Il “collasso del contesto” sui social
Perché opinioni innocue condivise inizialmente con un pubblico ristretto e complice provocano spesso reazioni sproporzionate e polarizzanti sulle piattaforme?
Ad aprile scorso, la giornalista del Guardian Elle Hunt stava conversando con amici in un pub a proposito di film e di generi cinematografici. Decise di riportare su Twitter, attraverso il suo account, una questione emersa durante quella conversazione spensierata e propose un sondaggio: se il film Alien potesse essere considerato un horror. Rispondendo a un utente, espose la sua concisa posizione – «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio» – e, dopo aver letto alcune obiezioni, mise da parte lo smartphone.
Il giorno dopo, Hunt trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati con lei, e altre di suoi amici preoccupati. Scoprì che il sondaggio aveva ricevuto 120 mila voti e che la sua opinione era stata citata da migliaia di persone, tra cui il regista Kevin Smith, che se la prendevano con lei per la sua affermazione sui film horror. Molti le chiedevano di scusarsi con diversi registi famosi. La ragione di tante attenzioni, scoprì Hunt, un’utente verificata ma con poche migliaia di follower, era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” – la sezione di Twitter con le notizie più discusse – negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
La spiacevole esperienza di Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico molto più ristretto. Negli ultimi anni, alcune riflessioni intorno ai social media hanno descritto in termini sociologici questa circostanza – tipica di molte piattaforme social – come “collasso del contesto”, l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in unico spazio.
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«Prendere pubblici diversi, con norme, principi e livelli di conoscenza diversi, e radunarli tutti in un unico spazio digitale per farli coesistere porta prevedibilmente a conflitti regolari e potrebbe, su scala nazionale, persino renderci più radicalizzati», ha scritto recentemente su The Verge il giornalista Casey Newton, riferendosi in particolare a Twitter. Il risultato più probabile, scrive Newton, è che un individuo con un seguito moderatamente ampio, a prescindere dal contenuto delle sue affermazioni, venga inevitabilmente frainteso da «persone apparentemente determinate a fraintenderlo».
Il concetto di “collasso del contesto” deriva da nozioni tratte dalle teorie formulate nella seconda metà del Novecento dal famoso e influente sociologo americano Erving Goffman a proposito delle strutture e delle dinamiche delle interazioni sociali. Goffman si occupò di come gli individui in un gruppo adattino la loro comprensione e definizione del contesto sociale in base alle diverse situazioni. In genere, le definizioni dei vari individui tendono a essere in armonia tra loro in modo che sia possibile stabilire un consenso operativo ed evitare situazioni di imbarazzo o conflitti.
Goffman utilizzò la metafora della recitazione e parlò di «performance» per definire le azioni compiute da un individuo quando – in un gruppo di altre persone che fanno sia da pubblico («audience») che da “attori” a loro volta – cerca di determinare e controllare la rappresentazione di sé che propone agli altri. E normalmente quell’individuo distingue i diversi tipi di pubblico in modo da decidere di volta in volta le azioni più appropriate da compiere a seconda delle diverse situazioni sociali.
Mentre queste operazioni risultano relativamente semplici e automatiche nel caso delle interazioni di gruppo faccia a faccia, l’adattamento delle performance nei contesti online è complicata dalla compressione e dall’appiattimento di più tipi di pubblico in un unico contesto. Basandosi sul lavoro di Goffman e di altri sociologi, alcuni studiosi come l’antropologo Michael Wesch e l’etnografa e teorica dei social media Danah Boyd hanno sostenuto che le piattaforme dei social hanno reso più sfumati e indefiniti i confini tra i gruppi sociali di riferimento, gruppi che per lungo tempo avevano modellato le relazioni personali e le identità degli individui.
L’avvento dei social media ha contribuito significativamente a ridefinire Internet come uno spazio in larga parte sovrapposto al mondo reale, uno spazio profondamente diverso rispetto a quello in cui, in precedenza, le persone potevano cambiare genere, età o personalità attraverso identità virtuali rappresentate da pseudonimi e avatar.
Sui social network, gli individui hanno invece accolto una definizione di contesto che ammettesse la possibilità che una singola rappresentazione di sé, per utilizzare i termini di Goffman, potesse essere proposta ad amici, colleghi, genitori, insegnanti e altri gruppi eterogenei. «I giorni in cui potrai dare un’immagine di te differente agli amici, ai colleghi di lavoro e alle altre persone che conosci finiranno probabilmente in breve tempo», disse il CEO e fondatore di Facebook Mark Zuckerberg nel 2010, descrivendo come una «mancanza di integrità» la scelta di avere più identità.
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Sebbene negli spazi virtuali trovi applicazioni e sviluppi specifici e complessi, il collasso del contesto non è un fenomeno presente esclusivamente su Internet. Secondo Natalie Pennington, docente di comunicazione all’Università del Nevada, i matrimoni sono un esempio tipico di collasso del contesto offline. «Hai lì la tua famiglia, i tuoi colleghi e i tuoi vecchi amici, e può essere difficile sapere come comportarsi e come comunicare», ha detto Pennington, sottolineando la differenza principale rispetto all’esperienza del collasso del contesto online: che il matrimonio, a un certo punto, finisce.
