La prima sconfitta del nuovo M5S
È andato malissimo praticamente ovunque, ma Conte sembra insistere sul suo progetto di avvicinamento al centrosinistra
Dalla diffusione dei risultati delle elezioni amministrative, analisti e osservatori politici si stanno concentrando sui cattivi risultati e le tensioni interne del centrodestra, che hanno fatto passare in secondo piano un altro grande sconfitto: il Movimento 5 Stelle.
Il M5S si era presentato alle amministrative con aspettative molto basse, dopo mesi assai tribolati in cui, fra le altre cose, aveva appoggiato un po’ a sorpresa il governo di Mario Draghi, eletto Giuseppe Conte come proprio leader e cambiato linea politica su molti temi, avvicinandosi sempre di più al centrosinistra. Conte aveva precisato che non si aspettava grandi risultati dal voto, e aveva parlato di considerare questi mesi come «un periodo di semina» per raccogliere maggiori consensi nel medio e lungo termine.
Ma i risultati sono stati persino al di sotto delle pur basse aspettative. «Speravano andasse maluccio, è andata malissimo», ha sintetizzato mercoledì mattina il Fatto Quotidiano, il giornale più vicino al M5S.
Secondo un calcolo di YouTrend, a livello nazionale il M5S ha preso 247.381 voti, meno di un terzo rispetto a quando gli stessi comuni votarono nel 2016. Ma per rendersi conto della scarsità dei consensi raccolti è sufficiente leggere le percentuali di voto ottenute in molte città. A Milano ha ottenuto il 2,7% e non ha eletto nemmeno un consigliere comunale. A Salerno il 4,4, a Isernia il 3,76, a Savona il 6,44, a Grosseto il 5,22. E si potrebbe continuare.
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Il Movimento ha inoltre ottenuto una sola vittoria al primo turno – a Grottaglie, in provincia di Taranto – e non è stato praticamente mai decisivo nei buoni risultati ottenuti dalle coalizioni del centrosinistra. A Napoli e Bologna, due città in cui la vittoria al primo turno di Gaetano Manfredi e Matteo Lepore è stata molto celebrata dalla dirigenza del M5S, il partito ha raccolto rispettivamente il 9,73 e il 3,37%. Insomma: Manfredi e Lepore sarebbero stati eletti anche senza l’appoggio del M5S.
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La sconfitta più netta è arrivata nelle due grandi città in cui il Movimento aveva vinto nel 2016, Roma e Torino. A Roma la sindaca uscente Virginia Raggi è arrivata quarta col 19,09%: un pessimo risultato, contando il vantaggio competitivo che di solito accumulano i sindaci uscenti nei confronti dei loro avversari. A Torino la sindaca uscente Chiara Appendino non si è ricandidata, e la candidata del M5S Valentina Sganga è arrivata lontanissima dai candidati di centrosinistra e centrodestra, raccogliendo appena il 9% dei voti. «Non è una critica al nostro lavoro», ha detto Appendino alla Stampa, bizzarramente.
Ma Appendino non è stata l’unica a decidere di non ricandidarsi: lo hanno fatto anche il sindaco di Civitavecchia, Antonio Cozzolino, e quello di Chioggia, Alessandro Ferro. Entrambi hanno spiegato la scelta con ragioni personali, osserva Repubblica. In entrambe le città, fra l’altro, il centrodestra ha vinto al primo turno.
Un giudizio più compiuto sarà possibile solo dopo il ballottaggio, in cui il M5S può sperare di eleggere da solo qualche sindaco in alcune cittadine pugliesi, e in coalizione col centrosinistra a Varese, Spoleto, Città di Castello e Olbia, fra le altre. Ma già da lunedì sera si sono ravvivate tensioni, dichiarazioni minacciose e dimissioni.
Ormai da mesi il partito è diviso fra l’ala più moderata e vicina a Conte e quella più radicale, più legata alle tesi anti-establishment dei primi anni ma sempre meno rappresentata dentro e fuori dal Parlamento. «Questo è il nuovo partito di Conte che, a iniziare dallo Statuto e continuando con la comunicazione e con la gestione delle amministrative, nulla ha a che vedere con il Movimento 5 Stelle», ha scritto per esempio Monica Forte, presidente della commissione Antimafia della Lombardia, annunciando su Facebook le propria uscita dal Movimento.
Al Fatto Quotidiano, l’ex ministra Lucia Azzolina – considerata vicinissima a Conte – ha sottolineato «la necessità di proseguire velocemente sulla strada del nuovo corso, rimboccandosi le mani [sic]», e ha detto che bisogna «ripartire dai territori». Il problema è che negli ultimi anni – a partire dalla segreteria di Luigi Di Maio, eletto nel 2017 – i gruppi territoriali degli attivisti hanno perso moltissime persone, che se ne sono andate lamentando di essere poco ascoltate dai vertici, sempre più legati alle attività del Parlamento e alle vicende politiche romane.
Ma se sul territorio mancano attivisti, anche a livello nazionale il nuovo Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte non sembra avere trovato la propria strada, limitandosi a difendere le proprie proposte storiche come il reddito di cittadinanza, e poco altro. Alcuni ritengono che l’orizzonte fisiologico del partito sia quello di proteggere gli interessi dei ceti medio-bassi nel Centro-Sud, come già era successo alle elezioni politiche del 2018: «Stiamo diventando un partito territoriale a trazione meridionale», ha detto una fonte del Movimento al Corriere della Sera.
Fra le molte incertezze di questi tempi, un elemento sembra chiaro: il Movimento 5 Stelle si vede ormai come un alleato del centrosinistra. Una prospettiva inimmaginabile fino a tre anni fa.
Commentando i risultati elettorali, Conte ha sottolineato che il Movimento 5 Stelle è diventato alternativo al centrodestra, mentre in un’intervista a Repubblica il presidente della Camera Roberto Fico (da anni sostenitore della necessità di avvicinarsi al centrosinistra) ha detto esplicitamente, riferendosi all’obiettivo del Movimento: «costruiremo in modo più saldo il campo largo nazionale per il 2023». Cioè, in estrema sintesi, allearsi col centrosinistra in vista delle elezioni parlamentari in programma al più tardi fra un anno e mezzo.
Resta da vedere se da qui al 2023 gli sviluppi politici agevoleranno o ostacoleranno questo progetto.