La misoginia istituzionale della polizia britannica
Se ne parla dopo il femminicidio di Sarah Everard: c'è chi chiede inchieste indipendenti, chi riforme più radicali
di Giulia Siviero
Qualche settimana fa Wayne Couzens, agente della Polizia Metropolitana di Londra, è stato condannato all’ergastolo per aver rapito, stuprato e ucciso Sarah Everard a Londra, lo scorso marzo. Dalle indagini era emerso che Couzens aveva usato il proprio ruolo per fermare Everard, inscenando un falso arresto e usando distintivo e manette. Il fatto che Couzens fosse soprannominato “the rapist” (“lo stupratore”) da alcuni colleghi, che fosse stato associato a tre diverse accuse per atti osceni (due presentate a Londra poco prima del femminicidio di Everard e una terza nel Kent nel 2015), e che condividesse messaggi misogini su WhatsApp era stato ignorato o non era stato preso in considerazione da chi avrebbe dovuto.
Il caso ha mostrato non solo il fallimento generale delle risposte istituzionali alla violenza contro le donne, ma anche quello che i movimenti femministi chiamano “sessismo istituzionale”, espressione che ha cominciato ad essere usata in titoli di giornale, commenti ed editoriali. Il caso ha mostrato inoltre, e con più evidenza di un tempo, la profonda crisi di fiducia delle donne britanniche nei confronti della polizia, ma non solo: ha portato a discussioni e dibattiti sulla necessità di riformare in maniera radicale le pratiche e la struttura della stessa polizia.
«Mele marce?»
All’inizio di ottobre David Carrick, poliziotto londinese di 46 anni ora sospeso dal servizio, è stato arrestato e andrà a processo per aver stuprato una donna incontrata su Tinder.
Alla fine di settembre un tribunale si è espresso su un caso molto commentato che riguardava diversi poliziotti sotto copertura dalla fine degli anni Sessanta, che si erano infiltrati in alcuni gruppi politici del Regno Unito (lo scandalo era stato soprannominato “spycops”). Durante le operazioni, i poliziotti avevano avuto relazioni sentimentali o sessuali con le donne che dovevano sorvegliare, ma in modo considerato ingannevole, senza rivelare la loro vera identità. Con una sentenza considerata storica, il tribunale ha dato ragione a una di queste donne, stabilendo che la polizia aveva violato la sua dignità e i suoi diritti.
Lo scorso giugno, durante un processo molto seguito dai media inglesi per l’uccisione di Nicole Smallman e Bibaa Henry, due sorelle accoltellate nel 2020 in un parco di Londra, la polizia era stata criticata per la lenta e discutibile gestione delle indagini: era stato infatti il compagno di una delle due a trovare sia i corpi che l’arma del delitto. Era stata criticata anche perché due poliziotti erano stati sospesi e accusati di cattiva condotta per aver scattato e condiviso su WhatsApp delle fotografie “inappropriate” sulla scena del crimine.
«Se mai avessimo avuto bisogno di un altro esempio, quegli agenti si sono sentiti così al sicuro, così intoccabili, che si sono sentiti liberi anche di scattare e inviare delle fotografie di ragazze nere morte. Questo la dice lunga sull’ethos della polizia metropolitana», aveva detto a BBC la madre delle sorelle.
Inizialmente, parlando al caso Everard, la commissaria Cressida Dick, dal 2017 a capo della polizia metropolitana di Londra (Met), aveva parlato della presenza di alcune «mele marce» all’interno della stessa polizia.
Dopo la condanna di Couzens, e a seguito di pressioni e critiche, aveva tenuto una conferenza stampa ammettendo che il problema era più diffuso e che la fiducia nei confronti della polizia era stata gravemente compromessa. Qualche giorno fa, una delle deputate laburiste più in vista, Harriet Harman, ex sottosegretaria alla Giustizia, ha chiesto alla commissaria di dimettersi, affinché le donne possano tornare a fidarsi della polizia e a «non averne paura».
