Chi si è comportata peggio?
Un articolo molto commentato sui social americani racconta il conflitto tra due aspiranti scrittrici cominciato con la donazione di un rene, e chiede ai lettori di giudicarle
Una complicata storia che riguarda tra le altre cose la donazione di un rene a uno sconosciuto, i fatti personali che si condividono su Facebook, le fonti di ispirazione per chi scrive narrativa e la rivelazione pubblica di maldicenze scritte in una chat di gruppo, ha generato un vivace dibattito online negli Stati Uniti. La storia, appassionante e per certi versi incredibile, è stata raccontata in un lungo articolo del New York Times Magazine intitolato “Who Is the Bad Art Friend?”: il titolo fa riferimento all’opposizione tra le protagoniste della vicenda, due aspiranti scrittrici, e spinge il lettore a dare quasi un giudizio morale sul loro comportamento.
L’articolo, scritto da Robert Kolker, non dà una risposta e molte persone negli ultimi giorni lo hanno commentato dando la propria.
Le donne al centro della storia sono Dawn Dorland e Sonya Larson. Entrambe sulla quarantina, entrambe si definiscono “scrittrici”, ma nessuna delle due lo è nel senso comunemente attribuito a questa parola in italiano: né l’una né l’altra ha mai pubblicato un libro, anche se tutte e due hanno partecipato a corsi di scrittura sia come allieve che come insegnanti. Quella un po’ più dentro al mondo editoriale è Larson: un suo racconto è stato inserito nell’edizione del 2017 dell’autorevole antologia The Best American Short Stories e nel suo giro di amicizie c’è anche l’affermata scrittrice Celeste Ng, autrice del romanzo Tanti piccoli fuochi da cui è anche stata tratta una serie tv.
Tutto cominciò nel 2015, l’anno in cui Dawn Dorland decise di donare uno dei suoi reni a una persona sconosciuta (è possibile vivere anche con un rene solo, e per questo i reni sono gli unici organi interi che possono essere donati da persone vive). Rinunciare a un organo significa sottoporsi a un intervento chirurgico e accettare vari rischi di salute per la propria vita futura. Dorland, comunque, disse di voler compiere un gesto altruista.
Qualche settimana prima dell’operazione, Dorland creò un gruppo privato su Facebook per raccontare a parenti e amici – tutte persone da lei selezionate – la sua scelta e il significato che le attribuiva. Tra le altre cose, condivise nel gruppo il testo di una lettera scritta da lei e indirizzata alla persona che avrebbe ricevuto il suo rene:
La mia infanzia è stata segnata da traumi e abusi. Non ho avuto l’opportunità di creare saldi legami con la mia famiglia di origine. Tuttavia un effetto positivo dei miei primi anni è l’empatia, che ha aperto un mondo di possibili relazioni tra me e gli sconosciuti. Mentre molte altre persone sarebbero forse motivate a donare un organo a un amico o a un familiare bisognoso, per me la sofferenza di chi non conosco è altrettanto reale… Nel corso della mia preparazione per diventare una donatrice… ho concentrato la maggior parte della mia energia mentale nell’immaginare e celebrare te.
Tra le persone che Dorland aveva scelto di inserire nel gruppo dedicato alla donazione c’era anche Sonya Larson. Si erano conosciute quando entrambe frequentavano una scuola di scrittura di Boston, GrubStreet. Dorland considerava Larson un’amica stretta, stando a quanto ha raccontato a Kolker.
Dopo l’intervento chirurgico, Dorland contattò direttamente Larson: era rimasta colpita che Larson non avesse reagito in alcun modo al suo post su Facebook (e con lei, anche altre persone inserite nel gruppo), cosa che Dorland riteneva poco comprensibile, per la gravità dell’argomento e per l’estremo altruismo che lei si attribuiva nell’avere scelto di donare un rene. Al messaggio di Dorland, Larson rispose con tono allegro, chiedendole come stesse. In una successiva risposta, Dorland aggiornò Larson sulla sua attività di scrittura e le scrisse: «Penso che tu sappia che ho donato uno dei miei reni quest’estate. Giusto?». Larson replicò: «Ah sì, l’ho visto su Facebook. Che cosa straordinaria!».
