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  • Mercoledì 13 ottobre 2021

Chi sono gli “hikikomori” in Italia

Cioè le persone che interrompono i contatti col mondo esterno e vivono in ritiro sociale: è un fenomeno presente da tempo ma finora poco studiato

di Susanna Baggio

Immagine tratta dal video “Flora - Caic” del cantautore catalano Ferran Palau
Immagine tratta dal video “Flora - Caic” del cantautore catalano Ferran Palau

In Italia negli ultimi anni si è sentito parlare sempre più spesso dei cosiddetti “hikikomori”, ovvero persone che abbandonano progressivamente le attività scolastiche, extrascolastiche o lavorative per ritirarsi in isolamento nella loro casa o nella loro stanza per periodi prolungati di tempo, indicativamente da sei mesi fino a diversi anni. Le persone che vivono in ritiro sociale volontario rinunciano a poco a poco alle relazioni con chi aveva fatto parte della loro vita, talvolta anche con i familiari, e spesso occupano il tempo impegnandosi in varie attività su internet, per esempio tenendosi in contatto gli uni con gli altri su forum e chat o guardando film e serie tv.

Questo fenomeno è stato individuato dapprima in Giappone, dove è diventato una questione sociale di rilievo, ma da almeno una quindicina d’anni è piuttosto presente anche in Italia, dove però è ancora molto poco studiato.

Gli hikikomori sono stati spesso definiti “eremiti dei tempi moderni” e la loro situazione può dipendere da moltissimi fattori diversi. Il loro non è un disturbo riconosciuto a livello scientifico e va distinto anche dalle diverse psicopatologie alle quali può comunque essere collegato, come la depressione o la dipendenza da internet. È stato osservato perlopiù in società fortemente competitive e coinvolge soprattutto adolescenti e giovani adulti, motivo per cui negli ultimi anni hanno cominciato a interessarsene anche le scuole e le istituzioni.

Un po’ di storia
Il termine hikikomori fu utilizzato per la prima volta nel 1998 dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito, che fuse i verbi “hiku” e “komoru”, cioè ritirarsi e stare in disparte. Saito coniò questo termine per descrivere tutte quelle persone a cui non era stato diagnosticato alcun disturbo, ma che avevano deciso di chiudersi in casa e interrompere i contatti con il mondo esterno – nei casi più estremi anche quelli tramite internet – come risposta a situazioni di malessere di vario tipo, esponendosi poi al rischio di sviluppare psicopatologie come conseguenza dell’isolamento.

Gli hikikomori vivono isolati dal mondo esterno, passando gran parte del tempo nella loro stanza. Spesso tendono a dormire di giorno e si dedicano alle loro attività di sera e di notte. Nella maggior parte dei casi dipendono economicamente dai genitori, e talvolta evitano anche di vederli durante i pasti, facendosi lasciare il cibo fuori dalla porta. Come ha raccontato al Post lo psicoterapeuta Matteo Zanon, spesso le sedute di terapia con le persone che vivono in ritiro sociale si svolgono a domicilio: nei casi più estremi attraverso una porta chiusa, oppure nella loro stanza, a volte mentre loro stanno sotto un piumone, a volte al buio.

Il fenomeno fu individuato per la prima volta negli anni Ottanta appunto in Giappone, dove iniziò a essere considerato un problema sociale a partire dagli anni Duemila. Di recente è stato stimato che riguardi più di un milione di giapponesi, molti dei quali vivono in ritiro sociale da più di dieci anni. Negli ultimi decenni tuttavia è stato osservato anche in altre società economicamente avanzate con tratti culturali simili a quelli del Giappone, come Corea del Sud, Hong Kong e alcuni paesi europei, Italia compresa.

La definizione hikikomori non piace a tutti quelli che vivono in isolamento, e non tutti desiderano un aiuto o hanno fiducia nella possibilità di cambiamento. In ogni caso, «l’esistenza del termine ha permesso a molti di identificarsi e di scoprire che al mondo esistono tanti altri nella stessa condizione, e in genere questo è rassicurante», ha detto al Post la psicoterapeuta Rita Subioli, che lavora con hikikomori in tutta Italia dal 2016.

Il ritiro sociale
Semplificando parecchio, si potrebbe dire che gli hikikomori si allontanano da situazioni di sofferenza di vario tipo, trovando sollievo nella solitudine e nell’isolamento. Secondo le teorie più diffuse, l’elemento centrale del fenomeno in Giappone è la vergogna, che è strettamente collegata alla paura del giudizio ed è peraltro uno dei motivi per cui le famiglie sono tradizionalmente restie ad affrontare l’argomento.

