L’utopia dell’allevamento etico
Sul Monte Amiata, in Toscana, due donne vivono con 135 maiali di una razza ritenuta estinta, e c’è chi pensa che il loro prosciutto sia il più sano del mondo
di Claudio Caprara
Per arrivare al Felcetone, l’azienda agricola fondata nel 2005 da Giovanna De Cola e Tinti De Devitiis, ci si deve arrampicare sul Monte Amiata fino al comune di Seggiano, in provincia di Grosseto. La strada, salendo, si restringe e alla fine diventa un sentiero. Dall’alto si vede un panorama che comprende la Val d’Orcia e Montalcino.
«L’Amiata è un vulcano, chilometri sotto terra c’è una grande attività e noi sentiamo l’influsso di questi movimenti: stare qui ci dà molta energia», dice De Cola.
Tinti, più di settant’anni, ha una passione per le filosofie e la medicina orientale, ed è vegetariana. Una vegetariana che gestisce un’azienda agricola di allevamento suino e caprino. «Non mangiare carne per me è una disciplina. Ogni persona può scegliere di mangiarla: io la cucino, sono contenta se le cose che preparo piacciono. Non ho nessun problema nei confronti di chi la mangia».
Che si sia in un posto speciale è facile capirlo, guardando Giovanna che con il forcone sposta porzioni di fieno dalla balla, per darle ai cavalli che stanno sotto i castagni. Ha 83 anni, ma un’energia da quarantenne. «Sono una contadina allevatrice da sempre. Mi sono dedicata all’agricoltura biologica e al recupero delle razze in estinzione. Io non sono vegetariana: mi piace prendere forza dagli animali che ho allevato». De Cola è laureata in pedagogia a indirizzo psicologico, una pratica che ormai applica solo per capire i suoi animali.
Le due donne si conoscono dai tempi del liceo, dai salesiani, a Roma. La passione per i cavalli le ha fatte diventare amiche e lavorare insieme nell’azienda agricola della famiglia De Cola, a nord della capitale. Cavalli ce ne sono ancora al Felcetone: alcuni sono della linea del Maremmano Antico, ci sono dei Sella Italiano (una razza in via di estinzione) e poi dei Sella Francese. Non si tratta dell’attività prevalente della fattoria, ma la testimonianza dell’antica passione.
Le due allevatrici sono concentrate sui 135 maiali della razza Macchiaiola Maremmana e sulle 40 capre di Montecristo che pascolano nella loro tenuta.
«Non ci eravamo mai occupate di maiali, ma un professore, con cui abbiamo collaborato per tanto tempo, una quindicina di anni fa mi ha detto che aveva visto sulle montagne del pistoiese una coppia di maiali neri, che riteneva della razza Macchiaiola. Abbiamo fatto un po’ di resistenza, ma una mattina si è presentato qui con un camion con due scrofe».
La Macchiaiola Maremmana è una razza antica di maiali neri (da non confondere con la Cinta Senese) che vivevano nella macchia – senese e grossetana, allo stato brado o quasi. Ad un certo punto se ne erano perdute le tracce perché non c’erano più le famiglie contadine che mandavano i loro ragazzi a seguire i maiali: i pochi rimasti sono stati chiusi nelle stalle e in quelle condizioni erano difficili da gestire e di conseguenza sono stati abbandonati.
Per la certificazione della specie, parallela alle analisi genetiche e del DNA, c’è stata una ricerca storica e sulle opere d’arte per trovare conferme sulle origini della razza e sui trattamenti a cui veniva sottoposta la Macchiaiola Maremmana. Dopo questi studi la razza è stata iscritta nel Repertorio Regionale Toscano delle risorse genetiche animali.
È proprio durante queste analisi che avviene l’episodio che cambia la storia del Felcetone. Due maiali vengono prelevati per essere macellati, ma già dalle modalità violente adottate per il trasporto, dai loro urli – secondo le due allevatrici – il resto del branco rimane scioccato.
Fino all’uccisione dei maiali, si segue una procedura standard per la macellazione, secondo le normative europee. Giunte al mattatoio le bestie sono spinte in un ambiente con un pavimento bagnato. A quel punto viene loro somministrata una scossa elettrica per stordirle, prima di essere uccise.
Purtroppo, soprattutto nel caso di una razza semi brada, che ha sviluppato una struttura più forte e una pelle più spessa, questo modo di agire si rivela particolarmente inadeguato. I macchiaioli, infatti, sono in grado di resistere al normale voltaggio utilizzato per gli altri maiali e non sono per nulla storditi dopo la scossa elettrica. La sofferenza di questi animali si è rivelata superiore a quella dei normali capi allevati.
