L’importanza delle “oasi di nebbia” nel deserto di Atacama
Un nuovo studio ha rivelato molte cose nuove sull'eccezionale varietà della vegetazione in una delle zone più aride del mondo
Nell’area del deserto di Atacama, nel Cile settentrionale, ci sono particolari ecosistemi sui quali sappiamo qualcosa in più grazie a uno studio pubblicato di recente sull’International Journal of Applied Earth Observations and Geoinformation. Questo deserto è considerato tra i più antichi e i più aridi di tutto il pianeta: ciononostante, tra agosto e settembre, le sue distese e colline si riempiono di vegetazione e fiori che crescono grazie a un delicatissimo equilibrio di fenomeni ed eventi atmosferici.
In Cile questi ecosistemi sono conosciuti come “oasi di nebbia”, perché appaiono come “isole” di vegetazione in mezzo ad aree desertiche molto ampie: grazie all’analisi di vent’anni di immagini satellitari, che hanno permesso di “guardare attraverso” gli strati di nuvole che le sovrastano, gli scienziati inglesi e peruviani che hanno condotto lo studio hanno potuto mappare per la prima volta nel dettaglio questi ecosistemi e scoprire diverse caratteristiche che non ci si aspettava.
Il funzionamento di questi ecosistemi era già noto, ma grazie alle nuove analisi gli scienziati hanno capito che si estendono in un’area che va dal deserto di Sechura, nella penisola di Illescas, nel nord del Perù, fino al parco nazionale Llanos de Challe, nel Cile centrale, più di 500 chilometri a sud rispetto al deserto di Atacama. In totale occupano un’area grande circa 17mila chilometri quadrati, più o meno dieci volte la superficie di Londra: prima si credeva che si estendessero soltanto per 2mila chilometri quadrati.
Le piante e i fiori che crescono in queste aree riescono a sopravvivere sfruttando l’umidità dell’aria del mare che viene trasportata nelle zone desertiche attraverso la nebbia. Si sviluppano ancora di più e portano a fioriture straordinarie con frequenza variabile quando intervengono ulteriori eventi climatici come El Niño, un insieme di fenomeni atmosferici che si verificano nell’oceano Pacifico in media ogni cinque anni, di solito con un picco nei mesi di dicembre e di gennaio.
Gli scienziati hanno anche scoperto che le specie di piante e fiori legate alle “oasi di nebbia” sono circa 1.200, di cui più della metà endemiche, ovvero crescono soltanto in questi ecosistemi. Alcune si riproducono rapidamente, mentre altre fioriscono per periodi molto brevi, altre ancora fioriscono una volta ogni dieci anni o anche più raramente. Includono piante selvatiche imparentate con alcune specie coltivate molto note, tra cui zucca, pomodoro, papaya e varie erbe medicinali, che peraltro servono da nutrimento per numerose specie animali, tra cui guanachi, lama e condor. Come detto, in generale il periodo di massima fioritura è tra agosto e settembre, ma talvolta può proseguire anche fino a dicembre.
Un’altra cosa che hanno osservato gli scienziati è come questo sia «l’unico ecosistema terrestre che reagisce in maniera incredibilmente rapida ai cambi della temperatura marina». Justin Moat, ricercatore dei Royal Botanical Gardens di Kew (Londra) e autore principale dello studio, ha spiegato a BBC Mundo che «normalmente questi cambiamenti si vedono nel giro di 10, 20 o 30 anni. Però nel caso delle oasi di nebbia sono quasi immediati»: si vedono nel giro di mesi o anche settimane, e sono in pratica «indicatori di quello che succede negli oceani, ma sulla terra».
Dal momento che la vegetazione delle “oasi” dipende dal livello di umidità e dalle condizioni climatiche delle coste e delle correnti oceaniche, le piante e i fiori di questi ecosistemi sono estremamente sensibili e vulnerabili ai cambiamenti climatici. Moat ha sottolineato che più del 58 per cento della popolazione del Perù vive accanto oppure all’interno di questi ecosistemi, spesso senza saperlo: secondo gli scienziati, pertanto, la salute delle “oasi” è «vitale per l’acqua, per l’aria pulita, per la cultura e il benessere» degli esseri umani.
Nonostante questo, a livello formale soltanto il 4 per cento di questi territori è sottoposto a qualche tipo di tutela ambientale. Come ha notato Oliver Whaley, un altro ricercatore che ha partecipato allo studio, le “oasi” sono inoltre sottoposte a una serie di pericoli, tra cui «l’urbanizzazione, le attività minerarie, le piante invasive, lo sfruttamento eccessivo del territorio e i mezzi che viaggiano fuoristrada». Per queste ragioni, gli scienziati auspicano l’intervento urgente delle autorità internazionali per proteggere questi ecosistemi e la diversità genetica «inestimabile» che ospitano.
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