Perché abbassiamo il volume dell’autoradio quando parcheggiamo
C'entra con il fatto che il nostro cervello ha risorse limitate e non riesce a fare bene più cose contemporaneamente
Intuitivamente, una musica molto alta mentre siamo alla guida non dovrebbe disturbare la nostra capacità di guardare fuori dai finestrini e negli specchietti, di stimare a mente le distanze, di dosare la pressione sui pedali. Tutte operazioni che non richiedono l’utilizzo dell’udito. Eppure probabilmente è capitato a chiunque guidi di abbassare in automatico il volume dell’autoradio prima di fare una delicata manovra in retromarcia per entrare in un parcheggio, oppure quando cerca un certo numero civico in una strada che non conosce. Qualcuno potrebbe anche essersi già chiesto quale sia l’automatismo mentale che ci porta a farlo.
La risposta immediata potrebbe essere che cerchiamo di eliminare le distrazioni, ma non è esattamente così. Il fatto è che nonostante quello che si possa pensare, il nostro cervello non sa fare tanto bene più cose contemporaneamente e quando si tratta di gestire situazioni che richiedono una maggiore attenzione e concentrazione del solito le sue risorse sono limitate.
Il cervello è l’organo del sistema nervoso centrale che si occupa di recepire ed elaborare tutte le informazioni raccolte attraverso vista, udito, tatto, olfatto e gusto; inoltre valuta in ogni momento qual è il suo compito primario, cioè quello che richiede più energia e attenzione, ed eventualmente quale sia il suo compito secondario, che ne richiede di meno. In poche parole, come ha spiegato alla rivista Mel Magazine l’esperto di scienze cognitive Art Markman, riusciamo a guidare e ad ascoltare una canzone del nostro artista preferito senza problemi perché «guidare non occupa a pieno tutte le nostre risorse mentali».
Le cose cambiano però quando cambia il livello di attenzione richiesto da una delle azioni che stiamo svolgendo.
Per esempio, diventa difficile portare avanti una conversazione se guidiamo in situazioni di particolare stress, come quando comincia a piovere all’improvviso, o se ci siamo persi e dobbiamo fare affidamento sui cartelli stradali – altre situazioni in cui capita di abbassare il volume dell’autoradio. Quello che succede in queste circostanze è che per continuare a funzionare bene e a fare il suo lavoro il nostro cervello ha bisogno di rivolgere la maggior parte dell’attenzione al compito che individua come primario.
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Il punto è che quando facciamo due cose contemporaneamente, come guidare e sentire musica, il nostro cervello non presta realmente attenzione a due cose allo stesso tempo, ma rimbalza continuamente dall’una all’altra in maniera molto rapida. Questo “avanti e indietro” tra uno stimolo e l’altro – tra un compito e l’altro – però richiede molta energia e può rallentare la nostra performance, ovvero diminuire i nostri tempi di reazione, portarci a commettere errori o comunque metterci in difficoltà, soprattutto quando una delle due azioni richiede molta più concentrazione dell’altra: in questo senso, abbassare la radio serve per così dire a togliere spazio al compito secondario del cervello, che così si può concentrare su quello principale.
Ne hanno parlato in maniera più approfondita anche Philip Smith e Simon Lilburn, rispettivamente professore e ricercatore di Psicologia dell’Università di Melbourne, in un articolo su The Conversation.
Smith e Lilburn hanno ricordato che nel 1959 il fisiologo Neville Moray osservò per la prima volta che quando le persone ascoltano due discorsi simultaneamente, mentre stanno focalizzando l’attenzione su uno dei due riescono comunque a individuare il loro nome, se pronunciato nell’altra conversazione. Lo studio di Moray contribuì a capire che siamo in grado di percepire e dare un significato a diverse informazioni sensoriali anche quando non siamo concentrati su di esse, ma soprattutto aiutò altri scienziati a comprendere che il cervello umano non ha risorse infinite e riesce a governare in maniera abbastanza efficace un massimo di due compiti: quando si prova a fare più di due cose contemporaneamente, in automatico una delle tre viene per così dire scartata.
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Per capire meglio il funzionamento del nostro cervello può essere utile cimentarsi in due test piuttosto famosi per misurare la cosiddetta “attenzione selettiva”, ovvero la capacità di concentrarsi su un certo obiettivo per selezionare ed elaborare alcune specifiche informazioni tra quelle che riceviamo in ogni momento attraverso gli stimoli legati ai nostri sensi.
Questi test sono stati ideati alla fine degli anni Novanta dagli psicologi esperti di scienze cognitive Daniel Simons e Christopher Chabris e si trovano facilmente su YouTube. In entrambi i casi l’obiettivo è contare quante volte i giocatori che indossano la maglietta bianca si passano la palla da basket tra loro.
Al di là della risposta corretta, Simons e Chabris hanno osservato che circa la metà delle persone che non aveva mai visto video di questo tipo non si accorge del gorilla che a un certo punto entra nell’inquadratura, si batte i pugni sul petto, e poi si allontana, il tutto mentre il gioco va avanti. Il motivo è che il loro cervello rivolge la maggior parte della sua attenzione su un’azione precisa, ovvero contare i passaggi, mettendo in secondo piano altre informazioni che in quel momento giudica secondarie.
Il secondo test si svolge in un contesto del tutto simile.
In questo caso l’attenzione di chi aveva già fatto il primo test è per così dire sdoppiata su due compiti: da un lato, il cervello è impegnato a contare il numero dei passaggi di palla tra le persone con la maglietta bianca, e dall’altro si aspetta di vedere il gorilla che entra nel campo visivo, come accadeva nel primo video.
Anche se in questo caso quasi tutte le persone riescono sia a contare i passaggi di palla che a vedere il gorilla, soltanto il 17 per cento di chi aveva visto il primo video nota anche che a un certo punto una delle giocatrici con la maglia nera esce dall’inquadratura o che alla fine del test le tende rosse del sipario sullo sfondo hanno cambiato colore e sono diventate arancioni. La scoperta principale di questo test, secondo Simons, è che sapere di potersi attendere un evento imprevisto non aumenta la capacità di cogliere altri eventi imprevisti: può però anche aiutare a capire che se siamo impegnati a fare due cose contemporaneamente è molto difficile riuscire a farne una terza o una quarta.