Dorland ha raccontato di essere stata molto colpita dallo scambio e di essersi domandata come mai Larson avesse avuto bisogno dei messaggi privati per dirle che aveva fatto una bella cosa.
Poi non accadde più nulla per circa un anno.
Il 24 giugno Dorland dedicò un post su Facebook, al di fuori del gruppo privato, al suo “kidneyversary”, cioè al primo anniversario della donazione del rene – in inglese kidney. A quel punto era noto un po’ a tutte le sue conoscenze che aveva donato un rene: era anche riuscita a incontrare la persona che lo aveva ricevuto e aveva condiviso su Facebook una fotografia che li ritraeva insieme.
Il giorno del “kidneyversary”, un amico di Facebook di Dorland commentò uno dei suoi post raccontando di un reading avvenuto in una libreria di Boston: «Sonya ha letto un suo racconto molto bello sul donare un rene. Ho subito pensato a te e mi sono chiesto se fossi tu la fonte d’ispirazione. Sono ancora molto colpito dal tuo gesto». Il commento conteneva anche un tag a Sonya Larson, che però non rispose né mostrò di averlo letto in alcun modo, anche se aveva evidentemente ricevuto una notifica.
Sei giorni dopo Dorland decise di scriverle: «Ehi, ho saputo che hai scritto un racconto che parla di una donazione di rene. Fico! Posso leggerlo?». Larson le rispose dieci giorni dopo. Scrisse che stava lavorando a una storia su una «donna che riceve un rene» che era «parzialmente ispirata da una fantasia suscitata» dalla donazione di Dorland, ma che il tema del racconto non era basato su di lei.
Dorland si risentì del fatto che Larson non glielo avesse detto prima. Larson reagì con un messaggio educato ma freddo. Dorland l’accusò di non averla mai considerata un’amica. Larson non rispose. Tre giorni dopo Dorland fece un post su Facebook in cui si lamentava del fatto che «un’amica scrittrice» avesse basato un racconto su di lei senza informarla. Larson continuò a non rispondere. Dorland aspettò un giorno e le scrisse di nuovo, poi le mandò un terzo messaggio un giorno dopo ancora. A quel punto Larson si fece viva, si scusò e le disse: «È capitato anche a me di vedere riferimenti alla mia vita nella narrativa di altri, e sicuramente è stato strano all’inizio. Ma ritengo che avessero il diritto di scrivere di ciò che vogliono – come ce l’ho io e come ce l’hai tu» (molti scrittori usano storie vere, anche accadute a persone vicine, come punto di partenza per scrivere narrativa).
Commentando quegli scambi, Dorland ha detto a Kolker: «In pratica nei suoi messaggi lei mi aveva detto: “Penso che tu non ti stia comportando nel modo in cui si dovrebbe comportare una collega scrittrice”» (Dorland ha usato l’espressione «bad art friend», scelta poi per il titolo dell’articolo).
Larson, comunque, non mandò mai a Dorland il racconto, intitolato “The Kindest”, “La più generosa”. La protagonista di “The Kindest” si chiama Chuntao, è una donna americana di origini asiatiche come Sonya Larson, è sposata e ha un problema di alcolismo. A causa di un incidente stradale ha bisogno di un trapianto di rene e lo riceve da una donna sconosciuta, bianca e ricca. Nella prima versione del racconto il suo nome era Dawn, poi Larson lo modificò in Rose.
Né Chuntao né Rose sono personaggi del tutto positivi: secondo la sintesi di Kolker, Chuntao è una donna allo sbando e la sua famiglia spera che il trapianto di rene possa essere un’occasione di «redenzione» per lei; Rose invece non si rende conto che quello che considera un atto di puro altruismo «contiene anche elementi di un intenso, sfrenato narcisismo». Entrambe, secondo quanto raccontato dalla stessa Larson, «considerano l’amore come qualcosa che devono ottenere, non come qualcosa che esiste già dentro di loro».
