Quanto dura la protezione offerta dal vaccino?
È la domanda delle domande in questa fase della pandemia: alcune ricerche indicano che tende a diminuire nel tempo, ma non sappiamo quanto in fretta
Lunedì 20 settembre in Italia è iniziata la somministrazione della terza dose dei vaccini contro il coronavirus, che per ora riguarda i soggetti “fragili”, come le persone con problemi al sistema immunitario, che hanno subìto il trapianto di un organo o che sono malate di alcune forme di tumore. Il ministero della Salute ha ritenuto fosse opportuno procedere per questi individui con una dose aggiuntiva, mentre non è ancora chiaro se la terza dose sarà estesa anche a tutti gli altri vaccinati. Il tema è discusso da mesi da ricercatori e governi, alla ricerca di una risposta alla domanda delle domande nell’attuale fase della pandemia: quanto dura l’immunità offerta dai vaccini?
Trovare una risposta non è semplice, sia perché le campagne vaccinali nella maggior parte dei paesi sono in corso da meno di un anno, sia perché ci sono moltissime variabili, a cominciare dalle caratteristiche del sistema immunitario, che variano a seconda degli individui, e da quelle del coronavirus, che continua a evolversi e a produrre nuove varianti che ancora non esistevano quando erano stati sviluppati i vaccini che utilizziamo oggi.
I dati raccolti dopo la somministrazione di oltre 6 miliardi di dosi in tutto il mondo forniscono comunque qualche indizio importante, sulla durata dell’immunità e sull’opportunità di procedere o meno con dosi aggiuntive per chi ha già completato il ciclo vaccinale.
In linea di massima, dopo avere subìto un’infezione (con tutti i rischi che ne conseguono) o avere ricevuto un vaccino, il sistema immunitario mantiene una buona memoria della minaccia da poco incontrata, in modo da poterla affrontare più efficacemente nel caso di un nuovo incontro. Con il passare del tempo, però, la memoria tende ad attenuarsi e il sistema immunitario perde le capacità che aveva acquisito. Questa riduzione non avviene per tutti allo stesso modo e soprattutto può riguardare solo alcuni meccanismi immunitari e non altri, che continuano a offrire un certo grado di protezione.
I primi a ridursi in numero sono solitamente gli anticorpi neutralizzanti, che hanno la capacità di rilevare la presenza di un virus (o un’altra minaccia) e di bloccarlo prima che riesca a penetrare nelle cellule. Quando si riceve un vaccino, solitamente questi anticorpi diventano estremamente numerosi e tendono poi a svanire con una certa velocità nei mesi successivi.
Gli anticorpi, come altre molecole, sono prodotti dalle cellule immunitarie la cui quantità aumenta sensibilmente dopo la vaccinazione. La memoria di quanto avvenuto rimane poi in alcuni tipi di queste cellule (linfociti B e T), che faranno da guardiane nel caso di infezioni vere e proprie in futuro. Se dovessero verificarsi, sapranno produrre da subito gli anticorpi contro una specifica minaccia, in questo caso contro il coronavirus.
Partendo da queste conoscenze, un gruppo di ricercatori negli Stati Uniti ha provato a stimare la durata della protezione offerta dagli anticorpi e dai linfociti B e T, a mesi di distanza dalla ricezione del vaccino contro il coronavirus. Tenendo sotto controllo un campione di vaccinati, il gruppo ha rilevato un aumento nel numero di linfociti B per almeno sei mesi, e una lieve riduzione dei linfociti T, ritenuta comunque trascurabile. Si è invece confermata una diminuzione più marcata degli anticorpi, compensata però dalla circolazione di cellule immunitarie sempre più specializzate, che all’occorrenza possono intervenire rapidamente per rendere la vita difficile al virus.
Un altro gruppo di ricerca statunitense ha approfondito la risposta dei linfociti B, analizzando campioni prelevati dai linfonodi di alcuni individui vaccinati. I linfonodi sono le palestre delle cellule immunitarie, dove con varie interazioni i linfociti si preparano per affrontare le minacce esterne. I linfociti B si allenano nei “centri germinativi”, dove attraverso mutazioni sviluppano capacità sempre più raffinate per produrre anticorpi altamente specifici contro la minaccia che hanno incontrato. Questa “maturazione dell’affinità” rende possibile una migliore protezione contro le malattie.
