La COVID-19 dopo il vaccino è diversa
I rari casi dopo la vaccinazione sono per lo più con sintomi lievi e di breve durata, un probabile indizio sul futuro della malattia
Da inizio anno in tutto il mondo sono state somministrate oltre 6 miliardi di dosi dei vaccini contro il coronavirus, con oltre 2,5 miliardi di persone che hanno completato il proprio ciclo vaccinale. La stragrande maggioranza di questi individui non si ammalerà di COVID-19 e la piccola parte di loro che svilupperà un’infezione post-vaccino non avrà sintomi e manterrà un rischio molto basso di sviluppare forme gravi della malattia.
Come tutti gli altri vaccini, anche quello contro il coronavirus non protegge al 100 per cento contro la malattia, ma rende estremamente improbabile che ci si ammali gravemente.
Il vaccino sta in un certo senso cambiando la COVID-19, per lo meno per chi si è sottoposto alla vaccinazione, rendendola una malattia diversa da quella che aveva portato lutti e stravolto le nostre abitudini nel 2020. È una buona notizia, che non deve comunque portare a sottovalutare gli effetti del virus, che continua a causare la morte di migliaia di persone ogni giorno in tutto il mondo, specialmente dove i vaccini sono poco diffusi.
Stabilire in che misura stia cambiando la COVID-19, tra i vaccinati e il resto della popolazione, non è comunque semplice, perché la malattia stessa è difficile da definire.
Inizialmente nei non immunizzati sembrava che causasse per lo più problemi al sistema respiratorio, ma nell’ultimo anno e mezzo medici e ricercatori hanno notato che a seconda dei pazienti i sintomi variano enormemente. La presenza del coronavirus nell’organismo induce una forte risposta immunitaria, che talvolta finisce fuori controllo al punto da danneggiare tessuti in varie parti del corpo. Questa reazione è estremamente soggettiva ed è ciò che rende più difficile determinare con certezza i sintomi tipici della malattia.
La grande soggettività non riguarda solamente i casi gravi, ma in generale la reazione a un’infezione da coronavirus (essere infetti non implica che poi ci si ammali). Molte persone non si accorgono di essere state contagiate perché non sviluppano sintomi, o ne sviluppano di molto lievi che possono essere confusi con altri problemi di salute o con malattie comuni come un raffreddore o qualche sindrome influenzale. Altre hanno sintomi più marcati e riconoscibili, che possono peggiorare in pochi giorni, rendendo necessario un ricovero in ospedale. I casi più gravi devono essere trattati in terapia intensiva, con un maggior rischio di morte.
I vaccini contro il coronavirus hanno aggiunto nuove variabili. Attraverso la vaccinazione, il sistema immunitario impara a riconoscere e ad affrontare il coronavirus, rendendo il nostro organismo un posto meno ospitale per il virus che si trova quindi la strada sbarrata e non riesce a sfruttare le nostre cellule per replicarsi. In alcuni casi può comunque verificarsi un’infezione post-vaccino, ma dai dati raccolti finora sembra che in queste circostanze il virus venga eliminato molto velocemente dal sistema immunitario, prima che possa causare danni e riducendo il rischio di infettare altre persone.
Le evidenze scientifiche sulla protezione offerta dal vaccino sono state raccolte sia nella fase dei test clinici, cioè nel periodo in cui i vaccini erano somministrati a volontari per verificarne sicurezza ed efficacia, sia dopo l’avvio delle somministrazioni nel mondo reale. Le verifiche nel primo caso sono state più semplici da eseguire, perché i ricercatori potevano tenere sotto controllo alcune variabili, mentre nel secondo sono state e sono tuttora più difficili perché milioni di persone vivono in posti diversi, sono fatti diversamente e non hanno le stesse abitudini di vita.