Risposte inadeguate
La risposta della Met al femminicidio di Sarah Everard è stata considerata, da più parti, inadeguata (la parola “femminicidio” non coincide solo con l’atto finale dell’uccisione di una donna in quanto donna, ma comprende anche tutte quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali sessiste e misogine. In questa definizione ampia – formulata da quelle che vengono considerate le teoriche del femminicidio, la criminologa statunitense Diana Russell e l’antropologa messicana Marcela Lagarde – sono comprese anche le cosiddette violenze istituzionali e le negligenze delle istituzioni e dei governi nel non affrontare in modo adeguato la violenza di genere).
Durante le indagini, la polizia era andata casa per casa a suggerire alle donne di modificare i loro comportamenti e di non uscire da sole, trasferendo di fatto su ciascuna la responsabilità della propria sicurezza. Lo ha fatto nonostante sia ormai ampiamente dimostrato che “seguire le regole” – quelle che portano la maggior parte delle donne a occupare lo spazio pubblico mettendo in pratica una serie di precauzioni – non sia una garanzia contro le aggressioni.
Dopo la condanna di Couzens, che era un poliziotto, la commissaria Cressida Dick aveva ammesso come fosse “ragionevole”, in questo momento, essere diffidenti nei confronti della polizia e aveva spiegato alle donne come proteggersi in caso di sospetti su un poliziotto che agisce da solo: mettere in discussione la sua legittimità facendogli delle domande e chiedendo conferma della sua identità, contattare il numero di emergenza, fermare un passante, scappare in una casa, bussare a una porta o fermare un autobus per chiedere aiuto. In pratica, la persona a capo della polizia di Londra ha suggerito alle donne come difendersi dalla polizia di Londra.
Nel frattempo, il governo ha detto di aver elaborato una strategia per ridurre la violenza contro donne e ragazze per le strade, per renderle più sicure: ha parlato dell’installazione di telecamere a circuito chiuso, del dispiegamento di un maggior numero di agenti, e della volontà di conferire nuovi poteri alla polizia. Steve House, vice di Cressida Dick, ha ribadito il principio della “tolleranza zero” nei confronti di ogni forma di misoginia.
Tutti hanno un problema
Il responsabile del femminicidio di Everard è un poliziotto, parte cioè di quel sistema che secondo le politiche più diffuse contro la violenza di genere, politiche basate su logiche emergenziali, securitarie e giustizialiste, sarebbe chiamato a “proteggere” le donne.
Negli anni, centinaia di agenti sono stati accusati di abusi di genere. Tra il 2012 e il 2018 sono state presentate 600 accuse di molestie sessuali contro dipendenti della polizia metropolitana, ma solo 119 sono state accolte. Un rapporto dell’organismo che controlla la polizia ha rilevato «problemi, irregolarità e incongruenze» nelle modalità con cui le forze dell’ordine affrontano il problema della violenza di genere.
Nel 2020, il Centre for Women’s Justice, organizzazione che promuove e protegge i diritti delle donne nel Regno Unito, ha presentato un esposto contro 15 diversi corpi di polizia relativo alla gestione delle accuse di abusi domestici, stupro e stalking contro agenti in servizio. Nella rapporto si citavano i casi di 19 donne, ma dal momento della sua presentazione altre 150 donne si sono fatte avanti raccontando episodi simili. Nel documento si dice che queste donne «si sentono doppiamente impotenti», che «hanno sperimentato l’impotenza che la maggior parte delle vittime di abusi domestici vive, ma in più il loro aggressore fa parte di quel sistema che dovrebbe proteggerle».
Si dice che gli agenti accusati godono di un’ampia protezione, che usano il loro status e le loro amicizie per ostacolare o insabbiare le indagini, che manipolano il sistema e agiscono in malafede in vari modi.
I dati confermano la mancanza di fiducia delle donne e dell’opinione pubblica britannica nelle forze dell’ordine e nella loro capacità di intervenire in modo efficace.
