Il “Dune” che non esiste
È quello monumentale, ambizioso e pazzo che provò a fare il regista cileno Alejandro Jodorowsky, coinvolgendo tra gli altri Dalí, i Pink Floyd e Orson Welles
di Gabriele Gargantini
Dune, il film di fantascienza diretto da Denis Villeneuve e ispirato al celebre romanzo di Frank Herbert, è nei cinema da una settimana: sta piacendo molto e incassando non poco, al punto che già sembra plausibile che il regista alla fine potrà fare il sequel che ha in mente, ma che sembra essere condizionato al successo della prima parte. Di certo sta piacendo molto più del Dune di David Lynch del 1984, che deluse molti, compreso Lynch stesso.
Sia il Dune di Villeneuve sia quello di Lynch sembrano comunque poca cosa se rapportati a quello che avrebbe potuto essere il Dune di Alejandro Jodorowsky, regista di culto degli anni Sessanta e Settanta che aveva l’ambizione di renderlo «il film più importante nella storia dell’umanità». Un film di cui non fu mai girato nemmeno un secondo, ma che sulla carta esiste tutto. E che in qualche modo lasciò molto alla storia del cinema.
La storia del cinema è piena di grandi film che non esistono. Il Viaggio di G. Mastorna di Federico Fellini, L’assedio di Leningrado di Sergio Leone, Kaleidoscope di Alfred Hitchcock, Megalopolis di Francis Ford Coppola o il Napoleone di Stanley Kubrick, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere girato con l’ausilio di decine di migliaia di comparse fornite dall’esercito rumeno. Alcuni rimasero perlopiù nella testa dei loro registi, altri arrivarono su carta o, almeno in parte, su pellicola. Ma di nessuno di questi si può dire che ambisse a fondere la genialità – tra gli altri – di Salvador Dalí e di Mick Jagger, di Moebius e dei Pink Floyd, e perfino di Orson Welles. A quanto pare, tutti convinti da Jodorowsky a dare, chi più e chi meno, il loro contributo al suo Dune.
Nato in Cile e figlio di due ebrei emigrati dall’Unione Sovietica, Jodorowsky – che ora ha 92 anni – arrivò al cinema dal teatro, dopo essere stato (in una lista decisamente incompleta delle sue varie attività) clown, mimo, scrittore, attore e regista teatrale. Nel 1957 girò il suo primo cortometraggio a Parigi, dove era arrivato alcuni anni prima e dove, tra le tante altre cose, fu anche stretto collaboratore di Marcel Marceau. Nel 1968 girò Il paese incantato, un film surrealista e d’avanguardia, e due anni più tardi diresse El Topo, un film riconducibile al sottogenere cinematografico noto come acid western, in cui recitò insieme a suo figlio Brontis, che allora aveva sette anni.
El Topo è un film stranissimo, di cui è difficile fare una sintesi. Un paio di anni fa, BBC ne scrisse: «è quello che uscirebbe se Clint Eastwood rifacesse Alice nel paese delle meraviglie, però in versione western, e se i Monty Python ne facessero a loro volta la versione satirica e farsesca, con le scene di questi due ipotetici film montate insieme, mettendo qua e là scene di nudo e di fustigazione».
Risulta ancora più difficile riassumere in poche righe cosa fu La montagna sacra, che uscì nel 1973. Un film di cui Jodorowsky fu produttore, regista, scrittore, attore, montatore e autore delle colonne sonore, e di cui BBC si limitò a scrivere che era «persino più strambo» di El Topo.
Mentre El Topo si era trovato un suo pubblico di nicchia, La montagna sacra fu proprio un successo. Come ricorda con orgoglio Jodorowsky nel documentario del 2013 Jodorowsky’s Dune, nei cinema in questi giorni distribuito da Valmyn, in Italia quel film fu addirittura il secondo dell’anno per incassi, secondo solo a Agente 007 – Vivi e lascia morire, l’ottavo film su James Bond.
Quel successo portò il produttore francese Michel Seydoux, che già aveva avuto modo di conoscere e collaborare con Jodorowsky, a dirgli che avrebbe finanziato qualsiasi film lui avesse voluto fare. Jodorowsky disse che voleva fare Dune.
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Dune è un romanzo di fantascienza scritto nel 1965 dallo statunitense Frank Herbert. È lungo più di 600 pagine e raccontava la complessa e intricata storia di una galassia di cui fa parte il pianeta Arrakis: desertico, pieno di dune, infestato da giganteschi vermi con denti di cristallo e di fondamentale importanza in quanto unico pianeta sul quale è possibile estrarre “la Spezia”, una portentosa materia prima che vogliono in molti, principalmente perché consente i viaggi spaziali. In Dune, Arrakis diventa sede di uno scontro tra gli Harkonnen e gli Atreides, due delle dinastie al centro del sistema feudale dell’Impero che guida quella galassia.
