Scampoli di normalità in carcere
Luciana Delle Donne poteva dirigere una banca a Londra, ma ha scelto di tornare a Lecce per fare qualcosa per le donne detenute: “Made in carcere” è nato così
di Claudio Caprara
La casa di Luciana Delle Donne, nel centro storico di Lecce, è mille cose. Un grande appartamento colorato e pieno di luce. Un ufficio confortevole. Un pensatoio e una sede per fare brainstorming. Si trasforma quasi in un ristorante notturno. Un bed and breakfast per amici. Una sala riunioni. La sede legale della cooperativa Officina Creativa, che ha ideato il marchio Made in carcere.
«È una casa che ho ristrutturato nella mia prima vita – spiega Delle Donne – è un simbolo di bellezza, ospitalità, gioia di vivere».
La “prima vita” dell’ideatrice di Made in carcere è assai diversa da quella che fa oggi. «Ero una sciura milanese. Andavo in giro vestita bene, portavo i gemelli, avevo le camicie con le cifre ricamate, le scarpe con il tacco… Facevo una vita piena di comodità e di lusso (un lusso relativo, ovvio). Abitavo i piani alti della società: lontano da chi non ha nulla e fa una vita di privazioni”.
Luciana nel 2000 era una manager ed ha ideato e lavorato ad una delle prime banche on line italiane. Era una donna di successo, rampante, yuppie. A Milano è rimasta quattro anni. Ma poi non reggeva più le riunioni una in fila all’altra, le corse su ogni scadenza, la necessità di produrre sempre di più del trimestre precedente. La rottura è avvenuta quando la sua banca le ha fatto una di quelle proposte che non si possono rifiutare: andare a Londra a dirigere una nuova struttura.
«Quella proposta mi ha molto lusingata: l’ambizione è umana. Io ho lavorato all’automazione dei processi con l’idea di creare degli strumenti utili per le persone: clienti, promotori finanziari, dipendenti della banca… Andare a Londra significava crescere ancora, ma voleva anche dire aumentare le distanze tra me e il resto delle persone. Ero a disagio. Mi sentivo una privilegiata in un mondo non mio. Non mi sentivo più in grado di fare delle scelte innovative, come avevo fatto negli anni precedenti. Insomma mi sono sentita intrappolata in meccanismi che non potevo modificare. Quando mi hanno proposto di fare una cosa ancora più grande, più importante, ho detto basta: mi sono stancata di essere un dente di questo ingranaggio».
La scelta di “scendere da quella giostra” non è una grande novità per i manager di quel livello, e dopo un paio di mesi di trattativa si è definita l’uscita: capita sovente tra i dirigenti d’azienda che si scelga di cambiare, ma in casa sua è stato un cataclisma: «Mia madre era bancaria, mio padre bancario, mio fratello e mia sorella bancari… quando hanno saputo che mi volevo licenziare mi hanno presa per pazza…»
La scelta di Luciana riguardava anche la sua vita privata, il desiderio di un figlio, la voglia – a 40 anni – di trovare una vita più “normale”. Le cose non sono andate esattamente come sperava.
Il 2005 è stato un anno di svolta. Passato in Brasile a fare volontariato, ma soprattutto dedicato a decidere cosa fare della sua seconda vita. «Il mio desiderio era quello di aiutare direttamente i bambini, ma le regole e le strutture che riguardano l’infanzia mi hanno costretto a desistere e ho pensato: invece di aiutare i bambini aiuto le loro mamme. Mi sono chiesta: quali sono le madri che vivono peggio? Quale è l’ultimo livello sociale, da dove cominciare?».
È da qui che è partita l’idea di cercare di fare salire un gradino di benessere a una parte degli oltre 53 mila che stanno chiusi in carcere in Italia, applicando le conoscenze manageriali alle azioni di recupero dei detenuti.
La prima volta che Luciana Delle Donne è entrata in una prigione ha incontrato la direttrice del carcere di Lecce, che allora era Anna Rosaria Piccinni. Si è presentata così: «Io non so nulla: sono qui per dare una mano».
