I droni usati per portare oggetti nelle carceri
A Frosinone è stata introdotta una pistola poi usata in una sparatoria, altre volte trasportano telefoni, e capita sempre più spesso
La pistola semiautomatica calibro 7.65 con la quale sabato scorso un detenuto della casa circondariale di Frosinone ha sparato ad altri tre carcerati era stata portata nell’edificio con un drone, un apparecchio dotato di eliche e comandato a distanza, usato solitamente per fare riprese aeree. Il provveditore delle carceri del Lazio, Carmelo Cantone, ha spiegato che «il detenuto aspettava l’arrivo di questo drone con cui gli è stata consegnata una pistola con matricola abrasa, di chiara provenienza illegale. E una volta prelevata la pistola dalla sua finestra ha chiesto di andare in doccia». Invece è andato davanti ad altre due celle e ha sparato, ferendo tre persone all’interno.
La pistola sarebbe stata consegnata circa mezz’ora prima della sparatoria. Non c’erano guardie in quel momento sul muro di cinta, ma quelle all’interno hanno detto di aver sentito un forte ronzio; la rete di protezione della finestra della cella è stata trovata divelta in un angolo. Non è la prima volta: il problema dell’utilizzo dei droni per fare arrivare oggetti ai detenuti è stato più volte descritto, negli ultimi mesi, dalla polizia penitenziaria.
A sparare è stato Alessio Peluso, 28 anni, napoletano, detto “o niro”, in carcere perché ritenuto colpevole di essere l’esattore di un clan del quartiere Miano, a Napoli. Alle 15.30 di sabato pomeriggio, secondo la ricostruzione fornita dalle guardie carcerarie, Peluso ha chiesto all’agente di sorveglianza nella sua sezione di andare a fare una doccia. Appena è stata aperta la porta della cella, l’uomo ha puntato la pistola al volto dell’agente e l’ha preso in ostaggio. A quel punto si è fatto consegnare le chiavi di due celle: nella prima si trovavano due persone, nella seconda una sola.
Peluso, arrivato alla prima cella, non è però riuscito ad aprirla: ha così infilato la pistola nella feritoia iniziando a sparare. La stessa cosa ha fatto nella seconda cella, colpendo un detenuto albanese. Quando è stato raggiunto dalle altre guardie carcerarie, ha lasciato l’ostaggio e ha tirato fuori di tasca un telefono, ha chiamato il suo avvocato e ha detto, come hanno riportato le testimonianze: «Avvocato ho sparato a uno, ci sono le guardie». L’avvocato gli ha consigliato di posare la pistola, cosa che lui ha fatto. Prima di farlo ha però aperto il cellulare e ha ingoiato la scheda sim.
I tre detenuti sono stati feriti solo di striscio, e non hanno avuto bisogno di cure particolari. Le indagini hanno ricostruito che qualche giorno prima i tre avevano picchiato violentemente Peluso. «Il movente e l’esatta dinamica», dice al Post Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, sindacato della polizia penitenziaria, «verranno ricostruiti dalla magistratura. Quello che per noi però è urgente è denunciare che per l’ennesima volta è stato utilizzato un drone per far arrivare materiale a un detenuto. Finora erano stati intercettati solo telefoni cellulari e stupefacenti, ora è arrivata una pistola. Chi ci dice che molte armi, magari anche esplosivo, non siano già state consegnate? È un pericolo che stiamo denunciando da tempo».
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Sempre nel carcere di Frosinone, il 3 giugno, era atterrato un drone, prelevato dagli agenti, con tre telefoni cellulari. Pochi giorni prima un altro drone era invece riuscito a consegnare un telefono cellulare a un detenuto che però, scoperto, lo aveva distrutto ingoiando a sua volta la sim.
Ad aprile, due persone erano state fermate all’esterno della casa circondariale di Siracusa mentre stavano per far partire, presumibilmente verso l’interno del carcere, un drone con quattro telefoni cellulari. Un anno fa un drone che trasportava sei telefoni precipitò nel cortile del carcere di Secondigliano. Qualche mese prima un’operazione simile era stata tentata nel carcere di Taranto. All’esterno del muro di cinta era partita, di sera, una sequenza di fuochi d’artificio. Contemporaneamente un drone aveva iniziato a volare verso una finestra del carcere dove un detenuto indicava il percorso con un accendino acceso. Il drone però era incappato in alcuni fili ed era precipitato: trasportava telefoni cellulari micro (con dimensioni molto piccole) e alcuni wurstel farciti di eroina.
