Le elezioni regionali cambieranno qualcosa per la sanità calabrese?
È uno dei problemi più grossi, ma il nuovo presidente potrebbe avere poco spazio per intervenire finché sarà commissariata
di Stefano Nazzi
La costruzione dell’ospedale di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, iniziò nel 1976. Nel 1991 fu infine completato, pronto per essere operativo. Costò 7 miliardi di lire, che oggi corrispondono a circa 6,5 milioni di euro, ma non fu mai utilizzato, e oggi è abbandonato e coperto da rovi e spazzatura. Negli anni è stato portato via tutto, attrezzature, letti, ma anche rubinetti, lavandini, porte, infissi, scaldabagni. Quello che non è stato rubato è stato distrutto, ci sono le tracce di chi vi ha trovato rifugio e vissuto e quelle dei greggi di pecore che ci hanno pascolato. Al piano terra trovarono qualche anno fa la carcassa di un cavallo.
«Fu realizzato», spiega Ettore Jorio, docente di Diritto civile della Salute e della Assistenza sociale all’Università della Calabria, «perché molti avevano interesse a guadagnarci costruendolo e poi allestendolo di tutto. Farlo funzionare invece non serviva a chi voleva solamente farci tanti soldi».
L’ospedale di Rosarno è considerato un simbolo, uno dei tanti, del disastro della sanità calabrese, commissariata da 11 anni, cioè da quando a Roma si pensò che mandare qualcuno da fuori fosse l’unico modo per risanare una situazione economica da bancarotta. La stessa desolazione la si avverte osservando l’ospedale di Scalea, in provincia di Cosenza, costato 20 miliardi di lire negli anni Ottanta e mai entrato in funzione, o quello psichiatrico di Grifalco, vicino a Catanzaro, grande 600.000 metri quadrati e diventato inutile ancor prima di aprire per l’entrata in vigore della legge Basaglia nel 1978. Non fu mai riconvertito.
In tanti anni, nessuno ha seriamente provato a recuperare questi ospedali fantasma. I politici calabresi non hanno avuto troppo da preoccuparsene: sulla sanità, da anni, presidenti di Regione, giunte e assessori non decidono nulla. Ci sono i commissari inviati dal governo centrale, e le decisioni spettano a loro.
Il 3 e il 4 ottobre in Calabria si voterà per eleggere il nuovo presidente della Regione dopo che Jole Santelli, che era stata eletta con il centrodestra nel gennaio del 2020, era morta improvvisamente il 15 ottobre dello stesso anno.
– Leggi anche: Da dove viene il disastro della sanità in Calabria
Il centrodestra ha candidato Roberto Occhiuto: è in politica da sempre, così come il fratello, Mario, sindaco di Cosenza. Laureato in Economia all’università della Calabria, ha iniziato con la Democrazia Cristiana in un consiglio circoscrizionale di Cosenza e poi in consiglio comunale. Con il fratello ha creato un polo televisivo che ha unito varie emittenti calabresi, Media Tv, di cui è stato direttore generale. Passato a Forza Italia venne eletto in consiglio regionale. Con il resto del suo partito in Calabria però non ha mai avuto vita facile: dopo una serie di scontri con l’altra famiglia storica di Forza Italia in Calabria, i Gentile, passò all’Udc di Lorenzo Cesa. L’operazione non ebbe successo, e Occhiuto tornò in Forza Italia. È entrato in Parlamento nel 2018 ed è stato capogruppo alla Camera. Ora è arrivata la candidatura alla presidenza della Calabria insieme ad Antonino Spirlì, che era già vice presidente con Santelli, che aveva sostituito dopo la morte. Occhiuto ha accettato l’indicazione ma non ne è sembrato entusiasta.
Molto diversa è la candidata di centrosinistra, Amalia Bruni. Non è una politica, alla sua candidatura si è arrivati dopo una lunga serie di scontri interni, e alla fine è sostenuta sia dal centrosinistra sia dal Movimento 5 Stelle. Bruni è una neurologa molto conosciuta a livello internazionale per i suoi studi sulle forme ereditarie di Alzheimer. È stata collaboratrice del premio Nobel Rita Levi Montalcini. Venticinque anni fa fondò il Centro di ricerca neurogenetica di Lamezia Terme, di cui è ancora la direttrice. È la prima volta che una donna è candidata per il centrosinistra in Calabria.
Il nome sicuramente più celebre tra i candidati alla presidenza della Regione Calabria è quello di Luigi de Magistris, che è napoletano, è stato per due mandati sindaco di Napoli ma in Calabria ha lavorato molto come magistrato. In particolare è ricordato in regione per la celebre inchiesta “Why Not”, in seguito alla quale fu anche accusato e poi assolto d’abuso d’ufficio per aver acquisito i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza chiedere la preventiva autorizzazione. Fin dall’inizio della sua candidatura de Magistris è stato molto attivo nella regione, legandosi a movimenti e associazioni. Le liste che lo sostengono sono composte da pochi politici e da molti esponenti del volontariato e dell’università.