In particolare, il fenomeno degli hikikomori in Giappone è attribuito all’enorme pressione di realizzazione sociale all’interno di una società altamente competitiva, soprattutto nei confronti dei maschi. I meccanismi che spingono a ottenere a tutti i costi il successo in ambito lavorativo e familiare procurano ai giovani che si avvicinano all’università e alla carriera un senso di inadeguatezza e di paura del fallimento, al quale si risponde con la fuga dalle situazioni che prevedono un confronto sociale.

Il fatto che in Giappone la maggior parte degli hikikomori provenga da famiglie benestanti e con un alto grado di scolarizzazione, inoltre, rinforza l’idea che la pressione sociale comporterebbe un “dovere morale” di raggiungere gli stessi risultati dei genitori, o le alte aspettative che la società sembra avere nei propri confronti.

Un’immagine tratta dal video di “No Reason” di Bonobo

Il punto di partenza che porta al ritiro sociale è quasi sempre diverso e, come detto, non è necessariamente collegato a disturbi mentali. In generale, il desiderio di non fare parte della società può nascere dalla sfiducia e dalla perdita di interesse nei confronti delle relazioni o da situazioni familiari difficili: in Italia molti hikikomori raccontano di non sentirsi compresi dai coetanei e dagli adulti, oppure di aver subìto episodi di bullismo e altre forme di violenza. In altri casi il ritiro sociale è stato collegato a un grande spirito critico nei confronti della società, che può accentuare l’insofferenza, la rabbia o comunque la sfiducia nei confronti delle dinamiche sociali.

Anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità non classifica il ritiro sociale grave come un disturbo, vari ricercatori e psicoterapeuti sostengono che possano esserci stretti collegamenti con altre psicopatologie, tra cui agorafobia e disturbo di ansia sociale; altri lo ritengono un disturbo vero e proprio, che si potrebbe considerare una forma nuova di depressione. Spesso inoltre il fenomeno è stato confuso o sovrapposto alla dipendenza da internet, che non è quasi mai la causa scatenante del ritiro sociale, ma può diventare una conseguenza.

In Italia
Lo psicoterapeuta Zanon ha raccontato di aver iniziato a occuparsi di hikikomori nel 2014, quando cominciò a ricevere richieste di sostegno da parte di genitori di ragazze e ragazzi adolescenti che in alcuni casi non uscivano di casa da anni. Da quel momento «si aprì un vaso di Pandora», dice Zanon, che è lo psicoterapeuta referente del progetto Sakido, un’iniziativa della cooperativa sociale L’Aquilone di Sesto Calende, che opera nella provincia di Varese e tra le altre cose propone uno sportello online di ascolto, attività di formazione e laboratori di didattica attiva.

Fino a pochi anni fa il fenomeno era quasi del tutto nuovo anche per gli esperti del settore. La terapia a domicilio e quella online non erano pratiche comuni, e soprattutto non c’erano le reti a sostegno del lavoro degli psicoterapeuti che si occupavano di ritiro sociale che invece ci sono oggi. Come ha raccontato Subioli, spesso lei e i colleghi facevano viaggi lunghi anche centinaia di chilometri per incontrare ragazze e ragazzi che vivevano in isolamento.

Anche se negli ultimi anni il fenomeno è stato approfondito sempre di più, sono ancora pochi gli studi che aiutano a descriverlo in maniera puntuale. Zanon ha detto che al momento il progetto Sakido sta seguendo quasi trenta ragazze e ragazzi, ma che ogni giorno arrivano nuove richieste di sostegno di vario tipo e con varie sfumature, per lo più da parte di genitori, ma talvolta anche da psicoterapeuti che non sanno come affrontare la situazione. Secondo alcune stime non ufficiali, che comunque sono piuttosto difficili da confermare, le ragazze e i ragazzi che vivono una qualche forma di ritiro sociale volontario in Italia sarebbero circa centomila.

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Dire “hikikomori”, spiega Zanon, «è scivoloso», perché anche se tra il nostro paese e il Giappone ci sono alcune situazioni culturali molto simili, il fenomeno del ritiro sociale volontario in Italia si presenta in maniera un po’ diversa.

A differenza del Giappone, dove nel 42,9 per cento dei casi il ritiro sociale comincia tra i 20 e i 29 anni, all’inizio dell’università o della carriera lavorativa, in Italia è stato osservato che nella maggior parte dei casi il momento in cui inizia l’isolamento è quello degli anni delle scuole medie e superiori. Per questo è stato collegato all’abbandono scolastico e al periodo delicato di formazione dell’adolescenza.