L’impossibilità di presentare sui social media versioni di sé stessi orientate a un pubblico diversificato, secondo l’antropologo Michael Wesch, uno dei primi teorici del collasso del contesto, ha determinato una specie di crisi di identità dell’individuo. «Il problema non è la mancanza di contesto. È il collasso del contesto: un numero infinito di contesti che collassano l’uno sull’altro in quel singolo attimo della registrazione. Le immagini, le azioni e le parole riprese dall’obiettivo possono in qualsiasi momento essere trasportate in qualsiasi parte del pianeta e conservate per sempre», scrisse Wesch nel 2009 descrivendo uno dei possibili utilizzi di YouTube.
In tempi più recenti, come ha osservato lo scrittore americano Nicholas Carr, è emersa tra gli utenti dei social network una tendenza a ripristinare i diversi contesti. Questa attitudine ha accresciuto la popolarità di nuove piattaforme come Snapchat – in cui i messaggi scompaiono rapidamente – ed esteso l’abitudine di rendere privati gli account o di limitare il proprio pubblico organizzando e delimitando i diversi gruppi in «cerchie», attraverso gli strumenti progressivamente introdotti da diversi social network.
In un’analisi in cui riprende la vicenda della giornalista del Guardian Elle Hunt, il giornalista Charlie Warzel si è chiesto insieme alla stessa Hunt quanto il collasso del contesto sui social media debba essere inteso come un fenomeno problematico e dagli effetti imprevisti, o quanto sia invece da ritenere una caratteristica specifica delle piattaforme e una prerogativa del loro modello di business. Nel caso di Hunt, scrive Warzel, mostrando quel tweet negli argomenti “di tendenza” Twitter «ha preso un’opinione insignificante di un’utente verificata e l’ha presentata a milioni di persone come fosse una sorta di evento significativo per la cultura pop».
È proprio l’obiettivo di quella controversa sezione di Twitter, spiega Warzel, invitare gli altri utenti a partecipare a una conversazione. Ma è abbastanza ininfluente, in questo senso, quali siano le premesse – il contesto, appunto – da cui partiva l’autore del tweet prima di formulare quella specifica opinione, che viene poi amplificata dalla piattaforma e utilizzata da altri come possibilità di esporre altri aspetti della discussione che hanno interesse a far emergere. «La scelta di mettermi in tendenza ha avuto l’effetto di presentarmi come una figura pubblica in un modo che avrebbe potuto soltanto incoraggiare le offese», ha detto Hunt.
Warzel sottolinea che quanto capitato a Hunt è certamente non grave, se confrontato con casi di offese e molestie espresse sui social network e in grado di rovinare la vita delle persone. Ma è proprio il fatto che sia un caso abbastanza familiare e non eccezionale, a renderlo particolarmente significativo: «un perfetto esempio delle dinamiche dei nostri social media rotti, che sembrano sempre più progettati per disumanizzarci, polarizzarci e renderci tutti infelici».
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Warzel e Hunt ritengono che, sotto questo aspetto, le frequenti espressioni di intransigenza e intolleranza presenti su Twitter siano meno da inquadrare come una manifestazione della cosiddetta cancel culture e più come un esempio di «fallimento della piattaforma». Il caso di Hunt è stato colto dagli appassionati di cinema e dai fan dell’horror e della fantascienza come un’opportunità per far pesare le loro opinioni e affermare le loro particolari identità.
Quando il “personaggio del giorno”, spiega Warzel, diventa oggetto di attenzioni da parte del pubblico disparato della piattaforma («troll di destra, giornalisti annoiati con un enorme seguito, accademici, politici in carica»), quello che succede in termini sociologici è che «migliaia di forti identità individuali online si scontrano l’una contro l’altra», incrementando le opportunità di «crollo del contesto». Che è una caratteristica della piattaforma stessa: la capacità di cambiare contesto senza particolare attrito, rendendo le interazioni «spontanee ed eccitanti» ma anche, in altri casi, profondamente spiacevoli.
Se è un problema, spiega Warzel, si tratta di un problema evidentemente irrisolto e noto ai responsabili delle piattaforme, che per anni hanno lasciato che gli argomenti di tendenza «si trasformassero in un pozzo nero di disinformazione» e che troll e teorici delle cospirazioni «iniettassero idee pericolose nel mainstream». Warzel sostiene che, nonostante la progressiva introduzione di strumenti pensati per limitare offese e abusi, Twitter non sia stata in grado di risolvere quello che accade quando gli utenti riescono a «sfondare» e ad accedere a enormi bacini di attenzione.
«Sembra che l’azienda non si renda ancora conto che una delle peggiori esperienze possibili su Twitter sia effettivamente quella di vincere la lotteria e diventare virale», conclude Warzel.