Come si è arrivati alle assoluzioni nel processo sulla “trattativa Stato-mafia”
Cosa significa la sentenza e cosa dice sulla teoria secondo cui negli anni '90 le istituzioni mediarono con la mafia per far finire le stragi
Con la sentenza con cui giovedì la Corte d’Appello di Palermo ha assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ribaltando la sentenza di primo grado nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, di fatto i giudici hanno ritenuto vero che la mafia tentò di piegare lo Stato con gli attentati dei primi anni Novanta, e che dialogò con gli ufficiali imputati. Ma questi ultimi, dice la sentenza, lo fecero per ragioni investigative, e non esercitarono pressione su politici e ministri perché cedessero alle richieste mafiose.
Anche se le motivazioni saranno pubblicate entro i soliti 90 giorni è una sentenza molto rilevante, già estesamente commentata, arrivata dopo tre giorni di camera di consiglio e soprattutto dopo anni di grandi dibattiti e teorie che avevano diviso giornalisti, accademici e magistrati. La tesi dell’esistenza della trattativa riguardava le stragi del 27 maggio 1993 in via dei Georgofili a Firenze (5 morti e quasi 50 feriti) e della notte tra 27 e 28 luglio in via Palestro a Milano (5 morti e 12 feriti) nonché con le bombe, sempre la stessa notte, a Roma alle chiese di san Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro (oltre 20 feriti in totale).
Nella sentenza di ieri è stata confermata la condanna al medico di Totò Riina, Nino Cinà, al boss Leoluca Bagarella (da 28 anni del primo grado la pena è stata ridotta a 27) mentre sono state dichiarate prescritte le accuse a Giovanni Brusca. Dell’Utri è stato assolto perché «il fatto non sussiste», e quindi con una motivazione ancora diversa rispetto a quella degli ufficiali (nel loro caso, «il fatto non costituisce reato»).
La conclusione dei giudici è che gli imputati ebbero contatti e colloqui con il sindaco di Palermo Vito Ciancimino, referente della mafia, ma solo per ottenere informazioni e portare avanti le loro indagini. E che quindi non fecero pressioni, come precedentemente ipotizzato, su Nicola Mancino (allora ministro dell’Interno), su Claudio Martelli (ministro di Grazia e Giustizia) e su Luciano Violante (presidente della commissione parlamentare antimafia), perché cedessero alla violenza.
Le conclusioni dell’indagine dei pubblici ministeri Nino Di Matteo e Antonio Ingroia (ora ex magistrato) sono state così contraddette dalla sentenza di ieri così come sono stati smontati il verdetto di primo grado e le sue motivazioni di 5.221 pagine. In primo grado, il 20 aprile 2018, Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinnà erano stati condannati a 12 anni di carcere; Giuseppe De Donno a otto. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, venne assolto. Calogero Mannino, ex ministro del Mezzogiorno, era stato assolto in precedenza col rito abbreviato il 4 novembre 2015, sentenza poi confermata in Appello e dalla Cassazione.
Secondo i pubblici ministeri che avevano avviato l’indagine sarebbe stato lui, per paura di essere ucciso, a intavolare la trattativa. Proprio la sua assoluzione definitiva decisa dalla Cassazione nel luglio 2019 aveva però tolto all’accusa un primo tassello fondamentale. Se veniva giudicato non colpevole Mannino, che secondo il pm Di Matteo era stato origine di tutto, l’intero impianto accusatorio subiva un duro colpo, come poi dimostrato dalla sentenza di giovedì. L’unico politico rimasto nel processo non era quindi un rappresentante della cosiddetta prima Repubblica, attivo cioè negli anni in cui la trattativa si sarebbe inizialmente sviluppata, ma un esponente della seconda, Marcello Dell’Utri, coinvolto, secondo l’accusa, in una seconda fase della trattativa, quella del 1994.
Per comprendere e ricostruire meglio la storia bisogna partire dal contesto. L’anno era il 1992, le guerre di mafia erano terminate e a vincerle era stata la cosca dei corleonesi: Totò Riina, il capo, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e tuti i loro affiliati. È stata storicamente la famiglia mafiosa più sanguinaria. Il 12 marzo del 1992 Salvo Lima, principale esponente della Democrazia Cristiana in Sicilia e referente di Giulio Andreotti, fu assassinato mentre stava uscendo dalla sua villa a Mondello. Riina e i corleonesi lo avevano condannato a morte, ricostruirono le indagini, perché non era riuscito a far annullare o sospendere il celebre maxiprocesso che, il 30 gennaio di quell’anno, si era chiuso in Corte di Cassazione con la conferma delle condanne per 346 persone. Erano stati decisi 19 ergastoli (tra cui quelli a Riina, Bagarella e Provenzano) e un totale di 2.665 anni di reclusione.
