che i vantaggi si sarebbero visti solo nel lungo periodo. Secondo l’Ufficio per la responsabilità del bilancio (OBR), un’agenzia indipendente del governo britannico, il PIL britannico si è contratto dello 0,5 per cento nei primi quattro mesi del 2021 a causa della confusione e della riorganizzazione dovuta al nuovo accordo commerciale fra il Regno Unito e i paesi dell’Unione Europea, meno favorevole rispetto a quando il Regno Unito faceva parte dell’UE.
Più di recente la Commissione Europea ha stimato che entro il 2022 il Regno Unito perderà il 2,25 per cento del PIL per via del nuovo accordo commerciale, mentre sempre secondo l’OBR sia le esportazioni sia le importazioni del Regno Unito sono destinate a calare del 15 per cento rispetto a un’eventuale permanenza all’interno dell’Unione Europea.
Se i dati e le stime sugli scambi commerciali sono le più facili da calcolare perché si applicano a quantità misurabili – tonnellate di merci che transitano dentro e fuori dal Regno Unito – Brexit ha avuto e avrà conseguenze in centinaia di settori diversi, dall’educazione al mercato del lavoro passando dal calcio: sono tutte conseguenze più difficili da misurare.
Nel corso del 2021 inoltre è diventato ancora più difficile stimare il suo impatto a causa della pandemia da coronavirus, che ha provocato una crisi economica e sociale in quasi tutto il mondo. «È estremamente difficile separare il fattore-Brexit dalla crisi economica generata dall’impatto dei lockdown», ha scritto di recente sul Guardian Anand Menon, che insegna Politiche europee al King’s College di Londra.
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Ma anche se la pandemia non fosse accaduta, osserva Menon, «l’impatto economico di Brexit era comunque destinato ad assomigliare più a una piccola foratura che allo scoppio improvviso di una gomma, e i suoi effetti più sottili di quanto una certa retorica anti-Brexit aveva anticipato».
Lo si vede bene da una delle crisi più recenti che il Regno Unito ha dovuto affrontare nelle ultime settimane, cioè la carenza di autotrasportatori per rifornire sia la grande distribuzione organizzata sia i distributori di benzina. L’associazione di categoria degli autotrasportatori britannici ha spiegato che negli ultimi mesi circa 20mila autotrasportatori europei che lavoravano nel Regno Unito hanno lasciato il paese, quasi sicuramente per i timori di difficoltà burocratiche per via di Brexit. E già dai primi mesi del 2020 sono stati cancellati per via della pandemia circa 40mila test per ottenere la patente da autotrasportatore.
In certi casi è più facile attribuire disagi del genere a Brexit. Nelle ultime settimane per esempio nel Regno Unito si sta parlando parecchio del fatto che nei giorni di Natale i supermercati potrebbero avere a disposizione pochissimi tacchini, un piatto tradizionale nei pranzi natalizi britannici.
Kate Martin, dell’associazione di categoria degli allevatori di tacchini britannici (TFTA), ha spiegato all’agenzia PA News che mentre i piccoli allevatori usano soprattutto manodopera locale, i grandi distributori si appoggiavano su manodopera specializzata europea che veniva assunta per far fronte all’aumento di richieste del periodo natalizio. Per via di Brexit non sarà più possibile assumere questi lavori specializzati (i permessi di lavoro per gli europei sono stati ridotti a poche categorie di lavoratori ultra-specializzati). E sempre per via di Brexit sarà difficile importare tacchini dall’Europa, dati i costi sempre più alti delle importazioni legate all’aumento della burocrazia alla frontiera.
A fine settembre il governo ha cercato di mettere una pezza annunciando un meccanismo temporaneo per garantire 5.500 permessi per lavoratori specializzati nell’allevamento del pollame, un numero più alto persino dei permessi speciali emessi per gli autotrasportatori: ma non è chiaro quanti di loro faranno effettivamente domanda, né come il governo intenda risolvere più stabilmente la carenza di manodopera in questo reparto, che riguarda anche gli allevatori di pollame che riforniscono i fast food.
Ma per riprendere la metafora della foratura, in questi mesi si sono appena intraviste alcune delle conseguenze che Brexit avrà in certi settori nei prossimi anni.