Il problema non riguarda solo l’Italia. Tre settimane fa, nel cortile del carcere di Nimes, in Francia, è atterrato un drone con alcuni seghetti da metallo. Non è stato intercettato, ma le guardie lo hanno trovato prima che i detenuti potessero raccoglierlo. Nel carcere di Bedford, Regno Unito, un anno e mezzo fa era atterrato un drone con un piccolo quantitativo di hashish, un cacciavite, un coltello e un telefono cellulare. Altri paesi, come gli Stati Uniti, si sono attrezzati con sistemi di protezione del perimetro delle carceri per intercettare eventuali droni in arrivo. «In Italia», dice ancora De Fazio, «siamo totalmente impotenti. Mancano le attrezzature ma mancano anche gli uomini. Secondo un dossier del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il personale degli istituti penitenziari è sotto organico di 17.000 unità».
Già nel 2019 l’Interpol, l’organizzazione che facilita la cooperazione tra polizie di paesi diversi, aveva invitato le amministrazioni penitenziarie dei paesi membri a prendere contromisure all’utilizzo sempre più frequente dei droni nei penitenziari. Nel carcere di Rovigo era stato sperimentato un sistema, come recitava la nota che lo annunciava, per il «rilevamento e l’inibizione di aeromobili a pilotaggio remoto». Ma non era stato seguito da altri progetti. «Eppure», dice ancora De Fazio, «ci sono sistemi, anche semplici ed economici, che emettono onde sonore in grado di inibire il drone o di renderlo incapace di ricevere i comandi impartiti».
Nel 2020 nelle carceri italiane sono stati rinvenuti 1.761 telefoni cellulari. Erano stati 1.206 nel 2019 e 394 nel 2018. Ovviamente solo una piccola parte arriva attraverso droni. A Benevento quattro microcellulari sono stati trovati in un salame, a Rebibbia, carcere romano, due microtelefoni erano nascosti in un pezzo di formaggio. A Carinola, Caserta, un sacerdote che doveva celebrare la messa domenicale nell’istituto è stato trovato con 9 cellulari nascosti nelle buste di sigarette e tabacco che aveva intenzione di portare ai detenuti. C’è poi il metodo di ingoiare gli oggetti. L’8 maggio un detenuto del carcere Pagliarelli di Palermo ha ingoiato un microcellulare mentre nel febbraio del 2019 gli agenti avevano bloccato un detenuto al rientro da un permesso che aveva nascosto quattro telefonini nello stomaco.
Quella dei telefoni cellulari che vengono rinvenuti nelle celle di detenuti in molti istituti penitenziari è una questione molto spesso legata alla difficoltà di contatto con i familiari. Dall’ottobre del 2020 è reato introdurre o detenere all’interno di un istituto penitenziario telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione. Prima era considerato solo illecito disciplinare. Ma non è detto che chi si procura un telefono all’interno del carcere lo faccia per commettere altri reati. Spesso si tratta solo dell’esigenza di restare in contatto con la propria famiglia.
Secondo l’attuale regolamento del ministero della Giustizia, i detenuti possono fare una telefonata alla settimana della durata massima di dieci minuti (fino al 2020 i minuti erano sei). Possono chiamare un telefono cellulare solo quando da almeno 15 giorni non hanno avuto alcun tipo di colloquio, o quando non hanno nessuna altra possibilità di contatto con i familiari. I colloqui possono diventare uno al giorno se la telefonata viene fatta a un figlio disabile o a un congiunto in ospedale. Il problema, spesso segnalato dalle associazioni che tutelano i diritti dei detenuti, è che nelle carceri c’è sovraffollamento, e riuscire a telefonare tutti è spesso un’impresa. In più i detenuti stranieri non possono telefonare all’estero.
Durante le restrizioni imposte alle visite nei periodi di lockdown, il ministero della Giustizia aveva chiesto ai direttori degli istituti di pena di essere più elastici nel concedere l’opportunità di telefonare e di introdurre la possibilità di fare videochiamate, ma non tutte le carceri hanno seguito l’indicazione.