“Il braccio violento della legge” ha 50 anni
Fu fatto con un protagonista scelto controvoglia e un antagonista chiamato per errore, e contiene una delle migliori scene di inseguimento di sempre
Cinquant’anni fa, il 7 ottobre 1971, uscì negli Stati Uniti The French Connection, il film di William Friedkin che in Italia divenne Il braccio violento della legge. Il titolo originale faceva riferimento alla rotta che da Marsiglia e dalla Corsica portava l’eroina negli Stati Uniti. Il titolo italiano era un riferimento ai modi dei poliziotti protagonisti: Jimmy Doyle e Buddy Russo, interpretati da Gene Hackman e Roy Scheider. Il film parla infatti di come due investigatori della narcotici di New York provano a riabilitarsi da alcuni loro fallimenti seguendo una pista che li porta al possibile arresto del trafficante francese Alain Charnier, interpretato dall’attore spagnolo Fernando Rey.
Il braccio violento della legge vinse cinque Oscar (film, regia, protagonista, montaggio e sceneggiatura non originale), diede una bella spinta alla carriera di Hackman e, da ottimo rappresentante di quella corrente di rinnovamento del cinema statunitense nota come Nuova Hollywood, divenne uno di quei film da prima-e-dopo.
Prima di uscire, però era stato uno di quei film che nessuno voleva fare. Per farlo, Friedkin dovette accettare un protagonista che non voleva e un antagonista scelto per errore. E dovette anche arrangiarsi non poco per girare, in pratica senza alcuna esperienza in materia e con un budget piuttosto risicato, una pericolosa e complicatissima scena di inseguimento, ancora oggi ricordata e celebrata.
– Leggi anche: Il Dune che non esiste
Nato nel 1935, Friedkin pensò di dirigere quello che sarebbe stato The French Connection dopo aver fatto un musical e un paio di film tratti da testi teatrali, quindi non propriamente dei vivaci film d’azione. In particolare, qualche tempo fa raccontò che dopo aver visto Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras decise di girare un film che, in modo simile, non fosse documentario, ma che per certi versi lo sembrasse; un film in cui «la cinepresa desse l’impressione di non sapere cosa sarebbe successo dopo».
Mentre veniva completata la sceneggiatura – scritta da Ernest Tidyman e adattata da un libro del 1968 di Robin Moore in larga misura basato su vicende e personaggi reali – Friedkin provò senza successo a trovare qualcuno che ne finanziasse le riprese: «Il film fu rifiutato due volte da praticamente ogni casa di produzione di Hollywood», disse lui qualche anno fa.
L’unica proposta fu quella del capo della 20th Century Fox che nell’offrigli un budget massimo di un milione e mezzo di dollari gli disse: «Se riesci a farteli bastare, fai pure; non so cosa diavolo diventerà questo film, ma ho la sensazione che possa diventare interessante».
Come protagonista, Friedkin voleva Paul Newman, che però costava troppo. Propose allora un attore il cui film precedente era andato malissimo (e che fu quindi scartato dalla produzione) e provò poi a far recitare il giornalista Jimmy Breslin, che però non aveva mai recitato e non aveva intenzione di farlo per quel film. Hackman, che era conosciuto ma non ancora famosissimo, fu quindi un ripiego, e in diverse interviste Friedkin ha detto che dovette accettarlo malvolentieri, ricredendosi solo in seguito sul suo essere la persona giusta per quel ruolo.
Fernando Rey, che nel film è il trafficante francese Charnier, fu invece scelto dopo un malinteso. Friedkin, infatti, aveva detto al direttore del casting che avrebbe gradito fare un provino a “un attore spagnolo” che aveva visto in un film di Luis Buñuel. Solo che il direttore del casting chiamò un altro attore spagnolo che aveva recitato per Buñuel e a New York Friedkin si ritrovò Rey, che non voleva, al posto di Francisco Rabal, che era molto più affine all’idea di gangster francese che aveva in mente. Ricordando il momento in cui se lo trovò davanti in aeroporto Friedkin ha detto: «Era un gentiluomo dall’aspetto sfuggente, sembrava un duca o qualcosa di simile, non quello che cercavo». Per di più, Rey non parlava una parola di francese e rifiutava categoricamente di tagliarsi il vistoso pizzetto, ma alla fine fu scelto (e doppiato).
