I panda giganti stanno sempre meglio
Non sono più a rischio di estinzione grazie agli enormi sforzi fatti negli ultimi decenni: le minacce alla loro sopravvivenza però non sono scomparse
Il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) è l’animale nazionale della Cina e uno tra gli animali selvatici più conosciuti in tutto il mondo, perché considerato un simbolo della salvaguardia delle specie in pericolo di estinzione. Di recente il governo cinese ha comunicato che i panda giganti non sono più a rischio di estinzione: se da un lato ci sono buone notizie sulla ripresa della popolazione dei panda, dall’altro non sono però scomparse le minacce al loro habitat e alle abitudini che ne avevano messo a rischio la sopravvivenza.
Negli anni Ottanta i panda giganti che si potevano contare in tutto il mondo erano poco più di mille, sia per problemi legati alla perdita del loro habitat naturale, sia a causa del bracconaggio e della cattura illegale. Dopo oltre trent’anni di massicci sforzi da parte del governo della Cina, dove abita la maggior parte dei panda che vivono in natura, la popolazione ha ripreso ad aumentare e nel giro di dieci anni è cresciuta del 17 per cento, arrivando a 1.864 esemplari.
Secondo i dati diffusi dall’agenzia di stampa cinese Xinhua, nel 2020 i panda allevati in cattività erano invece 633, di cui 44 nati lo stesso anno: più del doppio di quelli di cui c’è bisogno per preservare la diversità del patrimonio genetico della specie, essenziale per la sopravvivenza.
L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, aveva inserito i panda giganti nelle categorie un po’ meno a rischio di estinzione già nel 2016 grazie agli sforzi della Cina. Negli ultimi anni sono state avviate nuove iniziative per preservare la specie: sono per esempio iniziati i lavori per collegare e ampliare le 67 riserve naturali pensate per i panda attualmente esistenti, con l’idea di creare un enorme parco che si estenderà tra le province cinesi di Sichuan, Ningxia e Shaanxi.
Nella sola provincia di Sichuan, dove vive la maggior parte dei panda selvatici, lavorano almeno 4mila guardiaparco che si occupano di osservare il comportamento dei panda e di valutare le condizioni ambientali per tenere aggiornato il numero degli esemplari viventi in natura e trovare nuove strategie di conservazione.
Un’altra misura introdotta dalla Cina è far crescere i panda in cattività per poi liberarli in natura al momento opportuno, con l’obiettivo di favorire la crescita della popolazione selvatica.
Questo metodo è però piuttosto costoso e richiede molto tempo, e tra le altre cose la sua efficacia è ancora assai dibattuta tra gli esperti. Secondo uno studio del 2019 finanziato dalla Fondazione nazionale di scienze naturali e dal ministero delle Scienza e della Tecnologia cinese, infatti, fino a quel momento erano stati liberati 14 panda, 12 dei quali cresciuti in cattività e due selvatici, che erano stati precedentemente salvati e tenuti in cattività per qualche tempo: l’unico esemplare che si sa per certo che si è riprodotto dopo essere stato liberato è uno dei due cresciuti in natura.
Fang Wang, biologa dell’Università Fudan di Shanghai ed esperta di conservazione dei panda, ha detto al National Geographic che «vent’anni fa nessuno era sicuro che l’aumento di popolazione visto oggi si sarebbe potuto verificare».
Nel Ventesimo secolo la popolazione di panda in Cina calò sia per la perdita di habitat sia a causa della caccia illegale, che veniva praticata in particolare per la pelliccia, venduta sul mercato nero per somme fino all’equivalente di 100mila dollari (85mila euro oggi). La situazione cominciò a migliorare dal 1988, quando parallelamente agli sforzi per la salvaguardia della specie entrò in vigore una legge che introdusse il divieto di bracconaggio e pene molto severe.
Ciononostante, secondo gli esperti di conservazione, non può essere garantito che la popolazione dei panda giganti continui a riprendersi, e oltre alla deforestazione e alla frammentazione del loro habitat naturale – provocata soprattutto dai lavori per fare spazio a miniere, infrastrutture e impianti turistici – ci sono altre minacce di cui tenere conto.
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Come ha detto al National Geographic Diao Kunpeng, fondatore di un’organizzazione non profit che si occupa di svolgere ricerche nelle riserve naturali dove vivono i panda, le attività per la salvaguardia di questi animali hanno portato benefici anche alla popolazione dei takin (Budorcas taxicolor), grossi ungulati della sottofamiglia dei Caprini.
Nella riserva naturale di Tangjiahe, una delle aree del Sichuan abitate dai panda, il numero degli esemplari è quasi triplicato, dai 500 del 1986 ai 1.300 censiti nel 2015: il problema è che la presenza dei takin influenza la crescita della vegetazione e ha conseguenze sulle abitudini dei panda, ha spiegato Kunpeng.
I takin mangiano la corteccia degli alberi, esponendoli a infezioni fungine e all’attacco degli insetti, provocando un cambiamento nella composizione delle foreste sul lungo periodo e la diminuzione di alberi in favore di vegetazione più bassa. Privando le piante della loro corteccia, però, tolgono anche un essenziale strumento di comunicazione ai panda, che marchiano gli alberi con una sostanza vischiosa secreta dalle ghiandole che si trovano sotto la loro coda, essenziale sia per comunicare che per trovare partner sessuali.
Sono un grosso problema anche i cinghiali, che si nutrono dello stesso cibo di cui si nutrono avidamente i panda e che tra le altre cose portano malattie come il cimurro e la febbre suina africana, che possono essere trasmesse ad altre specie e che in futuro contageranno «sicuramente» anche i panda, ha detto Wang.
Una buona notizia per la sopravvivenza di questa specie arriva proprio dall’alimento che rappresenta il 99 per cento della dieta dei panda da circa due milioni di anni e da cui essenzialmente dipende la loro sopravvivenza: il bambù.
Secondo la IUCN negli ultimi anni la popolazione dei panda è cresciuta anche grazie agli sforzi della Cina per proteggere le foreste di bambù e aumentarne l’estensione. Uno studio del 2018, invece, ha evidenziato che il bambù resiste bene all’aumento delle temperature e alla variazione delle precipitazioni previsti a causa del cambiamento climatico: anche questa è una buona rassicurazione per la salvaguardia della specie.
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