L’assassinio di Lima fu anche interpretato sia dalla classe politica sia da chi poi condusse le indagini come una sorta di avvertimento. Riina e i corleonesi, contestualmente all’omicidio Lima, avrebbero anche deciso di colpire duramente lo Stato. Una prova di forza culminata con le bombe di Firenze, Milano e Roma e con l’attentato fallito al giornalista Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993.
Nel 2000 partì un’indagine nei confronti di Totò Riina, del suo medico Antonio Cinà e di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo per un anno, dal 1970 al 1971. Ma soprattutto, in precedenza, potentissimo assessore ai lavori pubblici durante il cosiddetto sacco di Palermo, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando in cinque anni su 4.000 licenze edilizie rilasciate ben 2.500 furono intestate a tre sconosciuti pensionati, evidentemente prestanome.
L’ipotesi dei pubblici ministeri palermitani era che, attraverso Ciancimino e Cinà, che avevano accesso al latitante Totò Riina, i mafiosi corleonesi avessero esercitato un ricatto allo Stato: le stragi sarebbero continuate se le istituzioni non fossero venute incontro ad alcune richieste. Fu allora che per la prima volta si sentì parlare del celebre “papello”, e cioè di un elenco di richieste che lo stesso Totò Riina avrebbe inviato ai vertici dello Stato per discutere le condizioni per porre fine agli attacchi stragisti. L’inchiesta si arenò nel 2004, sostanzialmente perché non c’erano prove sufficienti sull’ipotetica trattativa.
L’indagine si rivitalizzò nel 2008 con Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco morto nel 2002. Disse ai giudici che il colonnello dei carabinieri De Donno, con cui era in confidenza, gli aveva chiesto nel 1992 di poter incontrare suo padre per parlare di un possibile accordo riguardante alcuni benefici per i mafiosi detenuti. L’incontro ci fu e partecipò anche il generale Mori, che ha sempre sostenuto, però, di aver portato avanti il contatto con Ciancimino per motivi investigativi, per arrivare cioè a catturare i vertici di Cosa Nostra.
Disse Mori durante una fase del processo: «Vito Ciancimino non era la solita fonte informativa da quattro soldi». Massimo Ciancimino disse ai pm palermitani di essere in possesso del famoso papello, che consegnò poi ai giudici. Consisteva in una serie di richieste: revisione della sentenza del maxi-processo; annullamento del 41-bis dell’ordinamento penitenziario (il cosiddetto carcere duro); revisione della legge Rognoni-La Torre (reato di associazione mafiosa); riforma della legge sui pentiti; riconoscimento dei benefici ai dissociati condannati per mafia (come per il terrorismo); arresti domiciliari dopo i 70 anni di età; chiusura delle super-carceri; carcerazione vicino alle case dei familiari; nessuna censura sulla posta dei familiari; misure di prevenzione e rapporto con i familiari; arresto solo in flagranza di reato; defiscalizzazione della benzina in Sicilia.
Sull’autenticità del papello e sull’attendibilità di Massimo Ciancimino si è molto discusso. Nella relazione introduttiva nel processo d’Appello, nel giugno 2019, Il presidente della Corte d’Appello Angelo Pellino, scrisse:
«A far dubitare della autenticità del documento definito “papello”, consegnato da Massimo Ciancimino, sono le sicure modifiche apportate dallo stesso Ciancimino assieme alla persistente incertezza sul vero autore del documento. In definitiva le prove sull’autenticità finiscono per passare dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, caratterizzate da oscillazioni e incertezze. Anche lo stesso Salvatore Riina esclude di avere scritto alcunché.
La falsificazione documentale è stata utilizzata da Ciancimino per supportare le sovrastrutture artificiosamente aggiunte, ma il contenuto corrisponde effettivamente alle richieste promanate dai vertici mafiosi. Lo stesso Brusca nel 1996, ancor prima di Massimo Ciancimino, parlò di un “papello” precisando di non avere mai visto il documento scritto. È provato, così è scritto nelle motivazioni della corte d’assise, che Riina abbia risposto alla sollecitazione pervenuta facendo conoscere le condizioni per far cessare la strategia stragista. Non è provato che il papello sia stato effettivamente scritto da lui. Resta da provare che la minaccia di riprendere o proseguire la strategia stragista sia pervenuta al destinatario.