Il quarto candidato è Mario Oliverio. È stato presidente della provincia di Cosenza e poi, dal 2014 al 2020, presidente della Regione Calabria. Ha avuto guai giudiziari da cui poi è stato prosciolto, ma disse di non essersi sentito protetto dal suo partito, il PD. Prima ha provato a convincere il partito a ricandidarlo cercando un’alleanza con de Magistris, poi ha deciso di presentarsi da solo, radunando attorno a sé un po’ di militanti delusi ed ex amministratori della sua giunta.
Secondo i sondaggi Occhiuto è in vantaggio su Bruni, ma le rilevazioni non concordano sullo scarto. Quella in Calabria è l’unica elezione regionale di questo giro di amministrative, e non è previsto il ballottaggio.
Nessuno dei candidati ha presentato un programma specifico per spiegare cosa intenda fare per tentare di mettere mano alla voragine inefficiente della sanità calabrese, un’industria che nonostante tutto fa girare molti soldi e che porta voti: il 70 per cento della spesa pubblica finisce lì. Tutti e quattro i candidati, pur con sfumature e parole diverse, hanno detto che non si dovrà più ricorrere ai commissariamenti (Roberto Occhiuto ha annunciato: «la Sanità calabrese ai calabresi»). E tutti e quattro hanno promesso in campagna elettorale che verrà ricostruita la sanità territoriale. Come intendono farlo però non l’hanno spiegato con precisione.
L’impresa appare mastodontica, anche se necessaria. «Con una sentenza depositata a luglio», spiega Jorio, «la Corte Costituzionale ha stabilito che non deve essere il commissario a decidere monocraticamente il programma operativo regionale. In pratica, la Corte ha detto che i commissari devono sopperire, non sostituire. Spetterà al vincitore delle elezioni occuparsi della Sanità calabrese in termini di programmazione. La gestione resterà al commissario fino al dicembre del 2022».
Quello che troverà il prossimo presidente regionale, e su cui comunque per ancora 15 mesi non potrà intervenire, è un debito pregresso vicino ai 3 miliardi di euro. La cifra precisa non la si conosce: nel 2008, quando la Regione Calabria chiese aiuto al governo ammettendo di essere in difficoltà a gestire la situazione, il Consiglio dei ministri si rese conto che non esistevano bilanci scritti. L’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, disse: «ci hanno spiegato che tramandano i bilanci per tradizione omerica. Oralmente».
In realtà la gestione della sanità calabrese era già stata affidata dal 2007 alla Protezione civile, per fronteggiare l’emergenza socio-economico-sanitaria che si era creata nella regione. La decisione fu presa dal governo dopo che due ragazzi erano morti per carenze delle strutture pubbliche. Federica Monteleone, 16 anni, morì il 26 gennaio 2007 nell’ospedale di Vibo Valentia durante un intervento di appendicectomia, perché saltò l’energia a causa di un black-out. Flavio Scutelli, 12 anni, morì a Polistena, nella piana di Gioia Tauro, il 30 ottobre 2007: cadde da un’altalena, dall’ospedale di Polistena (Reggio Calabria) doveva essere trasferito a quello di Reggio per essere operato, ma per ore non si trovò un’autoambulanza che potesse trasportarlo.
Contando gli anni di gestione della Protezione civile, sono così 11 quelli in cui sulla sanità calabrese non hanno deciso le amministrazioni regionali, su 14. Nel 2010, terminato il mandato affidato alla Protezione civile, il governo presieduto da Silvio Berlusconi nominò il primo commissario alla sanità calabrese. La scelta cadde sul presidente di Regione, Giuseppe Scopelliti, che assunse quindi il doppio incarico e lo tenne per tre anni.
Allora il rapporto medici-abitanti in Calabria era tra i più alti del paese, quello medici pazienti addirittura di uno ogni venti, gli organici erano enormi, c’erano 11 aziende sanitarie e 20 miniospedali. «Ero stato sub-commissario con la Protezione civile», dice ancora il professor Jorio, «e allora il deficit patrimoniale era di circa 2,1 miliardi di euro. Una situazione già drammatica che poi è sempre peggiorata, si sono tagliati i costi ma affidandosi a chi di Sanità non capiva nulla, e la ‘ndrangheta ha continuato a essere presente nelle strutture della Sanità».