È un libro profondo e pieno di piani di lettura, che parla di ecologia, filosofia, politica e religione, ma anche di guerre, popoli e persone. «Tranne il Signore degli Anelli, non conosco niente che sia al suo livello», disse Arthur C. Clarke, autore del soggetto di 2001: Odissea nello Spazio. Dune, insomma, raccontava una gran storia, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta avevano letto in molti.
Ma non Jodorowsky. Come ammette lui stesso in Jodorowsky’s Dune, disse infatti a Seydoux di volerci fare un film perché un amico gli aveva detto che «era fantastico».
I diritti per la versione cinematografica di Dune, che già si era capito sarebbe stata parecchio difficile da fare, li aveva però già comprati nel 1971 la casa di produzione statunitense Apjac International, guidata da Arthur P. Jacobs, il quale voleva che a trasformare Dune in un film fosse David Lean, il regista di Lawrence D’Arabia, Il ponte sul fiume Kwai e Il dottor Zivago. I dubbi di Lean e, poco dopo, la morte di Jacobs bloccarono però il progetto, che a dire il vero non era nemmeno granché partito.
Nessuno oppose quindi particolare resistenza quando a fine 1974 Seydoux chiese di poterli avere lui, quei diritti. Seydoux aveva quindi i diritti di un film e il regista a cui farlo dirigere. E come racconta Jodorowsky in Jodorowsky’s Dune, il produttore affittò un castello in cui il regista andò a stare, da solo, per un paio di mesi, col fine di scrivere il suo Dune.
Da lì, dopo che Jodorowsky lesse il romanzo, iniziò quella fase che, se questa storia fosse un film su una rapina, sarebbe quella in cui il capo della banda gira il mondo per assoldare i suoi complici. E che in un articolo scritto nei primi anni Duemila (che su certe cose offre versioni parzialmente diverse da quelle raccontate nel documentario del 2013) Jodorowsky presentò come la fase della ricerca dei suoi “sette samurai”.
Come racconta nell’articolo e ancora meglio nel documentario, anzitutto Jodorowsky cercò e ottenne la collaborazione del fumettista francese Jean Giraud, anche noto con il nome d’arte Moebius. «Quel tipo era la mia cinepresa», dice. Nel senso che i due passarono svariati giorni insieme, e mentre il regista immaginava e raccontava scene, inquadrature, ambientazioni, architetture, volti, costumi e movimenti di camera, Moebius li disegnava. Dopo migliaia di disegni, i due arrivarono quindi ad avere quello che nel cinema è noto come storyboard: una sceneggiatura disegnata scena per scena.
Fatta la storia e forti del fatto che Seydoux davvero non intendesse badare a spese pur di fare Dune, Moebius e Jodorowsky andarono quindi da Douglas Trumbull, che per conto di Kubrick si era occupato degli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio. Ma non andò bene. Nel documentario, Jodorowsky dice che per lavorare al suo film voleva «guerrieri spirituali» e che invece Trumbull era sì un «gran tecnico», ma di certo non «una persona spirituale». L’incarico fu dunque affidato a Dan O’Bannon, che aveva lavorato agli effetti speciali di Dark Star, un film di John Carpenter descritto da Variety come «una molle parodia di 2001: Odissea nello spazio, che però si fa notare per degli effetti speciali sorprendentemente credibili, fatti con un budget davvero striminzito».
Per disegnare le astronavi fu scelto l’artista britannico Chris Foss, autore delle copertine di libri e riviste di fantascienza che Jodorowsky aveva visto e apprezzato. Per occuparsi di diversi aspetti di ciò che riguardava gli Harkonnen (quelli per cui NON si fa il tifo leggendo o guardando Dune) fu scelto l’artista svizzero Hans Ruedi Giger, specializzato in opere alquanto sinistre. Per le musiche, l’idea di Jodorowsky era scegliere diversi musicisti e affidare a ognuno di loro uno dei pianeti del film. Tra gli altri, il regista fece accordi con i Pink Floyd, freschi dal successo di Dark Side of the Moon.