Un recente sondaggio commissionato per UN Women UK ha mostrato che il 97 per cento delle donne che hanno tra i 18 e i 24 anni ha subìto molestie sessuali e che quasi la totalità di queste donne non ha alcuna fiducia nella capacità delle autorità di affrontare reati di questo tipo: il 96 per cento ha riferito di non aver denunciato l’abuso, e il 45 per cento ha detto che una denuncia non avrebbe fatto alcuna differenza. Le conseguenze sono un crollo del numero delle condanne per stupro e violenze domestiche, ma anche una diminuzione delle denunce di altri reati, come furti con scasso e furti d’auto: aumentano i casi chiusi perché le vittime smettono di collaborare e diminuiscono i casi risolti.
Il sessismo istituzionale
Da tempo, e con più forza dall’inizio del caso Everard, i movimenti femministi hanno parlato di fallimento generale delle risposte istituzionali alla violenza contro le donne, che non dovrebbe essere né emergenziale, né securitario, né giustizialista. La violenza di genere non solo può colpire anche in una strada luminosa e sorvegliata, ma è un problema strutturale, anche all’interno della polizia.
Joan Smith, giornalista e collaboratrice dell’ufficio del sindaco di Londra rispetto ai temi della violenza contro le donne, ha scritto che la teoria delle “mele marce” nella polizia cade a pezzi e che è arrivato il momento di affrontare in modo radicale il problema della sua violenza istituzionale: «Non possiamo avere una discussione sensata sulla violenza maschile senza riconoscere l’esistenza di una cultura profondamente misogina in alcune forze di polizia» e senza considerare «l’incapacità di agire rapidamente e in modo imparziale quando vengono accusati degli agenti in servizio».
C’è molta riluttanza, dice Smith, «a riconoscere che il problema è sistemico; tuttavia è chiaro che alcuni uomini predatori sono attratti da lavori che consentono loro di sfruttare la loro autorità e il loro status». In un editoriale, l’Observer ha scritto: «La polizia, dominata dagli uomini, è influenzata dalle norme e dalle aspettative della società. Uomini prevaricatori e violenti sono attratti da mestieri che offrono potere e controllo».
Molti credono che l’obiettivo di far sentire al sicuro le donne si possa raggiungere solo passando per un’inchiesta pubblica e indipendente sulla misoginia istituzionale all’interno della polizia, e per un ripensamento nei processi di selezione, valutazione e controllo degli agenti. Anche nel Regno Unito, dopo gli Stati Uniti, si è dunque cominciato a parlare della necessità di una riforma profonda.
Una delle posizioni più radicali è stata proposta in questi giorni dalla giornalista Nesrine Malik sul Guardian: la vera domanda che ci si dovrebbe fare, scrive Malik, è se la polizia non sia semplicemente un riflesso dei mali della società, ma sia in realtà strutturata per perpetuarli. Quando si dice che la polizia è afflitta da un razzismo o da una misoginia strutturale «nascondiamo inavvertitamente, piuttosto che rivelare, la reale portata del problema. Il problema non è strutturale, è fondamentale, addirittura fondante».
Per Malik, la polizia non ha perso per strada la sua reale funzione, ma sta funzionando esattamente nel modo per cui è stata progettata: «esercitare un potere sproporzionato e coercitivo per mantenere un ordine sociale che protegga i potenti e vittimizzi i deboli». E ancora: «Fin dal suo inizio, lo scopo principale della polizia anglo-europea è stato quello di esercitare il controllo, reprimere le rivolte di coloro che chiedevano maggiori diritti e proteggere coloro che possedevano terra, proprietà e ricchezza». Il mondo è cambiato, dice, ma la mentalità e la struttura di quelle istituzioni persistono.
Malik sostiene che il cambiamento debba essere drastico e la polizia debba essere sostituita con qualcosa di completamente diverso: si dovrebbe cominciare a pensare a un’alternativa che spesso sembra impossibile solo perché «per troppo tempo il modo in cui siamo controllati è stato semplicemente così». Qualche indagine indipendente, il reclutamento di più donne poliziotte, le dimissioni dei vertici o qualsiasi altra «piccola riforma» non è più sufficiente: nessuna di queste soluzioni, conclude, «salverà la prossima donna».