L’Europa ha sdoganato i muri
Nei paesi dell'est se ne stanno costruendo vari, la Commissione dice di non avere nulla in contrario: ora una dozzina di stati chiede di finanziarli con i fondi europei
di Luca Misculin
Gli ultimi due stati europei ad avere annunciato di volere costruire una recinzione lungo il proprio confine sono stati Lituania e Lettonia, spaventati da un aumento dei richiedenti asilo in arrivo dalla Bielorussia dall’inizio dell’estate. Ma negli ultimi anni simili barriere per tenere fuori i migranti sono state costruite in Polonia, Ungheria, Grecia, Bulgaria, fra gli altri.
Fino a pochi anni fa l’Unione Europea riteneva il crollo del Muro di Berlino come un atto decisivo della sua fondazione, e interpretava come un fatto positivo l’aver convinto i propri membri ad abolire le frontiere interne grazie al trattato di Schengen. Oggi invece la Commissione Europea – nello specifico la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson – ha fatto sapere di non avere «nulla in contrario» alla costruzione di nuove barriere, anche se per ora ha negato che possano essere realizzate con i fondi europei.
Johansson stava commentando una lettera firmata dai ministri dell’Interno di 12 paesi – Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia – che in sostanza avevano chiesto alla Commissione Europea di finanziare la costruzione di barriere con fondi europei. «Le barriere fisiche sono una misura efficace di protezione dei confini di cui beneficia l’intera Unione», si legge nella lettera: «Questo strumento legittimo dovrebbe essere finanziato adeguatamente dal bilancio europeo, e diventare una priorità».
Molti dei paesi che hanno firmato la lettera sono governati da coalizioni di centrodestra, con le eccezioni della Danimarca (governata dal centrosinistra) e di alcuni governi di coalizione. Il fronte dei paesi a favore dei muri, comunque, si sta allargando: ed è significativo che nessuno degli stati membri che di recente hanno costruito una recinzione ai propri confini l’abbia poi smantellata.
Secondo un calcolo del centro studi Transnational Institute (TNI) dal 1990 al 2019 nell’Unione Europea e nell’area Schengen sono stati costruiti circa un migliaio di chilometri di recinzione: circa sei volte la lunghezza del Muro di Berlino, per una spesa totale di oltre 900 milioni di euro. Nel calcolo mancano i 508 chilometri che la Lituania ha da poco deciso di costruire al confine con la Bielorussia.
«L’immigrazione viene sempre più spesso considerata una minaccia e non una risorsa per risolvere la carenza di forza lavoro e il crollo del tasso di natalità», ha commentato di recente l’analista Judy Dempsey, direttrice della rivista online Strategic Europe. «Ma al posto di costruire una politica comune sull’immigrazione o il diritto all’asilo, l’Unione Europea ha scelto di occuparsene esportando il problema».
È una tesi che si adatta bene sia agli accordi stipulati dall’Unione Europea con la Libia e la Turchia per impedire le partenze via mare dei migranti, sia con la nuova politica di costruzione dei muri e di rafforzamento delle frontiere esterne adottata dai paesi europei.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), l’agenzia ONU che si occupa di migranti, soltanto nel 2020 sono stati registrati 39.648 migranti in Serbia e 16.150 in Bosnia-Erzegovina. Entrambi sono paesi che non fanno parte dell’Unione Europea e in cui migliaia di migranti rimangono bloccati per via di una recinzione (come quella costruita dall’Ungheria lungo il confine con la Serbia) o per via dei controlli e delle violenze della polizia di frontiera (come nel caso del confine fra Bosnia-Erzegovina e Croazia).
La costruzione di barriere fisiche è soltanto l’ultima di una serie di decisioni che vanno tutte in un’unica direzione e che sono state prese negli ultimi anni dai paesi europei.
Nelle istituzioni europee è opinione condivisa che la gestione delle migrazioni abbia bisogno di due pilastri: garantire vie legali e sicure per assicurare un flusso costante ma controllato di persone, e rafforzare le frontiere esterne per scoraggiare gli ingressi irregolari. Mentre il primo è totalmente in mano agli stati – che a parte alcune eccezioni non sembrano intenzionati ad adottare parametri più inclusivi, per timore di perdere consensi elettorali – sul secondo esiste ormai da anni una stabile collaborazione fra istituzioni e governi nazionali che cinque anni fa aveva portato alla creazione di un’agenzia di frontiera europea, Frontex.
Da allora l’agenzia è stata molto coinvolta nel pattugliamento dei confini di mare e di terra dell’Unione. È stata anche accusata spesso di scarsissima trasparenza, oltre che di avere l’obiettivo implicito di tenere fuori migranti e richiedenti asilo, con qualsiasi mezzo e tecnologia disponibili.
Nei prossimi anni fra l’altro Frontex avrà un ruolo sempre più rilevante: entro il 2027 passerà dagli attuali 1.500 a 10mila effettivi – di cui 7.000 distaccati dalle forze dell’ordine nazionali – e avrà nel bilancio 2021-2027 un budget superiore alla maggior parte delle agenzie dell’Unione Europea: circa 5,6 miliardi di euro.
La Commissione Europea sostiene da tempo che il rafforzamento di Frontex debba procedere di pari passo con l’apertura di canali legali per l’ingresso di migranti e richiedenti asilo, oggi praticamente inesistenti. Ma come ha fatto notare il giornalista Nikolaj Nielsen su EuObserver, «le misure proposte dalla Commissione in termini di accoglienza devono ancora essere negoziate con le altre istituzioni europee: e potrebbero volerci anni prima che siano concordate e applicate». Nel frattempo, possiamo aspettarci la costruzione di altri muri e lo sviluppo di nuovi controversi sistemi di difesa delle frontiere europee.