Tra le passioni di Luciana c’è la moda: aveva brevettato un collo di camicia, al primo appuntamento lo ha fatto vedere alla direttrice, chiedendole se si poteva produrre in carcere. «Piccinni all’inizio era molto scettica, ma ha avuto totale fiducia in me, e ha detto: proviamo!».
Made in carcere nasce in questo modo. Nei primi tempi la sede era uno stanzino angusto e soffocante, come tutte le celle, dove le detenute stavano strette e guardavano questa manager che veniva da un altro pianeta. Ma presto hanno cominciato ad apprezzarne l’entusiasmo e la passione.
«All’inizio – ricorda Luciana – volevo dimostrare che si potevano fare cose belle. Quando è venuto fuori il nome Made in carcere ho chiesto alle persone che lavoravano se erano d’accordo che si dicesse che i nostri prodotti venivano fatti in prigione. 15 anni fa la moda era fatta per fighetti e se sapevano che una cosa era prodotta in carcere, magari si voltavano dall’altra parte, nonostante si tratti di cose di qualità. Abbiamo fatto sei mesi di formazione e quando eravamo pronti per partire con la produzione è arrivato un provvedimento di indulto e non c’era più nessuna detenuta. Questo però mi ha insegnato il senso del progetto: io volevo andare lì da manager, quasi da crocerossina, da borghesuccia, a lavorare qualche ora al giorno a fare il colletto di camicia brevettato, carino… Insomma volevo fare un po’ di volontariato per compensare tutta la fortuna che avevo avuto fino a quel momento donando un po’ del mio tempo. Sbagliavo. Quando sono rimasta sola ho capito che dovevo cambiare totalmente approccio. Dovevamo essere più veloci, le persone dovevano imparare a cucire in fretta. Per questo ho cominciato a mettere in produzione pezzi meno elaborati, con cuciture dritte, da confezionare rapidamente. In questo modo le ragazze acquisiscono in fretta una competenza tecnica, ma anche la consapevolezza del ritmo del lavoro». Il collo di camicia è finito nel cassetto e si è passati ad altri accessori.
L’idea di fondo del progetto è utilizzare materiali di scarto delle produzioni sartoriali “ufficiali” per produrre accessori di moda. Con questa produzione si vuol far capire che dagli scarti possono nascere cose ambite e belle. Un messaggio subliminale, pedagogico, didattico anche per chi sta in carcere ed è comunemente considerato uno “scarto della società”.
Il modello produttivo degli accessori e gadget per la moda Made in carcere non è particolarmente innovativo: si raccolgono materiali di recupero, gli scampoli vengono catalogati, Luciana disegna i prodotti (che vengono personalizzati per i clienti, in particolare aziende), si realizzano, poi vengono venduti.
Accanto a questo freddo processo c’è un lavoro sulle persone per costruire una consapevolezza diversa di umanità, di nuovo rapporto con il mondo rispetto a quella che era la vita precedente dei carcerati. «La nostra logica di economia circolare si intreccia con un sistema di circolarità del sistema di recupero di persone che hanno fatto degli errori, anche molto gravi e tragici. Quindi c’è un progetto di rigenerazione degli scarti dei tessuti che accompagna un processo di rigenerazione umana. Non è un caso che i dati sulla recidiva di reato delle persone che hanno fatto questa esperienza sfiorino lo zero». Un dato assai diverso rispetto a quello storico italiano.
«Per me – dice ancora Luciana Delle Donne – questa esperienza è una vera palestra di vita. Mi costringe a parlare con le persone, a conoscerle, a motivarle. Una volta mi è venuta una frase con una ragazza che aveva avuto una brutta notizia. Le ho detto: il dolore è una perdita di tempo, e comunque noi qui in carcere non ce lo possiamo permettere. Il dialogo è una parte fondamentale del lavoro che si fa con queste persone».
L’idea iniziale era realizzare un modello di impresa sociale, ma per come era strutturato il mercato 15 anni fa la scelta più logica è stata dare vita ad una cooperativa sociale dove tutti: donne, uomini, ragazzi impiegati percepiscono un regolare stipendio, hanno un contratto. Si è sempre cercato di trovare delle commesse, dei clienti, delle forme di distribuzione. Insomma dare vita a un “lavoro vero”. Perché, se la salute consiste – per dirla con Freud – in amare e lavorare, all’Officina Creativa potevano puntare, per lo meno, a lavorare con passione.