La sanità in Calabria è sempre stata terreno di scorribande per la criminalità organizzata. «Il fenomeno divenne evidente per tutti quando nel 2005 fu ucciso Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale», dice al Post Antonio Talia, giornalista e scrittore, autore di Statale 106, viaggio sulle strade segrete della ‘ndrangheta. «Assassinato, come stabilito da tre gradi di giudizio, su ordine di Alessandro e Giuseppe Marcianò, padre e figlio, caposala e infermiere all’ospedale di Locri. Speravano così di far subentrare in consiglio regionale, e che diventasse assessore alla Sanità, il primo dei non eletti, Domenico Crea, poi condannato per contiguità con organizzazioni criminali. Per capire oggi perché la Sanità calabrese è così disastrata basta guardare le cronache delle inchieste giudiziarie. E andare a controllare nelle strutture sanitarie l’enorme livello di gestione clientelare».
Il 13 maggio, davanti alla commissione antimafia, l’attuale commissario alla Sanità calabrese Guido Longo disse: «Non da adesso, ma da parecchi anni, nella Sanità calabrese [la ‘ndrangheta] è stata presente e per certi versi lo è ancora e lo dimostrano le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e Catanzaro. E non si può parlare di casi eccezionali». Le aziende sanitarie di Locri e Reggio Calabria sono state sciolte e poi commissariate per infiltrazioni della criminalità organizzata. Era già accaduto in passato, sia a Locri sia a Reggio Calabria. Anche l’ASL di Vibo Valentia era stata sciolta per lo stesso motivo.
Scopelliti lasciò l’incarico di commissario straordinario nel 2014 perché accusato di abuso d’atti d’ufficio e falso in atto pubblico quando era sindaco di Reggio Calabria (fu poi condannato in via definitiva a 4 anni e 7 mesi). Dopo di lui ci fu un generale della Guardia di Finanza, Luciano Pezzi, seguito da un ingegnere, Massimo Scura, e poi, dal 2018, da un ex generale dei carabinieri, Saverio Cotticelli, dimessosi in piena emergenza coronavirus perché, davanti alle telecamere della trasmissione Artcolo V, disse di non sapere che spettasse a lui articolare un piano anti-pandemia con il potenziamento delle strutture ospedaliere.
Fu quindi il turno di Giuseppe Zuccatelli, durato una sola settimana e dimessosi perché circolò un video in cui sosteneva che indossare la mascherina contro il Covid non servisse a nulla. Venne quindi nominato Eugenio Gaudio, rettore dell’università La Sapienza di Roma, che però rinunciò perché, disse, «mia moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro». Infine venne indicato l’attuale commissario, l’ex prefetto ed ex questore Nicolò Longo.
Tutti i commissari hanno redatto giudiziosamente ciò che i vari governi avevano loro chiesto: piani di rientro dall’enorme debito. Cioè, hanno tagliato le spese. Negli anni di commissariamento, 18 ospedali sono stati chiusi, il ricambio dei dipendenti pubblici della sanità è stato bloccato, chi è andato in pensione non è stato sostituito. Mancano infermieri, medici, personale ospedaliero, laboratori, consultori, ambulanze. I posti letto, in 20 anni, sono diminuiti quasi del 60 per cento.
Un calabrese su cinque va a curarsi al Nord, anche per gli interventi che vengono definiti «a bassa complessità». Il 60 per cento dei malati oncologici si cura lontano dalla Calabria. Questa cosiddetta “mobilità passiva” costa 300 milioni di euro l’anno, 70 dei quali finiscono in Lombardia. Nella classifica dei Livelli essenziali di assistenza, i Lea, la Calabria ha 125 punti (ne aveva 133 nel 2019), ed è quindi sotto la soglia della sufficienza che è a 160 (l’Emilia-Romagna ha 212, Toscana e Veneto 193).
Per fare un esempio, solo il 25 per cento delle rotture del femore viene operato entro le 48 ore. Secondo un rapporto del 2019 realizzato dall’Istat, in Calabria, l’aspettativa di vita in buona salute è intorno ai 51,7 anni, contro i 56 della Sicilia e della Campania (nella Provincia di Bolzano, la più alta, è di 70 anni). In compenso da anni è stata decisa la costruzione di tre ospedali nuovi: quello della piana di Gioia Tauro è ancora solo un progetto, per la difficoltà di costruire in zona sismica. Anche a Vibo Valentia si è fermi al progetto, mentre a Sibari la costruzione è iniziata, e il termine dei lavori è fissato per il 2023.
L’ex commissario Massimo Scura ha scritto nel suo libro Calabria malata, Sanità l’altra ‘ndrangheta che «la Calabria non è importante per Roma né, purtroppo, per i calabresi, che si sono arresi a quanto giudicano inevitabile e immutabile. Questa assuefazione collettiva è la droga venduta dall’altra ’ndrangheta, silenziosa, che si insinua nella vita quotidiana, in particolare nella sanità pubblica, una miniera d’oro, per far proliferare i propri affari».