Alla fine del racconto Chuntao non è una persona diversa, ma chi legge è portato a rispettare il fatto che nonostante sia stata vicina alla morte sia rimasta coerente con i suoi difetti. Il personaggio di Rose invece è interpretato in un’ottica di rapporti razziali, che sono il tema di molti racconti di Larson. Rose è un cosiddetto “white savior”, “salvatore bianco”: pensa di meritare l’amicizia di Chuntao, una persona non bianca e sfortunata, per via della sua generosità e crede che Chuntao dovrebbe mostrare riconoscenza e rinunciare all’alcol.
Prima che Dorland leggesse “The Kindest” passarono altri due anni. Nel giugno del 2018 il sito della rivista American Short Fiction, che lo aveva pubblicato, tolse il paywall. Dorland si bloccò poco dopo l’inizio, arrivata al punto in cui è riportata una lettera scritta da Rose a Chuntao:
Io stessa so qualcosa del dolore, ma dalle mie esperienze ho tratto sia coraggio che perseveranza. Ho anche imparato a dare il giusto peso alle difficoltà che gli altri si trovano ad affrontare, anche se molto lontani da me. Qualunque cosa ti sia capitata, ricorda che non sei mai sola… Mentre mi preparavo a questa donazione, mi sono fatta forza sapendo che chi l’avrebbe ricevuta avrebbe ottenuto una seconda opportunità nella vita. Ho resistito al dolore immaginando te e rallegrandomi per TE.
Alcune frasi erano state modificate, ma la lettera che lei stessa aveva scritto qualche anno prima era perfettamente riconoscibile. Dorland pensò di essere stata ingannata e plagiata. Pensò anche che non fosse giusto che Larson avesse usato le sue parole, nonostante avesse diritto alla libertà di espressione.
Sempre nel 2018 “The Kindest” vinse un concorso del Boston Book Festival: 30mila copie del racconto sarebbero state distribuite gratuitamente nella città.
Dorland scrisse sia all’organizzazione del festival che alla rivista American Short Fiction per dire che il racconto da loro promosso conteneva un plagio. Poi fece la stessa cosa con varie scuole e istituzioni con cui Larson aveva avuto a che fare per la sua opera di scrittrice. Scrisse anche al Boston Globe, il quotidiano della città, e assunse un avvocato che, con una lettera di diffida, disse al Boston Book Festival di non distribuire “The Kindest” se non voleva ricevere una multa fino a 150mila dollari sulla base della legge sul diritto d’autore.
Secondo l’avvocato che invece assunse Larson, non c’era stata una violazione di diritto d’autore perché le lettere mandate dai donatori a chi riceve i loro organi possono essere considerate un genere a sé, in cui rientrano spesso gli stessi messaggi. Questa linea di difesa però saltò quando a fine luglio Dorland trovò online una registrazione di una delle primissime versioni del racconto, in cui le differenze tra la sua lettera e quella di Rose a Chuntao erano praticamente nulle.
Dorland chiese così al Boston Book Festival un risarcimento da 10mila dollari e pretese che il racconto non fosse distribuito nonostante nuove modifiche di Larson che eliminavano ogni somiglianza con la sua lettera: in caso contrario avrebbe fatto causa al festival. L’organizzazione rinunciò alla cosa e chiuse con durezza i rapporti con Larson, dicendole che avrebbero avuto i margini per fare causa a lei.
Ma né per Dorland né per Larson la vicenda era conclusa.
Larson cercò di difendere la sua reputazione con una lettera al Boston Globe con cui passava all’attacco: «Il mio racconto è fiction. Non è la sua storia e la mia lettera non è la sua lettera. E del resto lei non dovrebbe volere che lo fosse. Non dovrebbe voler essere associata con la rappresentazione e la critica che il mio racconto fa della dinamica del white savior. Il suo comportamento recente, ironicamente, mostra la stessa cecità di cui scrivo, dato che lei pretende un esplicito riconoscimento per l’opera di una scrittrice non bianca».
Dorland da parte sua chiese 15mila dollari di risarcimento e la firma di un accordo che prevedeva, nel caso in cui Larson avesse fatto pubblicare “The Kindest” altrove, che le desse altri 180mila dollari. L’avvocato di Larson contrattaccò dicendo che Dorland aveva diffamato la sua cliente in numerose occasioni e che era non era possibile considerarla come parte lesa, anche perché i ricavi di Larson dal racconto ammontavano a soli 425 dollari.
