Il ritiro dall’Afghanistan danneggerà Biden?
Per ora sembra di no, per via della "memoria corta" e delle altre priorità degli elettori: ma molto dipenderà da come andranno le cose nel paese
Negli Stati Uniti il ritiro caotico delle truppe americane dall’Afghanistan è coinciso per il presidente Joe Biden con un deciso calo di consensi nei sondaggi. Nei giorni immediatamente successivi al ritiro, mentre dall’aeroporto di Kabul gli Stati Uniti e i loro alleati evacuavano centinaia di migliaia di persone in condizioni spesso drammatiche, secondo i sondaggi la popolarità di Biden è scesa per la prima volta sotto al 50 per cento. Attualmente il numero di persone che approva il presidente è minore di quante lo disapprovano (46 contro 49 per cento circa): se si esclude Donald Trump, che è stato straordinariamente impopolare per tutta la durata del suo mandato, è un dato piuttosto basso per un presidente a otto mesi dall’insediamento.
Secondo la maggioranza degli esperti, questo calo di Biden nei sondaggi potrebbe essere allo stesso tempo fisiologico e temporaneo: quasi nessuno lo vede come un trend, cioè come l’inizio di un calo maggiore di popolarità. Inoltre, il calo potrebbe avere numerose altre cause, tra cui il nuovo aumento dei contagi da coronavirus provocato dalla variante delta in molti stati degli Stati Uniti, e le polemiche legate agli obblighi vaccinali nel settore pubblico e nelle aziende private, soprattutto tra i Repubblicani.
Ma è praticamente impossibile negare che questo calo sia dovuto, in parte anche consistente, al ritiro dall’Afghanistan e al modo in cui è stato gestito. Secondo alcuni commentatori, l’Afghanistan potrebbe rovinare in maniera definitiva la “legacy” di Biden, cioè il modo in cui sarà ricordato dopo la fine della sua presidenza (questo anche se le responsabilità di quello che è successo in Afghanistan sono da condividere con i presidenti che lo hanno preceduto). Secondo altri, soprattutto conservatori, potrebbe rendere ancora più facile la già probabile vittoria del Partito Repubblicano alle elezioni di metà mandato dell’anno prossimo: salvo pochissime eccezioni, infatti, nell’ultimo secolo il partito del presidente uscente ha sempre perso seggi nelle cosiddette midterm elections.
Come ha scritto l’Atlantic alla fine di agosto, e come hanno ripetuto in seguito anche altri commentatori, per ora l’amministrazione Biden è fiduciosa del fatto che l’Afghanistan non provocherà conseguenze negative permanenti sulla presidenza, per due ragioni: anzitutto gli elettori americani (ma certamente non soltanto loro) hanno «la memoria corta», e sono piuttosto disposti a dimenticare un fallimento se viene rimpiazzato da successi in altri campi.
In secondo luogo, gli elettori generalmente attribuiscono meno importanza a un fallimento di politica estera rispetto a problemi in altri campi di politica interna, come per esempio l’economia: nella storia recente degli Stati Uniti è estremamente raro che una decisione di politica estera abbia conseguenze di lungo termine per il presidente che l’ha presa, e certamente in questo momento storico le più grandi priorità degli americani – e quelle su cui più sarà giudicato Biden in ultima istanza – sono uscire dalla pandemia e rimettere in moto l’economia.
Praticamente tutti i predecessori di Biden hanno subìto grossi fallimenti in politica estera, e nessuno di questi fallimenti, che al tempo furono definiti dai critici come gravissimi e irrecuperabili, furono determinanti nel corso della loro presidenza o nel decidere il risultato di un’elezione successiva.
John Kennedy era presidente da appena tre mesi quando gli Stati Uniti subirono la pesante umiliazione della fallita invasione della Baia dei Porci, a Cuba. Sotto Ronald Reagan, nel 1983, un devastante attentato terroristico contro una base militare americana in Libano provocò la morte di 241 militari americani. Nel 1991 George W.H. Bush, dopo la fine della prima guerra del Golfo, incitò le popolazioni curde e sciite che abitavano in Iraq a ribellarsi contro il dittatore Saddam Hussein. Queste lo fecero, convinte di poter contare sul sostegno militare americano che tuttavia non arrivò mai: Saddam represse la rivolta con un terribile massacro, di cui l’opposizione americana accusò Bush.
Barack Obama fu accusato di aver danneggiato in maniera irreparabile la credibilità degli Stati Uniti quando impose una «linea rossa» al dittatore siriano Bashar al Assad, dicendo che se avesse usato armi chimiche gli Stati Uniti avrebbero bombardato il paese. Assad usò le armi chimiche, ma Obama rinunciò a compiere un attacco.
Tutte queste decisioni furono definite come catastrofiche, al tempo, ma finirono con avere poca o nessuna influenza sull’opinione pubblica americana né sui successivi risultati elettorali, in parte perché, tra le altre cose, i presidenti coinvolti seppero riscattarsi: poco dopo il fallimento dell’invasione della Baia dei Porci, per esempio, Kennedy gestì in maniera efficace la crisi dei missili cubani e sostituì nell’opinione pubblica un grave insuccesso con quello che fu considerato come un buon risultato.
L’unica eccezione a questa regola è Jimmy Carter, presidente democratico tra il 1977 e il 1981, la cui reputazione (e la cui presidenza) fu gravemente danneggiata dalla cosiddetta crisi degli ostaggi in Iran, quando pochi mesi dopo la Rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini diverse centinaia di studenti attaccarono l’ambasciata statunitense e presero in ostaggio 53 dei suoi dipendenti. La crisi si trascinò per diversi mesi in maniera piuttosto plateale e sempre più disastrosa per Carter, portò tra le altre cose a quello che fu definito “il più grande fallimento delle forze speciali americane” e contribuì in maniera determinante ad affondare la presidenza Carter. Gli ostaggi furono infine liberati il 20 gennaio 1981: in quelle ore Ronald Reagan stava giurando come nuovo presidente, dopo una vittoria schiacciante contro Carter alle elezioni.
La differenza tra il disastro in politica estera di Carter e quello di altri presidenti, come ha notato un articolo su USA Today, è principalmente che la crisi degli ostaggi si protrasse per diversi mesi, rimase a lungo sui giornali e fu caratterizzata da diversi tentativi di liberazione falliti, esponendo l’impotenza degli Stati Uniti e del loro presidente.
Gli effetti del ritiro dall’Afghanistan sulla presidenza Biden, dunque, dipenderanno molto da come andranno le cose nei prossimi mesi. Se dopo il ritorno delle truppe non ci saranno gravi effetti collaterali per gli interessi degli Stati Uniti, come spera l’amministrazione Biden, allora è probabile che le caotiche e disastrose operazioni di evacuazione saranno dimenticate. «Il caos delle ultime settimane di evacuazione sarà sempre associato a Biden», ha detto a USA Today Charles Kupchan, un membro del centro studi Council on Foreign Relations e professore di Affari internazionali alla Georgetown University. Tuttavia, «il ritiro in sé, la decisione di porre fine alla coalizione a guida americana, con il senno di poi sarà considerato positivamente».
Le cose potrebbero andare in maniera diversa se dal ritiro dall’Afghanistan dovessero generarsi nuovi problemi per gli Stati Uniti, come per esempio un rapido ritorno di al Qaida nel paese, nuovi attacchi terroristici su suolo americano, oppure una destabilizzazione della regione tale da rendere necessario un nuovo intervento militare. In questo caso, le conseguenze per l’amministrazione Biden sarebbero certamente più gravi.