«Non si può fare un capolavoro senza follia», dice Seydoux in Jodorowsky’s Dune. Anche dal punto di vista del cast, il Dune di Jodorowsky esemplificava bene il concetto. Il ruolo di Paul Atreides (il protagonista, che nel recente film è interpretato da Timothée Chalamet) fu affidato a Brontis, il figlio nel frattempo diventato dodicenne di Jodorowsky, che lo sottopose a un paio di anni di intense sedute di preparazione il cui scopo era di «risvegliare la sua creatività», e a un considerevole numero di ore a settimana dedicate all’allenamento nelle arti marziali e nel combattimento con la spada.
Secondo alcuni resoconti, al giovane Brontis si sarebbero dovuti aggiungere: David Carradine nel ruolo del duca Leto, e poi Gloria Swanson, Geraldine Chaplin, Udo Kier, Alain Delon e Mick Jagger. Soprattutto, però, Jodorowsky si adoperò affinché ci fossero Salvador Dalí e Orson Welles. Il primo non aveva mai recitato, il secondo aveva praticamente ormai smesso di farlo.
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In Jodorowsky’s Dune, Jodorowsky ricorda come riuscì a convincere entrambi. Sapendo quanto gli piacesse mangiare, fece cercare Welles nei migliori ristoranti di Parigi. Lo trovò, gli propose la parte del Barone Vladimir Harkonnen (il capo dei “cattivi”, che nel romanzo è descritto come oltremodo grasso) e Welles rifiutò, dicendo che non voleva più recitare. Jodorowsky racconta che riuscì tuttavia a convincerlo offrendogli di assumere sul set lo chef di quel ristorante in cui stava cenando.
Dalí, che nei piani di Jodorowsky doveva essere il folle imperatore galattico Shaddam IV, fu più difficile da persuadere. Ci fu più di un incontro, tutti tra lo strampalato e il surreale, ad alcuni dei quali era presente anche Amanda Lear. La quale dice, sempre nel documentario, che «Dalí non aveva assolutamente idea di cosa parlasse Dune, non aveva mai letto il libro». Avvertì inoltre Jodorowsky dicendogli «Dalí è distruttivo».
In effetti, Dalí, che voleva essere l’attore più pagato al mondo, chiese un compenso di 100mila dollari l’ora e fece alcune strane richieste. Voleva per esempio che il suo trono fosse un water in cui due delfini si incrociavano tra di loro. Una delle due bocche, avrebbe dovuto fare da punto d’entrata delle feci, l’altra delle urine. «È assolutamente necessario vedere che l’imperatore fa la cacca e la pipì» disse mentre gli presentò un disegno del water che aveva in mente.
Ci fu una sorta di mediazione, al termine della quale si decise che Dalí sarebbe stato pagato 100mila dollari per ogni suo minuto nel film, e che quei minuti sarebbero stati giusto una manciata. Per le altre scene con l’imperatore si sarebbe usato un suo clone robot. Pare anche che Lear dovesse interpretare Irulan, la figlia dell’imperatore. Sembra tuttavia che alla fine Dalí usci dai piani, forse per via di certe sue dichiarazioni sul dittatore spagnolo Francisco Franco. Ma era Dalí, ed è tutto molto complicato.
Fatto lo storyboard e trovati gli attori (dopo Dalí, convincere Mick Jagger fu un gioco da ragazzi), restava da trovare una parte dei soldi necessari a girarlo, visto che quelli a disposizione di Seydoux non bastavano. Il film fu proposto a tutte le principali case di produzione di Hollywood, a molte delle quali fu fatto anche avere l’enorme libro illustrato da Moebius. «Ogni studio aveva questo libro», si dice in Jodorowsky’s Dune.
Ogni studio potè quindi vedere il progetto e stimare i costi di un film che Jodorowsky voleva girare in buona parte in Algeria. Che sarebbe dovuto iniziare con un lunghissimo piano sequenza che attraversa l’intero universo di Dune. Un piano sequenza che Jodorowsky voleva fosse «migliore di quello di Orson Welles all’inizio di L’infernale Quinlan» (che è portentoso e tecnicamente difficilissimo, e si limita ad attraversare una città). Che finiva in modo diversissimo rispetto al libro e di cui Jodorowsky disse: «volevo fare un film che avrebbe dato alla gente che all’epoca usava LSD le allucinazioni che si hanno con quella droga, ma senza allucinogeni. Non volevo che venisse usata l’LSD, volevo creare una droga».
In mezzo, tra le moltissime cose surreali e ambiziosissime che ci voleva mettere, avrebbe dovuto esserci anche una scena in cui un paio di migliaia di comparse (con ogni probabilità fornite dall’esercito algerino) fanno la cacca tutte insieme. Pare fu questa, ancor più di altre, la scena che dissuase Charlotte Rampling dal recitarci, quando le fu proposto la parte di Jessica, la madre del protagonista. Rampling che invece interpreta nel film di Villeneuve la reverenda madre Bene Gesserit, una sorta di mistica con un ruolo centrale.