I problemi maggiori furono però legati alla grande scena di inseguimento, la più nota del film, da molti ritenuta una delle meglio riuscite nella storia del cinema. Nella scena, il personaggio di Hackman insegue per decine di isolati di Brooklyn un cecchino che Charnier aveva mandato per ucciderlo, e che però ha mancato il bersaglio. L’inseguimento è notevole, tra le altre cose, perché il cecchino fugge a bordo di un treno sopraelevato e Hackman lo insegue alla guida di una Pontiac LeMans.
Come spiegato da Friedkin in un suo dettagliatissimo articolo intitolato “Anatomia di un inseguimento”, la scena fu girata nell’arco di cinque settimane, tra grandi difficoltà: il traffico fu chiuso solo in parte (alcune altre auto sono guidate da stuntmen, molte no), le cineprese usate non erano quelle appositamente pensate per riprese da automobili (che già c’erano, ma costavano troppo) e i collegamenti tra alcuni stuntmen erano gestiti attraverso ingombranti e non granché efficaci walkie-talkie («mattoni da cinque chili di fili attaccati a una batteria», secondo il resoconto di un membro della troupe).
Molte cose di quella scena, ha detto Friedkin, «non erano possibili, ma furono fatte comunque». Di recente ha detto al New York Post di aver ripensato spesso a quella scena e di essersi reso conto di aver rischiato troppo, perché «fu solo per grazia di Dio che nessuno si fece male o morì». «Ero come il Capitano Achab che insegue la balena», ha raccontato.
Per i fini della trama la scena dell’inseguimento auto-ferroviario è di per sé superflua, perché non porta granché avanti la storia. Friedkin spiegò però di averla ritenuta necessaria perché serviva a definire meglio il carattere e l’approccio alla vita del personaggio di Hackman, per dare dinamismo al film («sapevo che serviva azione, due o tre belle scene, ma non potevo farne troppe in cui Hackman o Scheider corrono dietro a qualcuno») e poi anche perché ne aveva vista e apprezzata una, anch’essa piuttosto famosa, in Bullitt, e voleva quindi farne una anche lui. Disse anche che voleva fare una scena in cui, così come in certe scene di Buster Keaton, sembrava davvero che ogni cosa potesse risultare fatale al protagonista.
A ben vedere, gran parte del resto di Il braccio violento della legge (che tra le altre cose fu uno dei primi a mostrare il World Trade Center di New York) è però molto diverso dalla sua scena più famosa. Spesso c’è movimento ma non azione, e in un’altra scena particolarmente riuscita tutto si gioca per esempio su tempi e sguardi.
Più in generale, Il braccio violento della legge è un film ruvido nei temi, nel linguaggio e nell’approccio alla storia e allo stesso tempo elegante e innovativo nelle scelte di montaggio e regia. «È un ottimo tipo di nuovo film» scrisse il New York Times cinquant’anni fa «e questo nonostante il fatto che si basi su cose vecchie come l’opposizione tra poliziotti e malviventi, con colpi di scena, inseguimenti e sparatorie».
Altri osservarono come fosse riuscito a portare in un contesto contemporaneo e metropolitano i temi e l’approccio di un western come Il mucchio selvaggio o di un film come Gangster Story. Era infatti un film in cui, tra le tante altre cose, i buoni non erano proprio buoni, i cattivi non del tutto cattivi, e entrambi alla fine ne uscivano male.
– Leggi anche: Il film che cambiò i film
Sia Hackman che Friedkin sono però convinti che non lo si debba celebrare troppo. Il primo ha detto, in una sua rara intervista, che lo vide solo una volta prima che uscisse e da allora mai più e ha aggiunto: «Se ha lasciato un’eredità, non so quale possa essere. Allora era solo, secondo me, la rispettosa storia su un poliziotto che cercava di evitare che una famiglia criminale si infiltrasse nel mercato della droga di New York». Secondo il regista, invece, Il braccio violento della legge fu «un film facile da girare, ma difficile da montare», e soprattutto «un film d’azione dannatamente ben fatto».