«È stata la prima volta che si verificava un tale scempio, ma per noi è stata anche l’ultima», dice Giovanna Di Cola. «L’uomo ha diritto di cibarsi dell’animale, ma non ha il diritto di farlo soffrire in nessuna fase della vita. Dalla nascita alla morte un animale va rispettato nelle sue esigenze di sostentamento, di spazio, di tempi di crescita e, soprattutto, dall’inizio alla fine della sua esistenza non deve avere stress», aggiunge Tinti De Devitiis.
Tinti e Giovanna hanno un rapporto stretto con i loro 135 maiali. Li chiamano per nome. «I maiali sono animali sensibili e delicati, non dico che siano come i cani, ma quasi – sostiene Tinti – ti vengono incontro, ti riconoscono… non posso sopportare che possano essere torturati».
C’è anche un problema che riguarda l’effetto che hanno l’adrenalina e l’acido lattico sulla qualità della carne. Le tossine che si producono negli animali con il terrore che precede l’abbattimento sono pericolose: «L’adrenalina è tossica – spiegano al Felcetone – nel momento della morte dell’animale rimane nel suo sangue e nei suoi tessuti, come se fosse un cattivo condimento. Nella carne fresca si mangia, mentre in quella conservata e negli insaccati, per evitare che imputridisca, i normali produttori sono obbligati a mettere dei conservanti». Infatti gli insaccati dei primi due capi abbattuti con il metodo tradizionale – per loro che non usano mai additivi chimici – hanno rivelato problemi di conservazione: «erano duri come pietre».
Le due donne si definiscono “allevatrici etiche”, ma per mandare avanti l’azienda i maiali si devono comunque ammazzare: «Certo. Ma per noi è stato essenziale trovare un altro metodo di abbattimento dei maiali, non solo per convinzione etica, ma anche perché, accanto al recupero della razza Macchiaiola, abbiamo recuperato l’antico metodo di conservazione e lavorazione della carne, che ovviamente non prevede nessuna componente chimica. L’analisi storica ci ha rivelato che i contadini, dal Medioevo fino all’inizio del ‘900, non si potevano permettere il pepe e, per fare il prosciutto, la salsiccia e tutti gli altri insaccati, utilizzavano le erbe della macchia, mescolate insieme. Per arrivare all’equilibrio migliore di questo miscela è servito del tempo, per fare esperimenti con il nostro norcino e verificare quale fosse il dosaggio migliore».
«Per due, tre anni – spiega De Cola – abbiamo rispettato il Regolamento per la macellazione, che prevede che gli animali siano portati al mattatoio per gli abbattimenti. Noi abbiamo sfruttato la possibilità di macellare singoli capi, per il consumo famigliare, come si faceva una volta nelle aie. In questo modo abbiamo cominciato a fare una sperimentazione con produzioni che non sono entrate in commercio, con lo scopo di evitare al massimo la sofferenza per gli animali, per non sciupare la carne e per lavorarla sperimentando con metodi naturali».
La formula che ha convinto le due allevatrici è questa: un norcino “capo sparo” entra nel recinto dei maiali mentre tutti stanno mangiando, si avvicina con una pistola silenziata, spara. Il maiale colpito cade morto e gli animali vicini non si accorgono di nulla e continuano normalmente la loro giornata.
Il maiale ucciso poi viene appeso e dissanguato, e i lavori per “disfare il maiale” proseguono a casa: i risultati qualitativi si sono rivelati ottimi.
Col passare del tempo l’attività delle due donne allevatrici e dell’università produsse un interesse e una maggior sensibilità della Regione Toscana verso il recupero delle specie animali e per l’etica dell’allevamento, tanto da scegliere di rendere operativa nella provincia di Grosseto un’unità mobile di mattazione (è un macello in un container, portato in giro da un camion), adatta per le lavorazioni in allevamenti a gestione famigliare. «Gli animali non devono spaventarsi ed essere caricati vivi per fare il loro ultimo viaggio, per i piccoli allevatori è stato un bel sollievo: trasportare i capi al mattatoio è un costo significativo che in questo modo viene azzerato. Purtroppo, anche su questa soluzione la burocrazia pubblica ha causato la sospensione l’esperimento».
Al Felcetone capirono che difficilmente il pubblico poteva trovare una soluzione soddisfacente e cercarono qualcuno che in Europa aveva affrontato e risolto lo stesso problema. «A un certo punto abbiamo scoperto un allevatore tedesco».
