Cos’è la pirateria nel 2021
Nei primi sei mesi gli attacchi sono diminuiti rispetto all'anno scorso, concentrandosi nel Golfo di Guinea e in corrispondenza di confini marittimi contesi
Il 23 gennaio scorso una grande nave portacontainer battente bandiera liberiana – la MV Mozart, partita da Lagos, in Nigeria, e diretta a Città del Capo, in Sudafrica – navigava al largo delle coste nord-occidentali di São Tomé e Príncipe, uno stato insulare africano nel Golfo di Guinea, quando fu avvicinata dall’imbarcazione di un gruppo di uomini armati. Dopo essere riusciti a salire sulla nave, gli uomini uccisero un marinaio a bordo e rapirono quindici persone, tra ufficiali e membri dell’equipaggio. Altre tre furono lasciate sulla nave e la condussero in un porto sicuro.
I quindici membri della MV Mozart rapiti furono liberati dopo venti giorni, il 12 febbraio, a fronte del pagamento di un riscatto da parte della compagnia di navigazione della nave, la società turca Boden Maritime. L’attacco del 23 gennaio a São Tomé e Príncipe è uno dei 68 incidenti marittimi collegati ad attività di pirateria avvenuti nella prima metà del 2021, stando a quanto riportato nel più recente rapporto dell’International Maritime Bureau (IMB), l’Ufficio Marittimo Internazionale.
L’IMB è una sezione specializzata della Camera di commercio internazionale (ICC) incaricata del monitoraggio e del contrasto delle attività criminali legate al commercio e ai trasporti marittimi. Si occupa di attacchi di pirateria e atti di depredazione armata in mare (il diritto internazionale distingue tra Piracy, ossia gli abbordaggi in acque internazionali, e Armed Robbery At Sea, qualsiasi atto di depredazione nelle acque territoriali). L’IMB gestisce un centro di segnalazione degli attacchi, sempre attivo, e pubblica periodicamente rapporti molto dettagliati sui luoghi e sulle circostanze degli incidenti di questo tipo, inclusi i tentativi di attacco.
Il numero di incidenti riportati nel primo semestre del 2021, 68, è stato il più basso degli ultimi 27 anni (nei primi sei mesi del 2020 erano stati 98). Gli incidenti includono 61 arrembaggi, quattro tentativi di attacco, due sparatorie e un dirottamento. Nonostante la diminuzione degli attacchi, riferisce l’IMB, la pirateria rimane un fenomeno violento – 50 membri di equipaggi sono stati rapiti e uno è morto (quello della MV Mozart) – e preoccupante in alcune zone del mondo in particolare.
Il 32 per cento degli attacchi – tutti quelli con le conseguenze più serie: i rapimenti a scopo di riscatto e l’uccisione di un marinaio – si sono verificati nel Golfo di Guinea, già da tempo considerata una delle aree più interessate dal fenomeno della pirateria. È una delle rotte più importanti al mondo per il trasporto di petrolio greggio estratto dai giacimenti dell’Africa occidentale e destinato alle raffinerie in Europa e negli Stati Uniti.
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Il Golfo di Guinea è anche la regione in cui i pirati hanno recentemente mostrato maggiori abilità nel pianificare e compiere attacchi lontano dalle coste. Tendono a prendere di mira qualsiasi tipo di nave, segnala l’IMB, e a volte capita che pescherecci abbordati in altre aree vicine vengano dirottati nel Golfo per essere in seguito utilizzati come imbarcazioni “base” da utilizzare per compiere attacchi alle navi mercantili. Rispetto ad altre tipologie di attività illecite preferite in passato, come il dirottamento delle petroliere, gli attacchi alle navi mercantili nel Golfo di Guinea sono sempre più spesso finalizzati al sequestro di membri degli equipaggi, considerata dai pirati un’attività più remunerativa oltre che più facile da coordinare.
Secondo la società di sicurezza marittima internazionale Dryad Global, che segue gli sviluppi di molti incidenti nel Golfo di Guinea, l’attacco subìto dalla MV Mozart a gennaio fu insolito per diverse ragioni. La nave – di proprietà della compagnia turca Boden Maritime e parte di una flotta della società di gestione navale britannica Borealis Maritime – fu raggiunta e abbordata dai pirati quando si trovava a 98 miglia nautiche (circa 180 chilometri) dalla costa nord-occidentale dell’isola di São Tomé.
