L’anacronistica legge sul silenzio elettorale

Fu introdotta nel 1956, poi aggiornata varie volte nel corso degli anni, ma mai adattata davvero ai cambiamenti dell'ultimo decennio

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Tutti i candidati e le candidate alle elezioni amministrative hanno chiuso la loro campagna elettorale venerdì scorso, in certi casi con grandi eventi in luoghi ritenuti simbolici come piazza del Popolo a Roma o piazza Duomo a Milano. Dal giorno dopo, tecnicamente, è iniziato il cosiddetto “silenzio elettorale” che impedisce ai candidati e alle candidate di organizzare eventi e andare in televisione a fare propaganda, una norma di cui però si dibatte da tempo perché viene ritenuta da molti anacronistica e inefficace. E quasi a ogni giro di elezioni c’è chi ne chiede l’abolizione, argomentando: anche a questo giro di amministrative, in cui la legge è stata più o meno esplicitamente violata da diversi politici sui social network.

La legge di riferimento per il silenzio elettorale fu introdotta il 4 aprile 1956, in un’epoca in cui esisteva a malapena la televisione e il mezzo di comunicazione più diffuso era la radio. I firmatari della legge furono Fernando Tambroni, Giulio Andreotti, Aldo Moro e Antonio Segni. Oltre a stabilire il silenzio elettorale, la legge norma anche le modalità con cui si può fare propaganda nei giorni prima delle elezioni e per questo è stata rimaneggiata nel corso degli anni, senza però adattarla ai cambiamenti sociali e tecnologici dell’ultimo decennio che hanno stravolto il modo di fare propaganda politica.

Nell’articolo 9, infatti, il silenzio elettorale viene descritto così:

«Nel giorno precedente ed in quelli stabiliti per le elezioni sono vietati i comizi, le riunioni di propaganda elettorale diretta o indiretta, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, la nuova affissione di stampati, giornali murali o altri e manifesti di propaganda».

E nell’articolo 9-bis del decreto legge numero 807 del 1984 si stabilisce che «nel giorno precedente e in quelli stabiliti per le elezioni è fatto divieto anche alle emittenti radiotelevisive private di diffondere propaganda elettorale».

I successivi aggiornamenti alla legge non hanno introdotto riferimenti a Internet e soprattutto ai social network, lo strumento più utilizzato dai leader e dai partiti politici per fare propaganda e comunicare messaggi direttamente ai cittadini e alle cittadine, per alcuni candidati anche prioritario rispetto alla televisione. Perciò capita che anche se le campagne elettorali si sono formalmente concluse, nei giorni del voto i leader politici si esprimano comunque: per esempio, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni domenica mattina ha pubblicato un video sulla sua pagina Facebook – che ha oltre due milioni di seguaci – in risposta all’inchiesta di Fanpage sul suo partito a Milano, cercando di difendersi dalle accuse di apologia di fascismo e di finanziamenti in nero.

Ma anche quando capita che il silenzio elettorale non venga rispettato dalle televisioni – come è successo sempre domenica con Silvio Berlusconi intervistato all’uscita dal seggio – non ci sono quasi mai conseguenze. La legge stabilisce che chi rompe il silenzio elettorale «è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 103 a euro 1.032», ma di solito anche quando la violazione è palese le uniche conseguenze sono la polemica politica.

I legislatori, introducendo il silenzio elettorale, vollero lasciare agli elettori e alle elettrici un giorno per riflettere in libertà, senza persuasioni e annunci da parte dei partiti, così da esprimere poi un voto meno condizionato (motivo per cui tra le altre cose la legge è stata anche accusata di paternalismo). È una prassi che comunque esiste anche in altri paesi, come Francia e Spagna, mentre nei paesi anglosassoni non si è affermata perché si ritiene che limiti la libertà di espressione.

Sul Corriere della Sera di oggi, Antonio Polito scrive che il silenzio elettorale «ha fatto il suo tempo» e lo definisce una finzione: «I destinatari del divieto ormai se ne fregano, e il sabato e la domenica elettorale dicono ciò che vogliono nella giusta convinzione che non gli succederà nulla, nemmeno la multa da 103 a 1.032 euro prevista dalla norma. Accade per tante leggi: ne produciamo come nessun altro Paese al mondo, ma il Parlamento non spende mai un secondo ad abrogare quelle che non stanno più in piedi, oppure ad adeguare ai tempi quelle che vuole conservare».