Alla fine, all’inizio del 2019, Larson portò Dorland in tribunale, accusandola di diffamazione e di aver affossato la sua carriera. Un anno dopo – siamo all’aprile del 2020 – Dorland reagì con una domanda riconvenzionale, un atto con cui accusava Larson di violazione del diritto d’autore e di averle inflitto uno stress che le aveva causato insonnia, ansia, depressione, attacchi di panico, perdita di peso ed episodi di autolesionismo.
A febbraio un giudice ha rigettato quest’ultima accusa, ma non sono ancora state prese decisioni in merito all’accusa di plagio.
Nel frattempo, nel corso dell’indagine sul caso, il giudice ha ottenuto una serie di estratti di email e chat scambiati tra Sonya Larson e i suoi amici nella cerchia di GrubStreet. In questi messaggi Larson e i suoi interlocutori spettegolano su Dawn Dorland e la deridono, non solo per le sue accuse nei confronti di Larson ma anche per il suo modo di parlare pubblicamente della donazione del rene.
In una conversazione avvenuta nell’ottobre del 2015, dopo che Dorland aveva scritto su Facebook che avrebbe partecipato a una manifestazione come rappresentante della donazione di organi a sconosciuti, si legge:
Amica di Larson: «Ora sto seguendo i post sul rene di Dawn Dorland con una fascinazione morbosa»
Larson: «Oddio, vero? Tutta la cosa – anche se cerco di ignorarla – continua a farmi sentire a disagio… Non riesco a non pensare che si stia galvanizzando continuamente per questa cosa… Ovviamente, mi sento malvagia a dirlo e non ne posso parlare con altre persone»
Amica di Larson: «Dai, non so, ma gli hashtag a me sembrano una richiesta di attenzione»
Larson: «Vero??? #domoreforeachother [significa “facciamo di più gli uni per gli altri”] Cioè, cosa dovrei fare? DONARE I MIEI ORGANI?»
Nei messaggi agli amici, Larson spiegava anche l’influenza della lettera di Dorland sul suo racconto e gli scrupoli che si era fatta a non cambiarla troppo: «Ho provato a modificarla, ma non riesco – quella lettera è troppo perfetta. Non sono sicura su cosa fare… mi sento moralmente compromessa, una brava artista ma una persona di merda». In messaggi successivi, scritti all’aumentare delle tensioni con Dorland, Larson si mostrava molto più aggressiva nei suoi confronti. In alcuni messaggi Larson diceva che Dorland si comportava esattamente come Rose, il personaggio del racconto.
Leggendo tutte queste conversazioni, Dorland si è fatta l’idea che Larson ce l’avesse con lei fin dal principio e che, in un certo senso, fosse lei la destinataria di “The Kindest”. Larson ha detto di ritenere questa idea assurda: «Ero critica del modo in cui Dawn usava i social per parlare della donazione del rene? Sì. Ma stavo scrivendo per criticarla? No. Non mi interessava Dawn». Larson ha anche detto a Kolker di non aver mai considerato Dorland un’amica, solo una conoscente.
È difficile prevedere cosa deciderà il tribunale sull’accusa di plagio. Negli Stati Uniti alcuni scrittori – come J.D. Salinger, l’autore di Il giovane Holden – hanno ottenuto il controllo dei diritti sulle proprie lettere non pubblicate. Larson però potrebbe difendersi dicendo che nelle versioni più recenti di “The Kindest” non ci sono più frasi della lettera di Dorland. Potrebbe anche argomentare che il suo uso della lettera sia trasformativo, che cioè sia servita a creare un’opera nuova, che non può essere confusa con l’originale perché ha uno scopo e un significato diverso.
L’articolo di Kolker non prende esplicitamente le parti di nessuna delle due protagoniste di questa storia. Di sicuro né Dorland né Larson ne escono bene, ma nel finale viene data una particolare attenzione alla prima e forse anche per questo la maggior parte dei giudizi negativi sui social riguardano lei.