Nonostante queste difficoltà, un gruppo di ricercatori nel Regno Unito ha svolto una ricerca su 4,5 milioni di volontari, chiedendo loro di segnalare la comparsa di eventuali sintomi e gli esiti dei loro tamponi tramite un’applicazione per smartphone. Tra il milione circa di partecipanti con ciclo vaccinale completato, solamente in 2.370 (pari allo 0,2 per cento) hanno segnalato di essere risultati positivi a un test per il coronavirus. Solo una parte di queste infezioni post-vaccino ha portato a sviluppare sintomi, nella maggior parte dei casi più lievi e di breve durata rispetto a ciò che si osserva nei malati di COVID-19 non immunizzati con il vaccino.
Altre analisi confermano l’efficacia della vaccinazione e di conseguenza la riduzione del rischio tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati. In Italia, per esempio, i dati dell’Istituto superiore di sanità dicono che nella popolazione completamente vaccinata il rischio d’infezione si riduce del 76,9 per cento rispetto a quello tra i non vaccinati. I vaccini prevengono l’ospedalizzazione nel 93,1 per cento dei casi, il ricovero in terapia intensiva nel 95,4 per cento e i decessi nel 95,7 per cento.
Le analisi di questo tipo sono utili per farsi un’idea sull’impatto dei vaccino, ma tendono inevitabilmente a dare informazioni sui due estremi opposti della pandemia: da un lato la protezione contro le infezioni in generale e dall’altro la protezione contro le forme gravi di COVID-19.
Come ricorda l’Atlantic, così facendo si perdono le numerose sfumature nel mezzo, legate ai vaccinati che sviluppano sintomi moderati o lievi, e che sarebbero molto utili per definire meglio come possa cambiare la malattia nel breve-medio periodo, man mano che aumenterà il numero di immunizzati (naturalmente dopo la malattia, con tutti i rischi che ne conseguono, o tramite il vaccino).
La raccolta di informazioni sulle infezioni post-vaccino è difficoltosa, sia perché molti non si accorgono di averne una, sia perché chi eventualmente si ammala non consulta un medico o esegue test per avere una conferma sulla propria positività al coronavirus. I dati dalle cartelle cliniche dei pazienti ricoverati sono più affidabili, anche se non sempre la documentazione è completa e ci sono comunque modalità diverse di registrare e seguire i pazienti nei vari paesi. C’è poi l’insieme di persone che continuano ad avere disturbi a mesi di distanza dalla malattia, sindrome spesso definita “long COVID”, i cui contorni sono molto sfumati, proprio a causa della varietà dei sintomi e delle scarse possibilità di essere seguiti dai medici durante una pandemia che li tiene molto impegnati.
Saranno ancora necessari mesi per avere un quadro più completo, ma i dati raccolti finora mostrano come l’esperienza della COVID-19 per i singoli si stia differenziando sempre di più tra chi è vaccinato e chi non lo è. I vaccini rendono meno probabili i contagi, ma non possono bloccarli completamente, e ciò significa che il coronavirus continuerà a circolare. Lo farà però tra una popolazione via via sempre più immunizzata, soprattutto grazie alle vaccinazioni, e quindi con difese immunitarie più adeguate per superare l’infezione ed eventualmente la malattia.
Vari esperti ritengono che saremo esposti continuamente al coronavirus, ma che potremo contare sulla protezione acquisita per evitare che si ripetano gli scenari delle prime ondate nel 2020. La continua esposizione potrà inoltre contribuire a mantenere la memoria immunitaria, aiutandoci ad avere le giuste difese contro eventuali infezioni. Ciò potrà valere soprattutto per la popolazione in generale, mentre a livello locale e per singoli gruppi di persone il percorso sarà meno lineare, con la possibilità che si sviluppino focolai.
Molto dipenderà anche dell’evoluzione del coronavirus, come ha dimostrato la diffusione della variante delta in Occidente con nuovi aumenti dei contagi. I vaccini hanno però consentito di ridurne sensibilmente gli effetti, soprattutto per quanto riguarda ricoveri e decessi, a dimostrazione della loro capacità di influire sull’andamento della pandemia.