In Nuova Zelanda non si dragano i fondali marini, per ora
Una sentenza della Corte suprema ha bloccato un progetto di sfruttamento minerario osteggiato dagli ambientalisti
Già da qualche anno alcuni dei paesi affacciati sugli oceani hanno cominciato a riflettere sulla possibilità di avviare attività di estrazione mineraria nei fondali marini. È un settore ancora poco sviluppato, che potrebbe essere importante per lo sviluppo dell’industria dei pannelli solari e di quella delle batterie per automobili, ma anche molto dannoso per gli ecosistemi marini. Piccoli paesi del Pacifico – come Nauru – hanno cominciato ad autorizzare progetti di questo genere, ma giovedì è arrivata una decisione in senso opposto dalla Nuova Zelanda.
La Corte suprema del paese ha confermato una sentenza che blocca lo sfruttamento di 66 chilometri quadrati di fondali al largo del distretto di South Taranaki, lungo la costa occidentale dell’Isola del Nord, una delle due principali isole neozelandesi.
Le spiagge di questa parte del paese sono scure perché la loro sabbia contiene una grossa quantità di minerale di ferro: è proprio questo materiale che la Trans-Tasman Resources (TTR), la società coinvolta nella decisione della Corte, avrebbe voluto ottenere, nella misura di 50 milioni di tonnellate all’anno, dai fondali circostanti.
Nel 2017 la Trans-Tasman Resources aveva ottenuto il via libera dell’Agenzia di protezione ambientale (EPA), che le aveva concesso un permesso di estrazione della durata di 35 anni. Poi però molti cittadini e una serie di gruppi di ambientalisti e pescatori avevano contestato la decisione in tribunale, fino ad arrivare all’ultimo grado di giudizio. Secondo la Corte suprema, l’EPA non avrebbe dovuto approvare il progetto della TTR perché in base alle informazioni disponibili non era possibile stabilire che impatto avrebbero avuto le attività minerarie sugli animali marini. Più di 35 specie di mammiferi marini, tra gli altri, frequentano le acque a sud del distretto di South Taranaki, e alcune sono considerate a rischio di estinzione dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN).
Il progetto della Trans-Tasman Resources prevedeva di installare una grossa nave-fabbrica al di sopra della zona da sfruttare, poi di usare veicoli e strutture simili a draghe per scavare il fondale al di sotto e far arrivare i sedimenti raccolti sulla nave. Lì il minerale di ferro sarebbe stato separato dal resto della sabbia, e quest’ultima sarebbe poi stata riversata in mare: è soprattutto questa fase del processo a essere problematica per l’impatto sull’ecosistema marino, perché comporta che grandi quantità di sedimenti, nel percorso di discesa verso il fondo del mare, attraversino strati ambientali diversi, oscurandoli e inquinandoli temporaneamente. Parte dei sedimenti inoltre verrebbe trasportata anche a chilometri e chilometri di distanza dalle correnti, potenzialmente danneggiando altre aree.
Il minerale sarebbe stato mandato in Cina per essere lavorato.
La decisione della Corte suprema che ha bloccato tutto è stata festeggiata dalle associazioni ambientaliste, ma anche la TTR si è detta soddisfatta: ritiene che ora potrà ripresentare il progetto di sviluppo all’Agenzia di protezione ambientale – la stessa Corte suprema lo ha consigliato – e che questa volta otterrà un’autorizzazione definitiva perché sa meglio che tipo di pratiche burocratiche seguire. La parlamentare e dirigente del Partito Maori Debbie Ngarewa-Packer, che ha guidato la comunità di South Taranaki nei ricorsi in tribunale, pensa però che le speranze della TTR siano mal riposte e che la sentenza provi che le attività di estrazione mineraria sui fondali marini sono in contrasto con la legge neozelandese.
Potrebbero diventarlo davvero se fosse approvato un disegno di legge presentato in Parlamento dalla stessa Ngarewa-Packer a marzo. Per ora non è chiaro quando sarà discusso, quindi il tema rimane aperto.
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