Studiando i campioni prelevati, i ricercatori hanno notato che i centri germinativi contro il coronavirus rimanevano attivi per circa quattro mesi dopo la vaccinazione. Di recente il gruppo di ricerca ha condotto nuove indagini sugli stessi vaccinati, notando che a sei mesi di distanza continua a esserci attività nei linfonodi. Il nuovo studio non è stato ancora pubblicato e deve essere preso con qualche cautela, ma secondo i suoi autori offre prospettive incoraggianti sulla durata e la qualità dell’immunizzazione offerta dai vaccini.
Altri ricercatori sono al lavoro per capire se la riduzione della memoria immunitaria possa ridurre la protezione offerta dai vaccini contro le forme gravi di COVID-19, che in alcuni casi rendono necessario il ricovero in terapia intensiva e possono provocare la morte. I dati provenienti da varie parti del mondo sono per lo più frammentari, e per questo alcuni studi si stanno concentrando su Israele, uno dei paesi ad avere avviato da subito la campagna vaccinale tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021. Gli anziani vaccinati a inizio anno sembravano avere il doppio del rischio di ammalarsi con una forma grave di COVID-19 a luglio, rispetto ad altri anziani vaccinati più di recente.
Sulla base dei risultati scientifici e di altre valutazioni politiche, Israele nel corso dell’estate aveva deciso di somministrare un’ulteriore dose del vaccino ai completamente vaccinati, uno dei primi paesi a farlo in modo sistematico e per buona parte delle fasce di età. Una ricerca da poco pubblicata ha segnalato come con la terza dose si sia ridotto il rischio per gli anziani di sviluppare un’infezione, o di soffrire di una forma grave della malattia rispetto a un campione di vaccinati che non aveva invece ricevuto un’ulteriore dose.
L’esperienza israeliana è stata molto raccontata dai media e ha aggiunto nuovi argomenti al confronto sulla terza dose, e sull’opportunità di offrirla a tutti o solo a specifiche fasce della popolazione più a rischio. Vari esperti hanno però invitato a valutare con grande cautela i dati provenienti da Israele: a differenza di quelli raccolti in un test clinico, che consente di tenere sotto controllo un maggior numero di variabili, i dati delle analisi finora diffuse derivano da esperienze sulla popolazione generale, dove è più difficile avere un quadro completo delle variabili legate per esempio alle abitudini dei singoli, alle condizioni ambientali e alle differenze demografiche.
Una ricerca realizzata in Qatar, e pubblicata in forma preliminare a fine agosto, aveva indicato un’alta protezione da parte del vaccino di Pfizer-BioNTech (il più usato anche in Italia) contro le forme più gravi della COVID-19, a sei mesi di distanza dalla somministrazione. Lo studio indicava invece una lieve riduzione della protezione offerta contro le forme lievi o prive di sintomi della malattia. Di recente i ricercatori hanno integrato i dati, comprendendo un mese in più rispetto all’analisi precedente, e hanno notato una minore capacità del vaccino nel proteggere contro le forme della malattia che rendono necessari ricoveri.
Nel Regno Unito i dati più recenti sugli individui vaccinati indicano qualcosa di analogo, con una lieve riduzione nella protezione offerta contro ricoveri e decessi a 20 settimane dalla vaccinazione. Le analisi sono però complicate dalle numerose variabili, comprese quelle legate alle condizioni di salute degli individui coinvolti, che in diversi casi non erano buone e quindi con maggiori fattori di rischio nel caso di una infezione da coronavirus.
In generale, su centinaia di milioni di individui vaccinati in tutto il mondo non sono stati per ora rilevati andamenti tali da far pensare che i vaccini non stiano funzionando. È semmai vero il contrario, con molti paesi che hanno registrato nuove ondate con aumenti significativi dei contagi, ma numeri contenuti nei ricoveri e nei decessi proprio grazie alle vaccinazioni. I vaccini si sono rivelati inoltre efficaci contro la variante delta, più contagiosa delle precedenti e ormai prevalente in buona parte del pianeta.
Prima di avere risposte chiare sulla durata dell’immunità offerta dai vaccini contro il coronavirus saranno ancora necessari alcuni mesi, semplicemente perché abbiamo iniziato a vaccinare meno di un anno fa. Anche per questo motivo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha invitato i governi a valutare con attenzione la somministrazione delle dosi aggiuntive, specialmente per le fasce della popolazione meno a rischio e già vaccinate. La capacità produttiva dei vaccini è aumentata, ma il ricorso in massa a un’ulteriore dose potrebbe rallentare la loro distribuzione nei paesi più poveri, dove le vaccinazioni non sono ancora iniziate o hanno interessato una porzione limitatissima della popolazione.