In Asia il karaoke è una cosa seria
Nato in Giappone, popolare un po’ ovunque, svolge una funzione sociale estesa e trasversale, sia in famiglia che tra amici e colleghi
In una famosa scena del film Lost in Translation, diretto nel 2003 dalla regista americana Sofia Coppola, i due protagonisti americani trascorrono una notte in giro per Tokyo insieme a un gruppo di persone appena conosciute. A un certo punto finiscono in una sorta di stanza d’albergo con dei divani, uno schermo e un impianto per il karaoke, attività a cui a turno partecipano un po’ tutti. Coppola, che all’epoca trascorreva spesso del tempo in Giappone per lavoro, raccontò che l’idea per quella scena le venne in mente prima ancora di scrivere il resto del film, una sera in cui si trovava in una sala karaoke con amici e uno di loro si mise a cantare “God Save the Queen” dei Sex Pistols.
La grande diffusione del karaoke in Giappone e in altri paesi dell’Asia orientale e del sud est asiatico, più estesa di quanto non lo sia in molti paesi occidentali, riflette non soltanto il legame tra quei luoghi e l’invenzione e la storia degli strumenti necessari per questo genere di intrattenimento, ma anche abitudini culturali che nel tempo, secondo diverse ricerche e riflessioni, hanno mostrato una maggiore inclinazione a utilizzare e adattare il karaoke per lo svolgimento di funzioni sociali varie e molto trasversali.
L’invenzione del karaoke – un’espressione giapponese che significa letteralmente “orchestra vuota” – è legata alla nascita dei primi strumenti sviluppati in Giappone a questo scopo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Il musicista giapponese Daisuke Inoue è comunemente citato come l’inventore del karaoke, per un’attrezzatura da lui prodotta a Kobe nel 1969 – il Juke 8 – e commercializzata nel 1971. L’idea gli venne quando il cliente di un locale in cui si esibiva gli chiese di suonare le basi di alcune canzoni famose, ma con accordi che si adattassero all’estensione della sua voce, e poi di registrarle.
A proposito dell’invenzione di quell’apparecchio, che funzionava più o meno come un jukebox, Inoue disse poi di essersi effettivamente chiesto all’epoca se ci fossero persone disposte a «inserire soldi in una macchina con un microfono, un altoparlante e un amplificatore», ma di non aver mai immaginato che quella forma di intrattenimento potesse diventare tanto popolare. Secondo una stima del 2015, il mercato globale del karaoke vale circa 8,5 miliardi di euro all’anno.
Gli apparecchi per il karaoke furono inizialmente distribuiti nei negozi – a noleggio, come i videogiochi a gettoni – e anche nei ristoranti e nelle camere degli alberghi. Poco tempo dopo, furono aperte attività commerciali basate specificamente su questo tipo di intrattenimento: le “stanze karaoke” (karaoke bokkusu), camere insonorizzate e affittate a ore, con apparecchiature audio e video per il karaoke, effetti luminosi e arredamento per poche persone. È ancora oggi una delle forme di karaoke più diffuse in Giappone e in Asia orientale. Le altre sono quella praticata in locali pubblici, come ristoranti e bar, e quella in contesti privati e non commerciali.
L’estesa diffusione di una forma di karaoke praticato tra amici in stanze private e insonorizzate, secondo alcune ricerche condotte fin dagli anni Novanta, denoterebbe l’esistenza in Asia di almeno due approcci differenti a questo intrattenimento: uno orientato alla “performance” davanti a un pubblico e un altro, quello delle stanze karaoke, prevalente e più orientato all’instaurazione o al consolidamento delle relazioni sociali.
Un gruppo di studenti universitari che presero parte a uno studio del 1994 sulla comunicazione interpersonale in Asia orientale riferì di utilizzare il karaoke sia per la celebrazione di particolari eventi sia come attività tra amici e conoscenti per allentare la tensione e approfondire i rapporti. Le risposte fornite dai partecipanti rafforzarono l’ipotesi che il karaoke fosse percepito come un mezzo per fornire argomenti di conversazione o anche veicolare messaggi verbali e non verbali, e «diventare comunicazione di per sé».
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«È meglio cantare al karaoke con dei buoni amici che restare seduti a parlare in un bar, perché presto finiremmo gli argomenti», disse una studentessa taiwanese. Altri descrissero come piacevole e benefica la pratica di condividere e passarsi i microfoni – generalmente due – in modo non ostile e informale. Sulla base di ricerche precedenti, incentrate sull’importanza delle forme di comunicazione indiretta e sul valore culturale dell’«armonia interpersonale» in Asia orientale, lo studio sostenne che il karaoke rappresenti per le persone anche un’opportunità di far propri messaggi contenuti nei testi delle canzoni scelte.
«In Giappone, il karaoke è uno stile di vita incorporato nel tessuto culturale», scrive il sito Thrillist, raccontando alcuni dettagli delle centinaia di migliaia di stanze karaoke presenti nel paese, che mettono a disposizione oltre ai microfoni anche i tamburelli per tenere il tempo, e offrono la possibilità di pagare per una singola consumazione alcolica o per l’opzione “all-you-can-drink” (nomihōdai). Il karaoke è presente anche nei moltissimi sunakku, una specie di angusti snack bar solitamente con dieci o meno posti a sedere collocati davanti a un bancone di legno.
«La canzone che viene cantata è indicativa del modo del cantante di bere e di parlare della sua vita. Vedo contemporaneamente la vita di molte persone, al karaoke», ha detto a Thrillist un ragazzo di 29 anni che lavora per Spotify Japan. Una copywriter americana di 26 anni, Aya, ha raccontato che il CEO dell’azienda in cui aveva fatto un colloquio di lavoro dopo essersi trasferita in Giappone la invitò la sera dopo a un “karaoke aziendale”.
