La parte vera di “Squid Game”
Quella che racconta il problema dell'indebitamento privato, che in Corea del Sud è sempre più grave e diffuso
Tralasciando per un istante il fatto che racconta i complessi e sadici giochi mortali allestiti da una misteriosa organizzazione che prima recluta e poi segrega centinaia di partecipanti, uno dei temi centrali della serie di Netflix Squid Game è l’indebitamento in Corea del Sud.
È a causa dei loro debiti che 455 persone partecipano a quei sadici giochi nella speranza di sopravvivere e vincere così 45,6 miliardi di won sudcoreani (pari a un po’ più di 30 milioni di euro). Anche nella realtà, in Corea del Sud l’indebitamento è un grave problema. Lo è da tempo – il creatore della serie iniziò a lavorarci più di dieci anni fa – ma negli ultimi anni le cose sono molto peggiorate, in parte a causa della pandemia.
La Corea del Sud, ha scritto il Guardian, «è un paese in cui chiedere un prestito è tanto facile quanto bere un caffè». A chiederli sono liberi professionisti che provano a lanciare o mantenere aperta la loro attività commerciale, famiglie che cercano di comprarsi una casa (sono particolarmente costose quelle vicino a una scuola) e giovani in cerca di lavoro, che spesso rischiano i soldi nel mercato azionario o in quello ancora più volubile delle criptovalute. Giovani che spesso vivono in case che uno di loro ha definito «giusto un poco meglio rispetto a una bara».
Il problema dell’indebitamento di molti privati si inserisce quindi nel contesto generale di un paese con un divario salariale crescente, con una sempre maggiore disoccupazione giovanile, in cui le case sono sempre più costose e in cui la rete di protezione sociale è considerata poco efficace e la pressione sociale per affermarsi estrema.
I recenti problemi sono una conseguenza della crescita economica portentosa con cui negli ultimi decenni (gli ultimi tre in particolare) la Corea del Sud è riuscita a superare i problemi successivi alla Guerra di Corea degli anni Cinquanta, affermandosi come una delle più grandi potenze asiatiche. La crescita ha comportato però un accentuarsi delle diseguaglianze e sempre maggiori difficoltà e conseguenti pressioni sociali su milioni di sudcoreani che, come ha scritto il Korea Times, «devono ora lottare contro il lato oscuro di quella crescita».
L’indebitamento totale delle famiglie sudcoreane cresce da anni (quest’anno è aumentato del 10 per cento rispetto al 2020) ed è ora superiore al PIL del paese, una cosa che non succede in nessun altro paese asiatico. Come ha spiegato al Guardian Lee In-cheol, direttore del think tank Real Good Economic Research Institute, «in termini individuali vuol dire che perfino se una persona riuscisse a mettere da parte ogni singolo won guadagnato in un intero anno, quella somma non sarebbe comunque sufficiente a ripagare a pieno il debito». Oltre al valore assoluto del debito sta salendo anche il numero di persone indebitate.
Bisogna poi considerare il fatto che difficilmente i dati ufficiali riescono a raccontare con precisione la grandezza del fenomeno, visto il proliferare di persone ed enti che – un po’ come in Squid Game – prestano soldi a interessi altissimi, spesso anche al 200 per cento annuo, quando il massimo consentito in Corea del Sud è del 20 per cento.
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«È difficile avere dati sul settore dei prestiti illegali sudcoreani» ha scritto sul Los Angeles Times la corrispondente da Seul Victoria Kim, «ma sembrano essere ovunque». Solo nel 2020, l’ente del governo che cerca di vigilare su questo settore, ha ricevuto quasi 300mila segnalazioni di pubblicità di attività di prestiti illegali, il 25 per cento in più rispetto al 2019.
Kim ha scritto che, a differenza di quanto mostrato in Squid Game, non sembra cosa comune tra chi offre prestiti illegali chiedere organi del debitore come possibile risarcimento o quantomeno come forma di minaccia. Sembra però che un tempo si facesse davvero, e perfino Seo Jung-jin, uno degli uomini più ricchi della Corea del Sud, ha raccontato che un paio di decenni fa firmò un contratto in cui “impegnava” i suoi organi. Kim ha scritto che ora, tra chi presta soldi illegalmente, è più frequente chiedere o ottenere informazioni su familiari, parenti e amici del debitore, così da perseguitarli in vario modo qualora il creditore fosse inadempiente.
Kim ha anche raccontato la storia di uno di questi debitori: un uomo descritto come «proprietario di una piccola catena di caffetterie» che tre anni fa chiese il suo primo prestito illegale (con interessi al 210 per cento) così da pagare i suoi dipendenti e lasciare aperta la catena, in crisi già prima della pandemia. L’uomo, che così come molti altri lotta ancora contro l’effetto domino innescato da prestiti di quel tipo, ha detto che al momento deve restituire entro 60 giorni due prestiti da 15mila euro circa, ma che più in generale ha debiti complessivi nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro. «Non ho bitcoin, azioni, eredità o proprietà immobiliari», ha detto, «per qualcuno come me, per come funziona la Corea del Sud, è impossibile farcela senza prestiti privati».