In pratica nella requisitoria veniva detto che Riina e i corleonesi con le stragi volevano effettivamente un intervento dello Stato sulle sentenze e sulle leggi. Ma, disse il presidente della Corte d’Appello, era da provare che lo Stato effettivamente si piegò alle richieste. A supporto dell’ipotesi che la trattativa avvenne realmente, i pubblici ministeri portarono il fatto che nel novembre del 1993 ci fu una mancata proroga automatica del regime di 41-bis a circa 300 detenuti. Nel processo d’Appello ha testimoniato l’ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Andrea Calabria, che ha spiegato come, in quella circostanza, venne tenuto conto di una sentenza della Corte Costituzionale che aveva espressamente indicato di valutare caso per caso i soggetti prossimi alla data del rinnovo del 41 -bis. Il rinnovo automatico, quindi, non doveva esserci. L’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso si attenne alle indicazioni.
Il testimone di Giustizia Giovanni Brusca confermò l’esistenza del papello. Parlando in tribunale, dietro a un paravento, davanti al giudice Piergiorgio Morosini che doveva decidere sul rinvio a giudizio di dieci imputati per la trattativa Stato-mafia, testimoniò: «Riina mi disse “Si sono fatti sotto, vogliono sapere cosa vogliamo per fermare le stragi. E io gli ho consegnato un papello di richieste grande così”». Brusca disse davanti al giudice di aver incontrato di nuovo Riina dopo qualche giorno. «Fu in quell’occasione che Riina mi parlò di Mancino, dicendo che era il terminale delle nostre richieste».
Il gup Marina Petruzzella, che assolse Calogero Mannino, scrisse nelle motivazioni della sentenza a proposito del papello e di Ciancimino:
«Lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale; ed è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall’estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm e ha detto di non conoscerne l’autore. Non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti da Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale».
Secondo il pubblico ministro Nino Di Matteo nella vicenda della trattativa rientrerebbe anche l’omicidio di Paolo Borsellino, assassinato, disse, «per proteggere la trattativa dal pericolo che, venutone a conoscenza, ne rivelasse pubblicamente l’esistenza pregiudicandone l’esito». Nella sentenza del processo d’Appello del Borsellino Quater, i giudici però affermarono:
«Non può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la trattativa Stato-mafia “avrebbe aperto nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano”. Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata strategia stragista unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”.
Il 19 dicembre 1992 Vito Ciancimino venne arrestato dopo aver chiesto un passaporto per l’espatrio. Il 15 gennaio 1993 fu arrestato Totò Riina. Dopo la sua cattura, secondo i pubblici ministeri, si aprì una nuova fase della trattativa che culminò con il tentativo di esercitare pressioni sul nuovo potere politico, e cioè su Silvio Berlusconi. Secondo la tesi accusatoria attraverso il senatore Marcello Dell’Utri, Leoluca Bagarella, rimasto allora a capo dei corleonesi assieme a Bernardo Provenzano, avrebbe esercitato pressioni sul capo del governo perché ci fossero iniziative legislative per ammorbidire la situazione carceraria dei detenuti per mafia.
Anche in questo caso la sentenza di ieri smonta le accuse. Bagarella tentò di far arrivare le minacce a Silvio Berlusconi ma Dell’Utri, che ha già una condanna definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, non veicolò quella minaccia.
Ha detto Dell’Utri dopo la lettura della sentenza: «Questa sentenza è la migliore risposta a quelli che spargevano odio; onestamente non me l’aspettavo ma la sognavo. Sono soddisfatto e commosso. È un peso che ci togliamo, il sistema giudiziario funziona».
Danila Subranni, figlia dell’ex generale Subranni, ha scritto un lungo post:
«Grazie alla conoscenza profonda che ho del rigore etico di mio padre, grazie alla famiglia, agli amici, ai miei colleghi, non ho mai avvertito la necessità di una riabilitazione del mio cognome, scandito sempre a chiare lettere, a voce ferma, in ogni ambito istituzionale in cui ho lavorato. Si riabilitino gli altri, se possono, si riabilitino coloro che negli anni, a processo in corso, a vario titolo e livello, hanno leso mio padre, la sua indiscutibile appartenenza allo Stato, colpendolo al cuore irrimediabilmente, ferendo la vita di mia madre, la mia e quella di mio fratello. Per quel che ci riguarda, chiederemo che ne rispondano a uno a uno, nei modi possibili che la Legge ci consentirà di perseguire. In base al principio di garanzia che vale per tutti: chi sbaglia, paga».
L’ex magistrato Antonio Ingroia, intervistato dalla Stampa, ha detto:
«Che di questa trattativa debbano rispondere solo gli uomini della mafia, usati come capro espiatorio, e nessun uomo dello Stato mi pare un risultato sostanzialmente ingiusto. Certamente lo Stato non esce assolto da questa sentenza, escono assolti solo quegli uomini dello Stato che erano stati imputati. Da una parte la Corte d’appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall’altro assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c’è stata e che non è una bufala».
Sarà la Corte di Cassazione a decidere se confermare le assoluzioni di ieri o se riaprire a livello giudiziario l’intera vicenda.