Gli ultimi paragrafi raccontano che nei mesi della pandemia Dorland era stata tra il pubblico di tre diversi eventi in streaming in cui Larson era tra i conferenzieri. «Mi sono sentita come perseguitata», ha raccontato Larson. Dorland ha detto che secondo lei non c’era nulla di strano nel fatto che avesse guardato quelle dirette: doveva farlo per restare aggiornata per il caso in tribunale. Inoltre vedere Larson per lei è terapeutico, dice: la rende una presenza reale e non un’ossessione che le riempie la testa.
L’articolo sottolinea anche come gli amici scrittori di Larson abbiano continuato a difenderla, anche dopo che alcuni dei loro messaggi erano stati presi come prove per il processo.
Celeste Ng è l’autrice del più moderato di questi messaggi: «È assolutamente normale che Dawn sia arrabbiata, ma non significa che Sonya abbia fatto qualcosa di sbagliato o che debba farla sentire meglio».
Dopo la pubblicazione dell’articolo sulla vicenda, Celeste Ng ha scritto su Twitter una serie di messaggi per chiarire alcuni aspetti. Ad esempio, che era stata Dawn Dorland a proporre al New York Times Magazine di raccontare tutta la vicenda: una cosa che ha stupito molti, perché ad uscirne peggio da questa storia sembra proprio lei. Ed era stata sempre Dorland a dare al giornale gli estratti delle email e dei messaggi che aveva richiesto attraverso il giudice.
I’m getting sick of clarifying the same things, so
1. Dawn pitched this article to the NYT herself.
2. She was not part of our writing group or friend group. I met her once. Most of us didn’t know her well (if at all). I’d never heard anyone mention her name before this.— Celeste Ng (@pronounced_ing) October 5, 2021
Ng ha anche detto che Dorland «aveva ottenuto il numero di telefono [di Larson] per poi riempirla costantemente di messaggi» e tra le altre cose aveva chiesto a un’organizzazione che dà borse di studio a chi scrive di rescindere quella data a Larson retroattivamente. «Non voglio dire che non le sia stato fatto nessun torto, ma tutto questo mi sembra sproporzionato», ha detto Ng.
Oltre alle discussioni sui social, l’articolo ha ispirato commenti su varie altre testate online. Uno dei più interessanti è quello di Erin Vanderhoff uscito su Vanity Fair, secondo cui il “cattivo” della storia della bad art friend è in realtà Facebook, o più in generale il ruolo che i social hanno assunto nelle nostre vite.
Secondo Vanderhoff, nella storia di Dorland e Larson è presente una serie di «lievi forme di comportamento antisociale online»: la scelta di Dorland di condividere in un gruppo privato informazioni molto private, il suo prestare attenzione a chi fra gli invitati al gruppo si era complimentato per il suo gesto altruista e chi no; ma anche il commento della persona che aveva fatto sapere a Dorland del racconto di Larson, taggandola. Tutto il conflitto è nato da questi gesti che insieme alle loro conseguenze mostrano come le interazioni sui social vengano considerate analoghe a quelle della “vita reale” da alcune persone, e profondamente diverse da altre.
Sull’Atlantic Elizabeth Bruening ha invece commentato l’articolo di Kolker e il dibattito che ha suscitato osservando che Dorland può essere considerata un simbolo del periodo che stiamo vivendo:
Specialmente tra chi lavora in campo umanistico, specialmente nelle cerchie di persone istruite e progressiste, esiste una specie di riconoscimento per chi è stato ferito, ha subito un torto, è stato una vittima in qualche modo. Non solo un riconoscimento, ma una specie di licenza all’aggressione senza limiti. Ciò che non può essere giustificato come attacco può essere giustificato facilmente come atto di autodifesa, e così il modo per incanalare emozioni antisociali in un confronto socialmente accettabile è dichiararsi una vittima. Dorland in particolare si è andata a cercare (…) le cose per cui sentirsi una vittima, e continuava a trovarle. Ma le sue ritorsioni hanno velocemente superato le colpe di Larson, se proprio vogliamo chiamarle colpe.