È un punto del golfo di Guinea abbastanza distante dalle coste, considerato che la maggior parte degli attacchi avviene nei pressi dei porti e dei fiumi. Per una navigazione più sicura in Africa occidentale alcune linee guida redatte e approvate da numerose organizzazioni internazionali, tra cui l’INTERPOL e la Camera di navigazione internazionale (ICS), suggeriscono di mantenersi ad almeno 200-250 miglia nautiche (370-460 chilometri) dalle coste, quando possibile. Sono indicazioni che riflettono le recenti capacità mostrate dai pirati di attaccare le imbarcazioni durante la navigazione d’altura e non soltanto durante quella costiera.
Lo scorso 11 marzo un gruppo di pirati rapì quindici membri dell’equipaggio di una nave cisterna battente bandiera maltese, che stava navigando a sud di Cotonou, in Benin, a 212 miglia nautiche (393 chilometri) dalla costa. All’inizio di giugno, una nave portarinfuse – navi per il trasporto di carichi non-liquidi e non raggruppati in container – fu avvicinata da un’imbarcazione con sei pirati a bordo mentre navigava a circa 210 miglia nautiche dalla costa di Lagos (grazie a un’adeguata armatura navale l’attacco fu respinto).
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Un altro elemento notevole dell’attacco alla MV Mozart fu la violenza. Sei ore dopo essere saliti sulla nave, i pirati riuscirono ad avere accesso alla cittadella, l’area blindata in cui l’equipaggio si ritira in caso di attacco quando le altre misure di protezione risultano inefficaci, e in cui di solito l’equipaggio rimane in attesa di soccorsi, a motori spenti. È in quel momento, secondo il rapporto successivamente fornito dalle autorità marittime turche, che fu ucciso il marinaio della MV Mozart, l’unico membro non turco di tutto l’equipaggio (proveniva dall’Azerbaigian).
I pirati presero poi i 15 ostaggi e, prima di lasciare la nave, disattivarono quasi tutta la strumentazione ad eccezione del sistema di navigazione, poi utilizzato dai tre membri dell’equipaggio rimasti a bordo per raggiungere un porto sicuro in Gabon. I negoziati per la liberazione dei membri della MV Mozart furono coordinati dal ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, ma i dettagli delle trattative non furono resi noti.
Secondo una stima dell’UNODC, l’Ufficio antidroga e anticrimine delle Nazioni Unite, il costo per la liberazione di un gruppo di ostaggi dei pirati si aggira intorno ai 250 mila euro ed è quasi raddoppiato dal 2016, per un giro complessivo di 3,5 milioni di euro in riscatti pagati ai pirati attivi nel delta del Niger nel 2020. A questi costi diretti si aggiungono quelli determinati dal rifiuto di molti armatori di navigare nelle acque del golfo di Guinea e dal rifiuto di molti membri degli equipaggi di lavorare nelle rotte considerate più a rischio. Altri accettano soltanto a fronte di retribuzioni maggiori.
Solitamente, in attesa del pagamento del riscatto (un tempo medio di 4-5 settimane), i pirati attivi nel golfo portano i marinai rapiti nelle insenature paludose del delta del Niger, dove al rischio di finire uccisi si aggiungono per i marinai i rischi di contrarre malattie come la malaria o il tifo, o di essere rapiti da altre bande rivali dei pirati. Per tutte queste ragioni, anche le compagnie di assicurazione a cui si rivolgono gli spedizionieri hanno recentemente ampliato le dimensioni dell’area del golfo di Guinea inclusa nel rischio di livello più alto.
Secondo una recente ricerca cofinanziata dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti – e condotta da un gruppo di ricercatori di tre università americane, docenti di scienze politiche e relazioni internazionali – la pirateria è un fenomeno geograficamente limitato e almeno in parte correlato, come altre attività della criminalità organizzata, alla debolezza politica interna di alcune aree geografiche del mondo.
Le comunità costiere che subiscono più attacchi rispetto ad altre – anche rispetto a zone nelle strette vicinanze – sono in genere quelle in cui i pirati beneficiano del sostegno di forze dell’ordine e gruppi di potere che possono essere corrotti e garantiscono loro l’accesso a strade, porti e mercati. La tesi dei ricercatori – Brandon Prins, Anup Phayal e Aaron Gold – è che le forme di governo a livello statale e locale siano un criterio rilevante nelle analisi degli attacchi, e che questi siano collegati alle capacità politiche e allo stato delle infrastrutture locali.