Comprensibilmente, nel presentare il film alle case di produzione emersero problemi e non poche titubanze. Non ultime quelle relative al fatto che Jodorowsky intendesse fare un film di oltre dieci ore ed era poco o per nulla incline ad andare incontro alle altrui richieste. «È un sogno, non puoi cambiare il mio sogno», dice nel documentario.
Il film non si fece.
Del libro con le scene pensate da Jodorowsky e le illustrazioni di Moebius esiste ancora qualche copia. Ma quante siano nessuno lo sa davvero. Una, quella di Jodorowsky, si vede nel documentario, un’altra fu messa in vendita online qualche anno fa.
Nel 1976 Dino De Laurentiis acquisì i diritti del romanzo di Herbert, che ne trasse una sceneggiatura. L’idea era di farne dirigere la trasposizione cinematografica a Ridley Scott, che finì col rinunciare. Il progetto passò quindi tra le mani di Lynch, un altro che a quanto si dice accettò prima ancora di aver letto il romanzo. Quel film uscì nel 1984.
A quanto pare non dispiacque a Herbert. Sebbene fu poi almeno in parte rivalutato, diventando a suo modo un film di culto, molti lo giudicarono quasi incomprensibile, sfilacciato e troppo presuntuoso nel suo voler condensare centinaia di pagine fitte di ragionamenti e informazioni in poco più di due ore di film. La produzione fu complessa e piena di ostacoli e problemi, e Lynch in seguito ne parlò come di una «grandissima, gigantesca tristezza» della sua vita. Spiegò che il film non venne come voleva lui perché non gli fu dato «il totale controllo creativo» e ottenne che in certe sue versioni fosse presentato come un’opera di Alan Smithee, il nome (tra l’altro un’anagramma di “the alias men”) spesso usato dai registi che non vogliono essere associati a un film a cui hanno lavorato.
Di certo rese felice Jodorowsky. Prima, però, lo fece soffrire. Nel documentario sul suo film mai fatto dice infatti: «quando seppi che lo avrebbe diretto [Lynch] provai dolore perché io lo ammiro. Lui poteva farlo. Era l’unico in quel momento che poteva farlo, e lo avrebbe fatto. Ho sofferto perché era il mio sogno, ma un’altra persona lo avrebbe realizzato forse meglio di me». La felicità arrivò invece quando, una volta che il film di Lynch era nei cinema, Jodorowsky fu portato a vederlo quasi di forza: «Mi sentii felice perché il film era terribile. Un disastro».
Jodorowsky’s Dune racconta anche come molti dei «guerrieri spirituali» di Jodorowsky reagirono al fatto che il film a cui avevano lavorato non si fece. Ci fu chi (almeno all’inizio) la prese molto male; ma in generale, anche grazie a quella esperienza, molti di loro ebbero modo di lavorare altrove nel cinema. La tesi del documentario, che viene argomentata con una serie di convincenti immagini nel finale, è che il Dune che non esiste ebbe comunque una rilevantissima influenza. Soprattutto sul primo Star Wars – che uscì nel 1977 e di cui Herbert disse «proverò con tutte le mie forze a non fare causa» – e poi anche su Alien, a cui misero mano in varia misura O’Bannon, Foss, Giger e Moebius. Ma è probabile che gli spunti lasciati in quel libro che in molti a Hollywood avevano letto e in tutti i discorsi che riguardarono il progetto ebbero modo di comparire in molti altri film.
Jodorowsky, invece, non fece nessun altro film per molto tempo e preferì dedicare buona parte della sua creatività, tra l’altro partendo da molte delle idee avute per il suo Dune, ad alcune storie a fumetti. La più famosa è L’Incal, illustrata da Moebius. Molti anni dopo tornò a recitare (tra le altre cose in Musikanten di Franco Battiato, nel ruolo di Ludwig van Beethoven) e a dirigere: nel 2013 uscì il suo La danza della realtà, in parte autobiografico; nel 2016 ne uscì il seguito Poesia senza fine.
Non è noto cosa pensi Jodorowsky del Dune di Villeneuve. Si sa però che dopo averne visto il trailer commentò: «È fatto molto bene, si può vedere che è cinema industriale, che ci sono molti soldi dietro, che è costato molto». Aggiunse: «Ma non ci sono sorprese. La forma è identica a tutto quello che si fa altrove. Le luci, la recitazione: è tutto prevedibile».