Tutti gli enormi problemi sono emersi ancora di più con l’arrivo della pandemia. La Calabria è stata a lungo in zona rossa non per il numero dei contagi ma perché mancavano i posti letto in terapia intensiva: erano 10,5 di media ogni 100.000 abitanti (secondo le direttive del ministero della Salute dovrebbero essere 14). In Italia ci sono in media 3,2 posti letto ospedalieri ogni mille abitanti (in Germania sono otto), sulla fascia jonica, dove sono stati chiusi molti ospedali, la media è di 0,94 posti letto ogni mille abitanti. Insufficienti anche senza la pandemia. Non emersero però solo carenze di strutture e personale negli ospedali: per tutta la provincia di Reggio Calabria, che ha 700.000 abitanti, c’era un solo laboratorio ad analizzare i tamponi molecolari. Venivano mandati a Bari, 440 chilometri di viaggio, e i referti arrivavano via fax.
Dice al Post Lino Caserta, presidente di Ace, una rete di centri di medicina solidale: «Il livello Lea di 125 punti significa che manca lo screening sui tumori, manca l’assistenza domiciliare ai disabili e a chi ha bisogno, mancano gli strumenti, i posti letto, le ambulanze. In Calabria il diritto alla salute è praticamente negato a tanta parte della popolazione. È un fallimento totale, non solo della classe dirigente locale ma anche di quella nazionale che ha deciso questi anni di commissariamento che hanno peggiorato la situazione».
Dal 2011 Emergency è presente nella piana di Gioia Tauro, prima con un ambulatorio mobile e poi con una struttura sequestrata alla ‘ndrangheta. Si occupa di garantire assistenza sanitaria ai tanti lavoratori stranieri che arrivano nella zona da settembre in poi per la raccolta degli agrumi. Ma è un punto di riferimento anche per molti calabresi. Dice Mauro Destefano, coordinatore del progetto Emergency di Polistena: «A fare le spese delle mancanze della sanità sono, come sempre, le fasce di popolazione più deboli che qui si trovano ad affrontare mancanza di strutture e mancanza di personale. È mancata l’assistenza sanitaria a casa di chi ne aveva bisogno e anche la rete dei trasporti carente. Spesso dobbiamo accompagnare noi nelle strutture ospedaliere persone che altrimenti non saprebbero come raggiungerle. In molte zone la medicina territoriale praticamente non esiste».
Sul fatto che tutti e quattro i candidati alla carica di presidente puntino sulla ricostruzione della medicina del territorio, Jorio dice che spera «che capiscano bene cosa significa. Il 32 per cento della popolazione calabrese vive sopra i 500 metri d’altezza, in Aspromonte, sulla Sila, sul Pollino. Medicina del territorio non significa solo aprire un ambulatorio a Tropea, sul mare». Durante l’emergenza coronavirus, dopo le dimissioni dei commissari Cotticelli e Zuccatelli, venne proposto che Gino Strada, fondatore di Emergency, fosse nominato nuovo commissario. Spirlì, ex vice presidente di regione divenuto presidente facente funzioni, commentò: «In Calabria non abbiamo bisogno di missionari africani». Fu anche proposto di affidare a Emergency il ripristino di uno degli ospedali abbandonati. Non se ne fece nulla.
Parallelamente allo smantellamento degli ospedali pubblici c’è stato l’incremento delle convenzioni con le cliniche private, molto costoso. I commissari che hanno tentato di mettere mano alle convenzioni con i privati si sono trovati ad aver a che fare con minacce di cause legali e di licenziamenti collettivi da parte di laboratori e cliniche. E poi ci sono le spese legali, per le quali la Calabria è ai primi posti tra le regioni italiane. Gli uffici legali delle aziende sanitarie calabresi non si oppongono al 90 per cento delle cause civili intentate dai creditori. Secondo l’istituto Demoskopika in Calabria nel 2020 ogni cittadino ha speso quasi 6 euro per spese legali riguardanti la Sanità, per un totale di 11,5 milioni di euro. A Reggio Calabria quando l’Asp (azienda sanitaria provinciale) venne sciolta per infiltrazione mafiosa, la Guardia di Finanza scoprì che le stesse fatture a cliniche o laboratori privati erano state pagate tre o quattro volte.
È con tutto questo che si troverà ad avere a che fare il prossimo presidente della Regione Calabria. «C’è un solo modo per uscirne», dice Caserta, «ammettere il fallimento e azzerare tutto, come si è fatto per Alitalia. Ripartire da zero. Ma mi chiedo anche che senso abbia votare adesso. La Sanità rappresenta il 70 per cento del bilancio regionale ma a gestire il denaro sarà ancora, fino a dicembre 2022, il commissario straordinario. E quindi il presidente della Regione che cosa potrà fare?».
– Leggi anche: Cosa stanno facendo le organizzazioni criminali in Italia