Di oltre il 60 per cento degli attacchi della pirateria condotti tra il 1995 e il 2017, e di quasi il 75 per cento di quelli più complessi compiuti ai danni di navi da carico pesanti, sono stati responsabili gruppi provenienti soltanto da cinque paesi, tutti caratterizzati da una situazione di crisi economica: Somalia, Bangladesh, Indonesia, Malesia e Nigeria. Secondo le stime più recenti delle Nazioni Unite, il 70 per cento dei circa 200 milioni di abitanti della Nigeria – uno dei paesi con più autorità nel controllo marittimo del Golfo di Guinea – guadagna meno di un dollaro al giorno, condizione che rende la pirateria stessa una prospettiva attraente per molte persone (i pirati possono arrivare a guadagnare decine di migliaia di euro, per ogni nave dirottata).
La povertà della popolazione e la disoccupazione non sono tuttavia l’unica chiave di lettura del fenomeno della pirateria, spiegano i ricercatori. Gli attacchi tendono a concentrarsi nelle rotte, nelle strettoie geografiche e nei porti delle aree di navigazione più trafficate al mondo, dove i pirati intravedono maggiori opportunità di arricchirsi. Prins, Phayal e Gold sostengono inoltre che la localizzazione della pirateria possa essere in parte spiegata anche attraverso un altro criterio: la presenza di confini marittimi contesi nelle aree degli attacchi.
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Secondo i ricercatori, i pirati tentano spesso di agire in aree i cui confini delle acque territoriali sono incerti e oggetto di rivendicazioni conflittuali tra paesi. Lo dimostra la frequenza degli incidenti di pirateria marittima relativi alla navigazione d’altura avvenuti tra il 1995 e il 2017 nell’Indo-Pacifico, un’ampia area geografica che va dalle coste orientali dell’Africa fino alle isole del Pacifico, attraverso l’Asia meridionale e l’Oceania.
In base all’analisi di questi dati, gli attacchi avvengono vicino ai confini marittimi più di quanto ci si aspetterebbe se fossero motivati soltanto dalla considerazione di altri fattori. E non sarebbe nemmeno una novità, come notato dal docente di studi sul terrorismo ed esperto di pirateria Peter Lehr, che riferisce di comportamenti simili anche nel XIX secolo, quando molti pirati sfuggirono alla cattura approfittando degli scontri sui confini tra le potenze coloniali europee.
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In tempi recenti, le forze della guardia costiera e della polizia di frontiera marittima in diverse aree del mondo si sono dimostrate spesso riluttanti a intervenire in acque territoriali di nazioni vicine, per il rischio che eventuali sconfinamenti potessero portare a crisi diplomatiche o situazioni di stallo, tanto più nel caso di paesi che già si contendono quei confini. Che, osservano i ricercatori, è quello che sta succedendo nel Golfo di Guinea e nelle acque del sud-est asiatico, dove tra le ragioni di molti conflitti ci sono anche la delimitazione delle frontiere marittime e lo sfruttamento economico e commerciale delle risorse naturali all’interno dei confini nazionali, dalla pesca industriale all’estrazione di petrolio.
Il diritto internazionale, in base all’articolo 111 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), stabilisce che le nazioni costiere possono estendere la loro giurisdizione oltre i confini marittimi per perseguire e sequestrare qualsiasi nave coinvolta in attività illecite, a patto che l’inseguimento – cominciato in acque territoriali o in zone contigue – continui in acque internazionali. L’inseguimento deve invece terminare se l’imbarcazione dei pirati finisce in acque territoriali di un altro paese.
In quel caso, la nave delle forze dell’ordine non può fare altro che tornare indietro, a meno che la possibilità di un inseguimento transfrontaliero non sia garantita da eventuali accordi specifici bilaterali tra paesi. E nelle aree in cui prevalgono conflitti è improbabile che siano presenti accordi di questo tipo. Sebbene la protezione delle rotte commerciali marittime sia un interesse condiviso da molti paesi, il contrasto della criminalità marittima ha dei costi alti da sostenere ed è spesso ritenuto dai governi un obiettivo secondario rispetto alla cura degli interessi nazionali nei lunghi conflitti sui confini marittimi con i paesi rivali.
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Il timore di un graduale aumento delle tensioni nelle relazioni già instabili tra i paesi è quindi una delle ragioni del mancato intervento delle forze dell’ordine nelle acque di confine e, di conseguenza, una delle ragioni per cui è rarissimo che nei paesi del Golfo di Guinea si arrivi a processi giudiziari per crimini di pirateria o rapina a mano armata in mare. La ricerca di Prins, Phayal e Gold rileva, in sostanza, che i pirati tendono a utilizzare tattiche operative differenti e a correre maggiori o minori rischi in funzione del tipo di risposta fornita dagli stati a quegli attacchi. È generalmente più probabile che attacchino più vicino a paesi con deboli capacità di applicazione della legge.