D’altra parte, gli esperti spiegano che la scuola può anche essere il luogo fisico ideale su cui lavorare, parallelamente alla terapia. Negli ultimi anni sono nate varie iniziative di questo tipo e per la prima volta nel 2019 il ministero dell’Istruzione ha condiviso un documento che delinea strategie, approcci e strumenti per individuare e prevenire il ritiro sociale grave, con l’obiettivo di favorire l’inclusione scolastica in adolescenza.

«Molto però dipende dalle esperienze relazionali fatte prima del ritiro», dice Subioli: ragazze e ragazzi che non hanno mai avuto esperienze di amicizia prima dell’isolamento potrebbero avere più difficoltà a trovare la motivazione per tornarci, mentre quelli che le hanno avute, di contro, hanno uno strumento in più per provare a ricostruire le relazioni in maniera più serena.

La terapia
L’aspetto centrale della terapia sembra proprio essere quello della motivazione. Nelle parole di Zanon, non bisogna voler cambiare gli hikikomori a tutti i costi, bensì «cercare di far ripartire quel muscolo della relazione che si è un po’ strappato e che pensano di non poter più riattivare».

Durante il percorso, comunque, il lavoro dello psicoterapeuta deve essere sostenuto da una buona rete di educatori e riferimenti esterni che siano in grado di creare la situazione ottimale per il reinserimento.

Come sottolinea Subioli, un altro aspetto cruciale è il coinvolgimento della famiglia. A lei per esempio capita di lavorare con il ragazzo o la ragazza che vive in ritiro sociale, mentre i genitori sono seguiti da un altro psicologo, e periodicamente si creano occasioni di incontro e confronto tra le parti. La cosa importante è saper offrire ascolto e comprensione senza giudizio, indipendentemente dalla tecnica utilizzata.

Una delle cose che possono funzionare è coinvolgere gli adolescenti che vivono in ritiro sociale in attività di vario tipo, come quelle che appunto sta portando avanti il progetto a cui collabora Zanon: poco alla volta, ma sempre assieme a un percorso di terapia e col sostegno di una rete di educatori.

Da qualche tempo le ragazze e i ragazzi che partecipano al progetto Sakido possono prendere parte ad alcuni laboratori in piccoli gruppi, da 4, 5 o massimo 6 persone: ci sono per esempio un laboratorio in cui si impara a fare un podcast e quello in cui si insegna a costruire un computer da zero, oltre a quelli dedicati al fumetto-manga e alla terapia attraverso l’arte. Spesso questi appuntamenti vengono organizzati alla mattina, racconta Zanon, proprio «per ridare una forma alla giornata»: in alcuni casi infatti l’isolamento per periodi prolungati di tempo comporta l’alterazione degli stimoli della fame e l’inversione del ritmo sonno-veglia, vale a dire che si tende a dormire per buona parte della giornata e a concentrare le attività di sera e di notte.

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All’inizio partecipare alle attività può essere molto difficile. Talvolta i ragazzi stanno in disparte o non hanno subito voglia di partecipare, «e va bene così», dice Zanon: l’importante anche in questo caso è stimolare l’interazione e stabilire un contatto costante. Dopo questi primi approcci, si può cominciare anche a fare uscite sul territorio per stabilire un contatto più diretto con la realtà sociale, facendo in modo che anche chi non sa nulla di hikikomori conosca meglio il fenomeno. Per esempio, il team degli educatori che sta seguendo il progetto ha accompagnato un piccolo gruppo a visitare varie attività indipendenti della zona, tra cui un calzolaio e un negozio di birra: in questi casi l’obiettivo non era far spiegare a un professionista come si fanno le cose, ma far vedere come alcune persone avevano trasformato la loro idea in un progetto concreto.

Può sembrare «un’esperienza un po’ forzosa», osserva Zanon, ma l’impressione è che riesca davvero a rinforzare la fiducia nelle persone che vivono in ritiro sociale. Un primo risultato è che alcuni dei ragazzi che hanno partecipato al progetto si sono reinseriti in percorsi scolastici o hanno cominciato progetti di formazione lavorativa.

La coordinatrice del progetto Sakido, Silvia Levati, ha spiegato che per affrontare la situazione degli hikikomori è necessario proporre «interventi educativi multidisciplinari e molteplici», pensati in base al bisogno della persona, ma anche portare avanti una campagna di sensibilizzazione e «progetti su diversi livelli».

Oltre a diffondere le informazioni nelle scuole, serve parlare agli adolescenti dei problemi legati al confronto con gli altri, alle fragilità emotive, alle aspettative della società o a dipendenze come quella dai videogiochi. L’obiettivo finale è coinvolgere sempre più partner pubblici e privati, come i centri territoriali di inclusione scolastica, dice Levati.

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Dove chiedere aiuto
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