Ho chiesto a Luciana Delle Donne se, rispetto alla sua prima vita, ha cambiato idea sulla punizione, sul concetto di castigo. «A me piacciono le regole. Il loro rispetto mette ordine nei rapporti tra le persone. Non ho mai chiesto ad un detenuto per quale reato fosse finito in carcere, noi non siamo lì per giudicare, cerchiamo solo dei compagni di viaggio. Prima di avviare questa attività mi sono confrontata con esperti, docenti universitari, psicologi».
Da quando è nato il marchio “Made in carcere” sono oltre duecento le persone che hanno collaborato e, finito il periodo di reclusione, non tutti potevano aggregarsi in forma stabile alla gestione del progetto. Oggi ci sono circa 40 addetti (oltre la metà sono persone in stato di detenzione). Nei diversi progetti aperti c’è un’altra sessantina di detenuti coinvolti nella formazione.
Il reclutamento di queste persone avviene su indicazione della direzione del carcere. Lo staff della cooperativa incontra le persone e, normalmente, arrivano in una condizione di sottomissione. «Si sentono in colpa anche con noi, sono diffidenti, impaurite, preoccupate, mantengono una grande distanza. Non possono credere che in carcere ci possa essere una cosa come la nostra».
Un po’ alla volta si cerca di costruire un filo di fiducia. «Noi ci presentiamo, raccontiamo il nostro progetto, offriamo loro il caffè, le ascoltiamo, portiamo in carcere persone che hanno delle cose da raccontare: scrittori, filosofi, giornalisti, artisti: Michelangelo Pistoletto è venuto a disegnare sul muro del carcere il Terzo Paradiso…»
L’ambiente di lavoro dell’Officina Creativa nel carcere di Lecce è un posto bello, normale. L’hanno chiamato “La Maison”. Ci sono tappeti, divani, una sala allestita a palestra, una sala lettura, una sala riunioni. C’è addirittura un frigorifero. «Lo sai che significa in carcere potere usufruire di un frigo d’estate? Per chi sta fuori è una cosa normale, ma dentro no. In estate le celle sono un forno. Nel carcere le cose che noi abbiamo normalmente in casa sono un lusso».
Insomma con il tempo le persone cominciano ad apprezzare questa condizione, si prendono più cura di loro stesse: si vestono con il capo migliore che hanno per venire a lavorare, si truccano, si riappropriano di autostima, di dignità che è la precondizione per diventare persone migliori. «Vedere che piano piano queste persone si riappropriano di questi strumenti è una grande soddisfazione».
«Lavoro 14 ore al giorno e sono sempre in giro, un po’ come prima, ma oggi ho due grandi obiettivi: trovare qualcuno che possa fare andare avanti questa iniziativa anche senza di me e fare in modo che la nostra esperienza sia copiata dal maggior numero di realtà carcerarie possibili».
Attorno a Made in carcere si è creata una social academy finanziata dalla Fondazione Con Il Sud, per fare in modo che il modello possa essere esportato. Si parte da Lecce, ma i laboratori sono anche a Matera, Taranto, Trani, Bari. Per rendere l’esperienza leccese condivisa da diversi giovani da tempo si organizzano periodi di stage avviati in collaborazione con la Luiss “Guido Carli” di Roma.
Luciana Delle Donne è una persona rara, con una forza, una curiosità e una determinazione notevoli. Basta passare un paio di giorni nella sua casa, con i suoi ritmi frenetici, in carcere o a Lequile (meglio evitare di andare in macchina quando lei guida, anche perché continua a fare tutte le cose che fa in ufficio) per esserne conquistati.
«Come sarà la sua vita tra cinque anni?», le ho chiesto. «Sulla mia terza vita… ci stiamo lavorando». Molte idee. Molta voglia di stimolare la fantasia di chi incontrerà, di attivare collaborazioni. Ha l’idea di ricreare vecchi mestieri con una rinnovata creatività. Insomma una terza vita, in fin dei conti, piena come le prime due.
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