All’idea di esibirsi davanti ai suoi potenziali futuri colleghi si sentì molto agitata – «come se stessi facendo un provino per American Idol» – ma finì per cantare “No Scrubs” del gruppo americano TLC, e a fine serata fu assunta. «Tutto fu piuttosto imbarazzante, ma penso che sia la bellezza del karaoke. È un tipo di umiliazione condivisa che può funzionare solo di persona, non attraverso uno schermo», ha detto Aya. E ha detto che in un certo senso è un po’ come il sesso: «Se non ci conosciamo bene, preferirei prima bere qualcosa. E se siamo colleghi, preferirei fare altro».
Il karaoke «è fondamentalmente un classico esempio del fenomeno dei giapponesi che non si esprimono socialmente a meno che non siano ubriachi o sentano di avere l’opportunità di farlo attraverso il karaoke», ha detto un consulente di 27 anni, a proposito di una volta in cui un collega timidissimo, che non parlava una parola di spagnolo né di inglese, tirò fuori a una festa una clamorosa versione di “Despacito”, memorizzata parola per parola.
«Mangiare, bere e cantare insieme aiuta a costruire la fiducia in una società in cui i contratti scritti significano meno e le interazioni personali sono molto più importanti», scrisse nel 2008 la giornalista Emily Flitter sul Wall Street Journal. Il karaoke è considerato uno strumento di interazione utile a superare le barriere linguistiche e a consolidare buoni rapporti commerciali in Cina, Taiwan, Corea del Sud e Giappone, spiegò Flitter, riferendo di aver saputo che anche nelle sale da pranzo dei dirigenti di alcune aziende cinesi sono a volte presenti sistemi karaoke.
«Nel mondo occidentale, il karaoke è una competizione individualistica che si adatta a una cultura prevalentemente egocentrica», osservò nel 2010 la scrittrice di viaggi tedesca Nicole Nieraad-Schalke a proposito del ruolo culturale del karaoke nei paesi asiatici, descrivendo le differenze rispetto a videogiochi popolari nei paesi occidentali come “SingStar” e “Karaoke Revolution”, in cui i giocatori sono valutati in base alle loro abilità canore. «Ho l’impressione che il karaoke asiatico sia molto più di questo», scrisse.
Nieraad-Schalke descrisse il karaoke come una pratica paragonabile, per frequenza e per valore sociale, alle uscite serali degli occidentali che vanno al pub o al cinema. E individuò la principale differenza rispetto al karaoke occidentale nel fatto che questi incontri siano in grado di generare non soltanto intrattenimento, ma maggiore sintonia e intimità all’interno dei gruppi. «A me sembra che non si annoino mai, anche se devono ascoltare la loro amica che canta per la trentesima volta la sua canzone preferita», scrisse, segnalando anche che molti cantanti famosi nella cultura pop asiatica producono versioni speciali delle loro canzoni per il karaoke.
Per quanto incredibile dalla prospettiva di un osservatore occidentale, è inoltre piuttosto comune nei paesi asiatici trascorrere una serata cantando e bevendo qualcosa insieme ai colleghi di lavoro, anche i superiori. «In Germania, dove i confini tra lavoro e vita privata sono molto rigidi, nessun uomo d’affari si sentirebbe a suo agio nell’eseguire “Sex Bomb” di Tom Jones davanti al suo capo», scrisse Nieraad-Schalke.
Il karaoke è molto popolare anche nelle Filippine, dove è considerato un passatempo adatto a stabilire relazioni pacifiche e rafforzare strutture parentali, e dove quasi tutte le famiglie hanno un sistema karaoke (fu un filippino, Roberto del Rosario, il primo a depositare un brevetto per un sistema karaoke, nel 1975, pochi anni dopo l’invenzione di Inoue). Anche in altri paesi del sud est asiatico, come il Vietnam, il karaoke è estremamente popolare e quasi tutte le case, anche quelle più spartane e in campagna, a malapena collegate alla rete elettrica, possiedono un impianto che spesso è l’oggetto più costoso presente nell’abitazione. Spesso a offrire la possibilità di cantare a un microfono sono degli ambulanti, che si muovono nelle zone più frequentate delle città. La diffusione dei locali da karaoke ha creato perfino problemi di ordine pubblico, in città come Hanoi e Ho Chi Minh, relativi agli eccessivi volumi mantenuti fino a tarda notte.
Nelle feste di famiglia filippine, in genere, cantano prima i più giovani, poi i genitori e poi gli altri parenti più anziani. I classici di Frank Sinatra sono molto gettonati ma nessuno sceglie “My Way”, canzone tradizionalmente lasciata al componente più anziano della famiglia, che canta per ultimo.
Il giornalista filippino Rex Aguado ha raccontato di una volta in cui assistette a una delle note e frequenti interpretazioni goffe e stonate di “My Way” in contesti familiari. «Per il gran finale di una festa di famiglia, un giovane bisnonno di 90 anni salì sul palco e fu autore di una performance da trapassare l’anima e i timpani. Era stonato, continuava a saltare parti di testo, il tempo era tutto sbagliato – eppure ricevette una standing ovation di cinque minuti. Dice qualcosa dell’armonia tra i gruppi».
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In passato, la popolarità di “My Way” al karaoke nelle Filippine fu brevemente nota anche fuori dal paese per altre ragioni, quando alcuni articoli riferirono di una serie di omicidi – giornalisticamente descritti come “gli omicidi di My Way” – avvenuti nel corso di litigi tra clienti ubriachi di alcuni bar karaoke dell’arcipelago. Nel dubbio che quella canzone potesse contribuire a generare guai, scrisse il New York Times, alcuni gestori di bar decisero di eliminarla del tutto dalla lista delle canzoni disponibili.