È il caso degli attacchi nello stretto di Singapore, lungo 114 chilometri e largo 16, principale passaggio per accedere al secondo porto più trafficato al mondo per tonnellaggio totale di spedizione dopo quello di Shangai. Nello stretto si è verificato in tempi recenti un incremento degli incidenti: 16 nei primi sei mesi del 2021, rispetto agli 11 dello stesso periodo del 2020. E non è un caso, secondo i ricercatori, che la maggior parte sia concentrata nella corsia in direzione est. È infatti meno probabile che gli attacchi in quelle acque, più vicino alle isole Riau dell’Indonesia, attirino l’attenzione di pattuglie da Singapore, che ha maggiori capacità di reprimere le attività illegali.
Capita a volte che, seppure all’interno di storie conflittuali, due o più paesi possano accordarsi sui confini marittimi con l’obiettivo di difendere interessi comuni in caso di minacce particolari e contingenti. Nel 2016, quando il gruppo separatista islamico delle Filippine meridionali Abu Sayyaf aumentò la frequenza degli attacchi contro le navi nell’area al confine con le acque malesi, i governi di Malaysia, Filippine e Indonesia rimisero mano a un accordo precedente, risalente al 1994.
L’accordo consentiva i pattugliamenti coordinati nei mari di Sulu e Celebes, lungo i confini marittimi condivisi, ma manteneva il divieto di inseguimenti in acque territoriali di competenza di un altro paese. A fronte della minaccia terroristica rappresentata dai pirati del gruppo Abu Sayyaf, il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte accettò di consentire gli inseguimenti transfrontalieri. Ma, in generale, i disaccordi sulle rivendicazioni territoriali, sul controllo giurisdizionale e sulla gestione delle risorse in quell’area continuano a ostacolare una cooperazione più profonda contro le reti criminali transnazionali che beneficiano di quelle tensioni.
Anche in considerazione della limitata capacità dei paesi di coordinare interventi transfrontalieri, una delle forme di contrasto della pirateria ritenuta essenziale riguarda le varie pratiche, strumentazioni, barriere e armature non letali utilizzate dalle società di navigazione per proteggere le loro navi dagli attacchi. Le linee guida condivise da diverse organizzazioni internazionali suggeriscono di ostacolare o rallentare l’accesso non autorizzato tramite barriere fisiche sistemate sul ponte, utilizzando reti di filo spinato ad alta resistenza difficili da tagliare con strumenti manuali.
Altre misure riguardano le manovre ad alta velocità da eseguire all’occorrenza per generare onde in grado di danneggiare le imbarcazioni dei pirati. Gli attacchi possono anche essere respinti, se necessario, utilizzando il getto di appositi idranti posizionati intorno alla nave. In generale, prima di dover ricorrere a tutte queste misure, il consiglio rivolto al personale responsabile della navigazione è quello di fare attenzione a qualsiasi attività sospetta. Rientrano tra i motivi di allarme, per esempio, la presenza di un equipaggio numeroso in rapporto alle dimensioni dell’imbarcazione in avvicinamento, e la presenza a bordo di attrezzature insolite e non da pesca come scale e ganci per arrampicarsi, oltre a grandi quantità di carburante.
Altre forme di protezione per le navi possono provenire dall’esterno, al netto delle complicazioni legate alle questioni territoriali e alla corruttibilità delle forze locali. Recentemente, il governo nigeriano ha introdotto un programma di sicurezza da oltre 160 milioni di euro, chiamato “Deep Blue” e sostenuto dal governo statunitense, che prevede l’impiego di droni, elicotteri e motoscafi armati per scoraggiare gli attacchi dei pirati e proteggere le navi mercantili in partenza dal porto di Lagos, nelle prime fasi delle loro rotte attraverso le acque nigeriane del golfo di Guinea.
Rispetto alla Somalia – fino a qualche anno fa molto interessata dal fenomeno della pirateria e molto poco attrezzata a contrastarla – la Nigeria dispone infatti di una marina organizzata e di capacità e poteri governativi che autorizzano soltanto le forze di sicurezza interne a utilizzare le armi nelle acque territoriali del paese.