Ci sono rifiuti tossici sotto la Calabria?
Testimonianze e rapporti dei servizi segreti suggeriscono che la 'ndrangheta li abbia interrati nelle serre vibonesi, ma in tanti anni non sono mai stati trovati
Per quasi vent’anni, dal 1995 al 2014, un rapporto del servizio segreto civile (SISDE, che non esiste più dal 2007) che riguardava rifiuti tossici sepolti in una zona della Calabria è stato tenuto riservato: è rimasto classificato come segreto di Stato, visto che riguardava una questione ritenuta estremamente rilevante per la sicurezza e coinvolgeva pentiti della ‘ndrangheta. Nel documento, il 588/3, veniva rivelato che nella provincia di Vibo Valentia, e in particolare nell’area delle serre vibonesi, la ‘ndrangheta aveva nascosto, interrandoli, fusti di rifiuti pericolosi. Da quando venne decisa la desecretazione del rapporto furono effettuate alcune ricerche: i carabinieri fecero delle analisi e dissero di non avere trovato nulla, ma non venne mai fuori una copia scritta di quei risultati.
Si parlò della possibilità di fare altri studi, ma non partirono più. Il Rapporto Istisan-Studio epidemiologico dei siti contaminati della Calabria del 2016 certificò una maggiore mortalità nella zona rispetto alla media regionale. Ma venne anche specificato che non esisteva nessuna ipotesi sulle cause. In sostanza, i rifiuti tossici non vennero mai trovati, ma forse non furono cercati abbastanza.
Il primo documento del SISDE a essere desecretato risaliva al 3 ottobre 1994. Vi era scritto che «informatori di settore» che non avevano avuto contatti reciproci avevano dato «incoraggianti riscontri info-operativi» sul «presunto traffico internazionale di scorie tossico-radioattive gestito dalla ‘ndrangheta». Il rapporto aggiungeva poi che le testimonianze raccolte sostenevano che «le discariche presenti in Calabria, sarebbero parecchie» e localizzate «oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana ecc.) nonché nel Vibonese».
Il 20 febbraio 1995 venne redatto un altro documento. Il SISDE affermava che «esiste un grosso traffico a livello nazionale riguardante lo smaltimento di sostanze tossico-radioattive gestito dalla ‘ndrangheta. Tra la Calabria e il Nord Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate, che custodiscono circa settemila fusti di sostanze tossiche». Nel rapporto venivano citate Serra San Bruno e Fabrizia. In un altro passaggio si aggiungeva che oltre alle sostanze tossiche il traffico includeva anche «il contrabbando di uranio».
Nonostante la dichiarata solidità delle fonti – presumibilmente diversi collaboratori del SISDE – e la rilevanza delle informazioni, per venti anni la relazione rimase segreto di Stato.
Cosa accadde dopo che i documenti vennero desecretati lo ricostruisce Argentino Serraino, un giornalista di Vibo Valentia che, sul quotidiano online zoom24, si è occupato della vicenda cercando anche risposte, non arrivate, dai candidati dei partiti alle regionali calabresi, nonché dai candidati presidenti: «La prefettura di Vibo Valentia annunciò la creazione di una task force per andare a fondo della questione. Ma ci si fermò all’annuncio. Nacque anche un comitato, Pro Serre, ora sciolto, che però non riuscì a ottenere risposte».
Venne decisa un’indagine da effettuare ricorrendo al Miapi, e cioè il Monitoraggio e individuazione delle aree potenzialmente inquinate, programma finanziato con fondi europei. Ad occuparsi del monitoraggio fu il reparto Noe (Nucleo operativo ecologico) dei carabinieri di Reggio Calabria appoggiato dall’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Calabria. Fu realizzato tramite magnetometro e spettrometro a raggi gamma. Il primo serve a individuare variazioni della suscettibilità magnetica, generalmente per la presenza di elementi metallici nel terreno; il secondo misura le radiazioni di uno o più elementi.
I risultati di quel monitoraggio non furono mai pubblicati. Ai sindaci dei comuni interessati i carabinieri assicurarono che le indagini avevano dato esisto negativo: non era stato trovato nulla. Il sindaco di Fabrizia, Francesco Fazio, spiega che all’epoca non era nemmeno assessore, ma comunque ricorda che erano state date forti rassicurazioni sul fatto che non fosse stata trovata traccia di rifiuti tossici.
