Le molte evasioni di Max Leitner
L'altoatesino oggi 63enne ha una lunga storia criminale ed è noto per essere riuscito a evadere da diverse carceri: ora è stato nuovamente arrestato
Max Leitner è finito nuovamente in carcere. Ci è già stato parecchie volte e parecchie volte è riuscito a scappare. Lo chiamano il “re delle evasioni” o, anche, il “Vallanzasca dell’Alto Adige”. Questa volta è accusato di aver sparato alle 2 del mattino di venerdì, nella zona industriale di Bolzano, contro l’auto di una prostituta che nel frattempo si era appartata con un uomo. Secondo una prima ricostruzione della polizia, dovuta anche alla deposizione della donna, Leitner la perseguitava da tempo dicendo di essersi innamorato. Quando lo hanno fermato era in compagnia di un altro uomo. Aveva nel bagagliaio un fucile e una pistola.
La storia criminale di Max Leitner, che è nato a Bressanone e ora ha 63 anni, iniziò negli anni Ottanta quando organizzò, e portò a termine, una serie di rapine in Alto Adige e nel nord Italia, spingendosi, dopo qualche anno, anche in Austria. Da allora ha accumulato condanne per 28 anni di carcere, e secondo una sua biografia uscita nel 2019 è stato in oltre 200 prigioni.
Lo arrestarono per la prima volta a fine agosto 1990 sulla Brennerautobahn austriaca, autostrada che collega Innsbruck con il passo del Brennero: stava tentando, con alcuni complici, di assaltare un portavalori. Intervennero le unità d’elite della polizia austriaca, Leitner fu ferito di striscio alla schiena, alla coscia, a una mano e a un ginocchio. Fu portato in carcere a Innsbruck, evase dopo pochi mesi per poi consegnarsi alla polizia italiana vicino al confine di Prato alla Drava (provincia autonoma di Bolzano). Disse che si stava sicuramente meglio in un carcere italiano e che quella austriaca era una prigione medievale.
Lo misero in cella a Bolzano ma anche da lì decise che era meglio andarsene: scappò nel 1992 come in un film, segando in qualche modo le sbarre con una lima che gli avevano fatto avere in cella, legando le lenzuola a un gancio e calandosi all’esterno della prigione. Lo ripresero dieci mesi dopo, a Padova. Tornò in carcere dove restò per dieci anni. Tenne un comportamento esemplare: nessun problema con altri carcerati né con il personale della polizia penitenziaria. Il 2 giugno 2002, ottenuto un permesso premio, uscì dal carcere. Avrebbe dovuto tornare 48 ore dopo ma non si presentò.
Un anno dopo insieme a due complici entrò armato nell’agenzia della Cassa Raiffeisen a Molini di Tures, 65 chilometri da Bolzano, ma non sparò nemmeno un colpo. «Quel giorno mi sentivo come Robin Hood, e ancora mi sento così», disse anni dopo, nel 2019, in un’intervista al quotidiano Alto Adige, «e mi sento anche il re delle evasioni, e pure un eroe. Per fare certe cose ci vogliono gli attributi e io ho dimostrato di averli. Ho fatto molte rapine senza mai sparare a nessuno, non ho mai ferito o ucciso e ho preso di mira solo banche. Mai le persone. Anzi, devo dire che di persone ne ho aiutate tante. E ho sempre pagato in prima persona».
I tre rapinatori scapparono da Molini di Tures a bordo di una Fiat Uno bianca (la più usata allora dai rapinatori perché la più comune) e vennero inseguiti dalle auto dei carabinieri. La fuga finì presto, l’auto dei rapinatori sbandò e si ribaltò. Leitner scappò nei campi, si nascose in una piantagione di mais ma lo trovarono. Nell’auto furono rinvenuti tutti i soldi rubati ma anche un notevole campionario di armi, esplosivi, visori notturni e parrucche.
Leitner finì di nuovo in cella, questa volta a Bergamo. Scappò di nuovo, non da solo ma assieme a Emanuele Radosta, un palermitano affiliato a un clan mafioso. Nel 2009, a processo per quell’evasione, Leitner disse, davanti al giudice: «La fuga è stata organizzata ad alti livelli della mafia e io ci sono capitato per caso e non ho pagato nulla».
Il processo accertò che il clan Radosta aveva corrotto una guardia carceraria. Radosta e Leitner fuggirono in auto a Valencia, in Spagna, poi andarono a Rabat, in Marocco. Lì furono arrestati. Nel libro Leitner raccontò così il carcere di Rabat:
«Non è una cella, è un salone, un unico grande locale con centinaia di persone. Quattro poliziotti mi spingono dentro, gli altri detenuti non ci fanno nemmeno caso. Alcuni sono rannicchiati sul pavimento, pochi hanno un letto e ci stanno distesi sopra. È pieno di mosche, il cesso è sempre occupato, devi metterti in coda. Poi la porta si spalanca, entrano otto guardie con un pesante pentolone e pile di piatti di plastica nei quali schiaffano una zuppa di fagioli usando un grosso mestolo. Se si pagano dieci euro si può avere il terzo di un letto».
Nell’intervista all’Alto Adige raccontò che a Rabat aveva subito torture, aggiungendo diversi altri dettagli con un tono assai autocelebrativo.
«Nel carcere di Rabat, in Marocco, sono stato picchiato e torturato, ma non ho mai rinunciato per un solo istante alla mia dignità. Non ho nulla da nascondere, non mi pento di nulla di quanto ho fatto nella mia vita, non ho mai collaborato e, proprio per questo, non ho mai beneficiato di sconti di pena. C’è gente che ha ammazzato e s’è fatta solo qualche mese dietro le sbarre. Non io».
Leitner e Radosta, che ora sta scontando l’ergastolo per omicidio, vennero trasferiti in Italia, processati per l’ultima evasione e condannati a ulteriori tre anni e otto mesi di carcere.
Leitner finì nel carcere di massima sicurezza di Asti, dove l’ennesima evasione sembrava impossibile. Riuscì però a scappare il 27 ottobre 2011. Chiese a don Giuseppe Bussolino, prete del carcere di Asti, di accompagnarlo a portare dei fiori a Bressanone (Alto Adige), sulla tomba del padre, morto sei mesi prima. Don Bussolino era il suo tutore e già altre volte il detenuto gli era stato affidato perché passasse alcuni giorni a casa sua. Doveva essere così anche quella volta, il permesso era vincolato al fatto che Leitner restasse entro i confini di Asti.
Lui e Bussolino invece partirono per l’Alto Adige. Quando il prete chiamò il carcere, disse: «Max Leitner questa notte non è rientrato. Ho visto solo adesso che non si trova nella sua stanza». Il problema è che la telefonata fu fatta con due giorni di ritardo. Don Bussolino lo ammise ai poliziotti che lo interrogavano: «Mi ha detto che voleva posare un fiore sulla tomba del padre, in Alto Adige. Siamo partiti, ma quando mi sono fermato in un’area di servizio vicino a Rovereto, lui è fuggito. Era due giorni fa».
Leitiner avrebbe avuto la libertà vigilata nel dicembre successivo. Poche settimane prima in un’intervista al quotidiano Neue Südtiroler Tageszeitung aveva detto: «Non reggerei più lo stress di una fuga».
Lo ripresero due mesi dopo. Dal 2019 era tornato in libertà, ora è stato riportato in cella.