Il massacro degli algerini a Parigi
Avvenne 60 anni fa durante una manifestazione per chiedere l'indipendenza dell'Algeria dalla Francia: ne ha riparlato Macron in un modo che però non è piaciuto a tutti
Sabato il presidente francese Emmanuel Macron ha partecipato a una cerimonia commemorativa sulle rive della Senna vicino al ponte di Bezons (Parigi), uno dei luoghi del massacro degli algerini avvenuto a Parigi sessant’anni fa: nel massacro, a lungo taciuto dalla Francia e per decenni al centro di dibattiti e controversie, furono uccise decine di algerini, probabilmente più di duecento.
Nel comunicato stampa pubblicato dall’Eliseo si dice che la Francia «guarda con lucidità a tutta la sua storia e riconosce le sue responsabilità chiaramente stabilite», attribuendo al governo francese maggiori colpe di quelle già assunte dall’ex presidente francese François Hollande, nel 2012.
Macron ha parlato di una «tragedia» che è stata a lungo «taciuta, negata o occultata» e «ha riconosciuto i fatti»: i crimini commessi la notte del 17 ottobre 1961 «sotto l’autorità del prefetto di Parigi, Maurice Papon, sono imperdonabili per la Repubblica».
Nel 1961, la guerra d’Algeria era entrata nel suo sesto anno: da una parte c’era l’esercito francese e dall’altra gli indipendentisti algerini guidati dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN, Front de Libération Nationale). Lo scontro si svolse principalmente in Algeria ma a partire dal 1958 – dopo il crollo della Quarta Repubblica, l’avvento della Quinta e il ritorno al potere di Charles de Gaulle – gli indipendentisti decisero di aprire un secondo fronte in Francia.
Mentre il governo de Gaulle avviava i negoziati di Evian con i capi dell’FLN, quelli che poi portarono a un cessate il fuoco e misero le basi per l’indipendenza dell’Algeria, Parigi diventava un nuovo territorio dello scontro.
Da una parte c’erano gli attentati organizzati dall’FNL, dall’altra le repressioni e le uccisioni compiute dalla polizia francese e, parallelamente, dall’Organisation armée secrète, un gruppo paramilitare clandestino ostile all’indipendenza dell’Algeria e alla politica del generale de Gaulle. «Per ogni colpo ricevuto, ne restituiremo dieci», affermò il 2 ottobre del 1961 l’allora prefetto di Parigi Maurice Papon, un collaboratore dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale che nel 1998 fu condannato per la deportazione di 16mila ebrei di Bordeaux.
Il 5 ottobre Papon ordinò il coprifuoco dalle 20 alle 6 del mattino, solo per i “musulmani algerini”. Di fronte a questa imposizione, la Federazione francese del FLN decise di rispondere in modo collettivo e pacifico. Iniziò dunque a organizzare una marcia a cui parteciparono, il 17 ottobre del 1961, all’ora del coprifuoco, tra i 20 mila e i 30 mila algerini arrivati delle periferie e dai vari quartieri della capitale in treno, metropolitana o a piedi. Le direttive erano chiare: non portare armi e soprattutto non rispondere alle provocazioni.
La polizia rispose barricando gli ingressi della città e l’uscita delle stazioni della metropolitana, iniziando ad arrestare, caricare e manganellare i manifestanti. E quando nelle questure cominciarono ad arrivare le false notizie di poliziotti aggrediti o uccisi dai manifestanti, la repressione divenne violentissima. I manifestanti vennero picchiati a morte, uccisi a colpi di pistola o gettati nella Senna, vivi o morti, a volte con mani e piedi legati. I cadaveri riaffiorarono a decine nei giorni successivi. In 15 mila vennero arrestati e portati in tre luoghi di detenzione.
Quel giorno, nel suo comunicato, la polizia parlò solamente di due morti e di 44 feriti. Poco dopo, il bilancio delle vittime venne ufficialmente aumentato a 3 morti e 64 feriti e Maurice Papon specificò che «una dozzina di agenti» era stata portata negli ospedali.
Il bilancio dell’FLN fu da subito molto diverso. Il gruppo parlò di 200 morti, 400 dispersi e 2.300 feriti. Trent’anni dopo, nel 1991, lo storico Jean-Luc Einaudi documentò che erano morti 200 algerini.
Nel maggio 1998, in un rapporto commissionato dall’allora ministro dell’Interno Jean-Pierre Chevènement, il bilancio ufficiale delle vittime venne rivisto e portato a 32. Un anno dopo, sulla base di alcuni atti giudiziari, venne di nuovo alzato a 48, una cifra che viene comunque considerata falsa. Molti storici concordano sul fatto che quella giornata fu solo l’apice di un periodo più lungo di repressione e che tra settembre e ottobre di quell’anno i morti siano stati tra i 100 e i 300, più di cento nella sola giornata del 17 ottobre.
Il massacro degli algerini di Parigi fu per lungo tempo un pezzo di storia francese oscuro e poco raccontato: «Nel 1962 c’era il desiderio di dimenticare», ha detto lo storico Fabrice Riceputi, desiderio condiviso politicamente sia dalla destra che dalla sinistra socialista.
Diversi politici e dirigenti che ebbero un ruolo nella repressione del 17 ottobre rimasero in carica per molto tempo e, tra loro, anche Maurice Papon, che divenne ministro del Bilancio durante la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing.
Le dichiarazioni di Macron per l’anniversario del massacro degli algerini di Parigi sono arrivate in un momento di crisi nelle relazioni tra Francia e Algeria: il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune aveva ritirato il suo ambasciatore a Parigi e proibito i voli militari francesi sul suo territorio.
Il comunicato dell’Eliseo è stato criticato un po’ da tutti. Per molti storici e per le associazioni dei discendenti delle vittime, la dichiarazione è stata deludente perché il massacro degli algerini a Parigi non è stato qualificato come “crimine di stato” («Fu un crimine di stato, non della prefettura», ha riassunto ad esempio su France 24 lo storico Gilles Manceron). La destra e l’estrema destra hanno parlato di un eccessivo atto di pentimento («Emmanuel Macron continua a sminuire il nostro paese», ha scritto ad esempio Marine Le Pen). E dall’Algeria il presidente Abdelmadjid Tebboune, partecipando a una commemorazione, ha parlato del colonialismo «cronico» della Francia.