Entro il 2026 i paesi dell’Unione Europea si sono impegnati a cedere gradualmente le quote di pesca nelle acque britanniche che erano garantite loro dall’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea. Dal 2026 in poi le quote saranno negoziate su base annuale.
Ma su un tema così divisivo e identitario, soprattutto per il dibattito interno nel Regno Unito, è logico pensare che sorgeranno divergenze e possibili incidenti. All’inizio dell’estate, per esempio, il governo britannico aveva minacciato di far intervenire la Marina per risolvere una controversia sull’accesso alle acque di Jersey, una piccola isola nel canale della Manica formalmente parte del Regno Unito ma frequentata soprattutto da pescatori francesi, e dipendente dalla Francia per il proprio fabbisogno energetico.
Il governo conservatore britannico ha inoltre segnalato l’intenzione di allontanarsi dalla stringente legislazione europea in fatto di protezione dei dati personali, che comprende anche il famigerato Regolamento generale sulla protezione dei dati (General Data Protection Regulation, o GDPR).
L’Economist fa notare che se l’attuale regolamentazione, riconosciuta come sufficiente dalle autorità europee, venisse indebolita, «o se il Regno Unito stipulasse degli accordi di condivisione dei dati con paesi poco severi, o se decidesse di non cooperare con la Commissione Europea su questi punti», l’UE potrebbe decidere di non ritenere il Regno Unito un paese sicuro per la condivisione di dati personali a partire dal 2025, con conseguenze estesissime e in parte imprevedibili.
Così come sulla protezione dei dati personali, le conseguenze di Brexit dipenderanno anche da molte decisioni che dovrà prendere il governo britannico. Una su tutte è politica, ma riguarda anche l’economia e molti altri settori: la gestione delle spinte autonomiste e indipendentiste di Irlanda del Nord, Scozia e in misura minore Galles. Senza di loro, di fatto, non esiste più un Regno Unito, ma soltanto l’Inghilterra.
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La più delicata riguarda l’Irlanda del Nord. Dopo gli accordi di Brexit, l’Irlanda del Nord è rimasta nel mercato comune europeo e nell’unione doganale per evitare che venisse costruita una barriera fisica con l’Irlanda. La permanenza dell’Irlanda del Nord ha comportato però molti nuovi controlli e pratiche burocratiche per le merci in arrivo dal resto del Regno Unito, che hanno già causato diversi disagi alle persone che vivono nell’Irlanda del Nord, ma anche danni economici per le aziende inglesi.
Qualche giorno fa la Commissione Europea ha proposto alcune misure per ammorbidire i controlli esistenti. Per ora il Regno Unito ha rifiutato, chiedendo inoltre di rimuovere dagli accordi la possibilità che in caso di alcune controversie l’Unione Europea possa fare causa al Regno Unito di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il principale organo giudiziario dell’Unione. Bloomberg avverte che queste tensioni potrebbero portare a una guerra commerciale, cioè all’imposizione di dazi reciproci sui prodotti in entrata: un’eventualità che sia le aziende europee sia soprattutto quelle britanniche vorrebbero scongiurare.
Nel frattempo il governo di Boris Johnson si sta difendendo dalle varie accuse su Brexit spiegando che i disagi sono temporanei e che i suoi benefici si inizieranno a vedere nei prossimi anni. «Sono convinto che nel lungo termine l’agilità, la flessibilità e la libertà che ci garantisce Brexit avrà un valore maggiore nell’economia globale del 21esimo secolo rispetto alla mera vicinanza ad un mercato», ha detto di recente il ministro dell’Economia, Rishi Sunak.
Anche diversi commentatori sono convinti che il governo dei Conservatori dovrà intervenire pesantemente per risolvere i molti problemi che Brexit ha causato e causerà. Di recente Martin Wolf, uno dei principali editorialisti economici del Financial Times, ha scritto che per realizzare la visione di Sunak e di Johnson il governo dovrebbe approvare una serie di riforme gigantesche e ambiziose, fra cui «un ingente piano statale per finanziare l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori, il mantenimento di generosi tassi di credito per stimolare gli investimenti, e la cessione di alcune competenze – incluse quelle fiscali – agli enti locali». Ma al momento, conclude Wolf, «nessun piano del genere sembra all’orizzonte».