Le rilevazioni del progetto Miapi avevano però due limiti: l’esclusione di alcune aree, come i centri abitati superiori ai 2 km quadrati, e soprattutto il fatto che non potessero essere esaminati terreni con inclinazioni superiori ai 15°, elementi specificati nella presentazione del progetto:
«La superficie terrestre non deve presentare inclinazione superiore ai 15°, soglia limite per mantenere una velocità che garantisca la stabilità del magnetometro durante le fasi di volo. Questo criterio ha di fatto escluso dalle aree da rilevare quelle zone con pendenza superiore ai 15°».
Fonti dell’Arpacal hanno spiegato al Post che l’Agenzia aiutò i Carabinieri che fecero le analisi: «Fornimmo il reticolo informativo e collaborammo per tutto ciò che ci venne chiesto, ma le verifiche vennero effettuate dall’Arma dei Carabinieri». L’Arpacal propose poi di effettuare verifiche a terra, ma non ci fu seguito.
Nel 2016 vene resa nota la pubblicazione Studio epidemiologico dei siti contaminati della Calabria, che aveva preso in considerazione quattro aree della regione, tra cui le serre vibonesi e in particolare i comuni di Fabrizia, Mongiana e Serra San Bruno (le altre aree esaminate furono Crotone, Cassano-Cerchiara, Lamezia Terme, Davoli e Valle dell’Oliva).
«Quello che emerse» dice al Post Massimiliano Pitimada, uno dei curatori della pubblicazione, «fu un eccesso di mortalità per tumori totali e in particolare tumori gastrici, e per diverse patologie cronico-degenerative. La nostra era una pubblicazione che non voleva allarmare ma informare, faceva emergere alcuni dati, non era un rapporto di fine lavoro. Serviva e servono ulteriori studi epidemiologici. Oltretutto quell’eccessiva mortalità non può essere collegata a una causa precisa. Noi non sappiamo se effettivamente in quella zona ci sono rifiuti tossici né sappiamo, nel caso ci fossero, il profilo tossicologico degli inquinanti eventualmente presenti».
Servivano, anche in questo caso, ulteriori approfondimenti che però non sono stati fatti.
Sul tema dei rifiuti tossici in Calabria sono intervenuti due dei candidati alla presidenza della Regione. Luigi de Magistris ha detto: «la Calabria è terra profanata dai rifiuti tossici. Una questione scomoda che ha spinto la politica a nascondere la polvere sotto il tappeto. Se sarò eletto presidente nei primi cento giorni, darò vita all’Agenzia regionale per la protezione del territorio». La candidata del centrosinistra Amalia Bruni ha parlato del rapporto Istisan: «Bisogna capire quali sono e quanti sono i siti dannosi nella regione e verificare la loro incidenza sui tumori. Bisogna chiarire innanzitutto che il rapporto non è nato con l’idea di essere contro o di allarmare qualcuno ma dall’esigenza di informare. E uno studio realizzato per invitare a riflettere e trovare soluzioni valide per un problema che riguarda tutti noi».
Nel 2017 ci fu un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle. Un’altra interrogazione è del 2020. Argentino Serraino dice che nel 2016 «un laboratorio accreditato dal ministero dell’Ambiente si era proposto per fare le analisi di acque, vegetazione e prodotti agricoli. Dopo una prima riunione operativa, anche in quel caso, non si fece poi nulla».
Franco Saragò, presidente del circolo di Legambiente di Ricadi (Vibo Valentia), spiega che «molti pentiti hanno parlato di interramento di rifiuti tossici nell’area del vibonese e le ricerche sono state fatte». Non è mai riuscito a vedere la relativa documentazione: «non è stato trovato nulla però una certificazione non la abbiamo mai avuta». Il problema, secondo Saragò, riguarda molte zone della Calabria, come la galleria Limina, sulla statale 682 che collega lo Ionio e il Tirreno. Nel 2011 la Stampa pubblicò la testimonianza anonima di un geometra che disse che durante la costruzione del tunnel la ‘ndrangheta aveva fatto mischiare, per smaltirli, rifiuti tossici al cemento.
«Anche nelle discariche non sappiamo cosa è stato sversato» dice Saragò. «Secondo la legge italiana andrebbero bonificate ma questo è stato fatto solo in parte. Ci sono poi tutti quei siti dove probabilmente negli anni la ‘ndrangheta ha fatto confluire rifiuti tossici. Ma sono “si dice”, non ci sono riscontri e comunque delle prove non sono mai state trovate. Il rischio è quello di abbaiare alla luna, di essere presi per degli allarmisti e anzi di creare una reazione avversa, e cioè che di queste cose non si voglia più parlare».