Si tratta di Ernst Hermann Maier, allevatore dell’azienda agricola Uria a Balingen-Ostdorf, titolare di un grande allevamento di bovini: ha inventato un box mobile per la macellazione, che permette di abbattere gli animali nel loro ambiente, di rendere minimo il dolore, la paura, il panico evitando situazioni di tensione anche per gli altri animali del branco. Maier è un innovatore, è stato tra i primi ad introdurre l’uso dei microchip senza perforazione auricolare, al posto degli attuali marchi con il codice identificativo apposti bucando le orecchie dell’animale.
«Maier ha brevettato e prodotto una cassa trasportabile, la Mobilen Schlachtbox MSB – spiega De Cola – che permette di scomporre i primi due passaggi che avvengono normalmente nel mattatoio: l’abbattimento e la messa in sicurezza igienica della carne. Compiendo queste operazioni direttamente in azienda».
Una cosa che si fa in Germania non è detto che si possa fare automaticamente anche in Italia, anche se le regole europee sono le stesse. Per avere l’autorizzazione ad utilizzare il Schlachtbox sono stati necessari numerosi passaggi al ministero, alla Regione, alla Asl. Decine di studi, documenti, filmati. «Il problema è che nessuno si voleva prendere la responsabilità di firmare».
Ci sono voluti quattro anni di rimpalli amministrativi, ma alla fine, nel 2018, le due signore di Seggiano hanno ottenuto quello che volevano, e la Schlachtbox è stata donata loro dalla fondazione Elsa e Nando Peretti.
«Per tutto quel periodo – ricorda De Devitiis – ci hanno preso per matte: avevamo i maiali e non li macellavamo. Che fanno queste: la collezione di maiali? Si chiedeva la gente qui attorno. Ma la nostra scelta era chiara».
In Strade blu noi andiamo a cercare degli indizi di futuro. Siamo consapevoli che il modello che si pratica al Felcetone è interessante dal punto di vista etico e culturale, ma non lo è affatto dal punto di vista economico. «Gli allevatori che hanno diecimila maiali non possono fare il lavoro che facciamo noi – conviene De Cola – ma se i grandi si facessero un mattatoio aziendale, per gli animali la situazione sarebbe migliore».
Naturalmente la Macchiaiola dovrebbe vivere in libertà, ma per controllarne il mantenimento, evitando ad esempio gli accoppiamenti con i cinghiali, al Felcetone i maiali vivono in grandi recinti in uno stato semi brado. C’è comunque un’attenzione ad offrire loro rifugio per i momenti di intemperie e per l’inverno.
«Abbiamo fatto delle capanne con il pavimento di legno – dice De Cola – perché non è affatto vero che i maiali vogliono dormire sulla terra o sul bagnato. Anche se stanno allo stato selvatico vanno a cercare il letto di foglie. D’estate, invece, abbiamo predisposto delle vere e proprie docce: così possono fare il bagno di fango e difendersi dai parassiti». Insomma, sull’Amiata c’è una specie di beauty farm per maiali, dove gli animali vivono per non meno di due anni e mezzo.
Le scrofe potrebbero anche partorire due volte l’anno, ma in questo allevamento non lo si ritiene corretto. «Non sono macchine», sostengono.
Tutta questa delicatezza stride un po’ con il fatto che ad un certo punto questi animali devono essere ammazzati. «Ci dispiace doverli abbattere, ma c’è un motivo che non ci fa avere dubbi: il sacrificio di un animale serve a dare continuità alla sua famiglia. Con la produzione e la vendita dei prodotti del maiale si garantisce la continuità e la qualità della vita degli altri».
Ci sono persone che continueranno il vostro lavoro? La risposta è dura e netta: «Al momento no».
De Cola spiega che a loro piacerebbe che il lavoro che stanno facendo, il patrimonio economico, ma soprattutto culturale che hanno accumulato in questi cinquant’anni di amicizia e collaborazione diventasse una fondazione dove continuare – come hanno fatto prima della pandemia – a formare giovani agricoltori e a fare ricerca sulle specie in estinzione.
Stanno lavorando su questo: hanno creato Arcobaleno sul Felcetone, l’associazione che dovrebbe essere la base della fondazione.
«Noi abbiamo fatto queste cose con tanta passione e con tanto rispetto, ma al momento non abbiamo trovato le persone che hanno la passione, che è l’unica molla che può far continuare un’attività come questa».
Non c’è nessuna stravaganza nelle analisi e nelle posizioni che tengono queste due donne. Sono persone che hanno fatto della loro vita un modello di coerenza su idee intense e precise. Utopiche? Forse, ma anche concrete.
«Quando io vado a proporre i nostri prodotti – dice Tinti, che del Felcetone è la direttrice commerciale – e spingo sull’aspetto etico i nostri possibili compratori non danno a questo elemento un particolare valore. Credo che su questo la strada da fare sia ancora molto lunga».
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