I test per infettare volontari col coronavirus
Il primo è iniziato nel Regno Unito a marzo, tra molte critiche e dubbi etici: potrebbe aiutarci a capire nuove cose sulla COVID-19
A partire dallo scorso marzo, 36 persone si sono fatte volontariamente infettare con l’attuale coronavirus, nel corso di un ambizioso e controverso progetto per studiare meglio le caratteristiche del virus e il modo in cui si diffonde tra la popolazione. Organizzato dal Royal Free Hospital di Londra (Regno Unito), il test sta per portare ai primi risultati e secondo i suoi promotori potrebbe indurre altri centri di ricerca ad avviare studi analoghi. L’iniziativa ha però ricevuto critiche, con l’accusa di avere organizzato una sperimentazione rischiosa ed eticamente discutibile.
Nell’estate del 2020, quando la pandemia aveva già causato alcune ondate e centinaia di migliaia di morti in diverse parti del mondo, alcuni gruppi di ricercatori avevano sottoscritto richieste per chiedere ai governi e agli istituti di ricerca che fosse presa in considerazione la possibilità di organizzare test su gruppi di volontari sani, da infettare con il coronavirus. Proposte di questo tipo avevano attirato molta attenzione nella comunità scientifica e tra i responsabili delle istituzioni sanitarie.
I test clinici con impiego di agenti infettivi (come batteri o virus) direttamente su volontari umani (HCT, da human challenge trial in inglese) non sono una novità e hanno una storia piuttosto lunga alle loro spalle. Alla fine del Settecento, per esempio, il medico britannico Edward Jenner – considerato l’inventore dei vaccini – infettò un bambino di 8 anni per verificare l’efficacia della sua soluzione contro il vaiolo, che un paio di secoli dopo avrebbe permesso di eradicare la malattia e di salvare milioni di vite.
Nel Novecento gli HCT sono stati impiegati per valutare le capacità di numerosi vaccini, ma quasi sempre per malattie che avevamo ormai imparato a trattare con efficacia, e quindi con bassi rischi per gli individui che venivano infettati. Nel caso della COVID-19 non esiste una cura e i trattamenti disponibili non sono sempre adeguati, anche se in un anno e mezzo di pandemia sono stati fatti alcuni progressi. Da qui i dubbi sull’opportunità di infettare persone sane con il virus, visto il rischio di conseguenze gravi per la salute, compresa la morte.
Dopo un confronto tra ricercatori e comitati etici, il Regno Unito aveva autorizzato lo svolgimento degli HCT per la COVID-19, con due progetti avviati rispettivamente dal Royal Free Hospital e dall’Università di Oxford. Il primo, che dovrebbe portare entro poche settimane alla pubblicazione dei primi dati ufficiali, era entrato nella fase operativa lo scorso marzo, con la collaborazione dell’Imperial College London e di una società che si chiama hVIVO, specializzata nei test di questo tipo.
Andrew Catchpole, responsabile scientifico di hVIVO, ha fornito qualche anticipazione sull’esito della sperimentazione e ha confermato che finora tutto si è svolto senza imprevisti. I volontari infettati hanno sviluppato sintomi lievi e senza che emergessero complicazioni. Ha detto di essere rimasto molto colpito dal decorso dell’infezione con molti elementi in comune tra diversi volontari.
Ogni individuo è stato infettato facendogli inalare una soluzione contenente particelle virali del coronavirus. I partecipanti hanno poi trascorso un periodo in ospedale, in attesa che diventassero contagiosi e che eventualmente sviluppassero sintomi della COVID-19. In questa fase, e nella successiva dopo le dimissioni dalla clinica, sono stati seguiti da medici e ricercatori per valutare le evoluzioni dell’infezione e se ci fossero esiti non previsti a distanza di tempo.
I ricercatori hanno notato che la diffusione di particelle virali, ciò che fa sì che persone infette ne contagino altre, inizia solitamente entro quattro giorni dall’inizio dell’infezione e che aumenta poi velocemente. Il test è stato effettuato impiegando alcune delle prime versioni del coronavirus emerse nel 2020, meno contagiose rispetto all’attuale variante delta.
La sperimentazione ha l’obiettivo di verificare quanto tempo sia necessario, in media, per rilevare un’infezione in corso attraverso i test disponibili, come quelli antigenici e i più affidabili test molecolari. Il loro impiego è ormai estremamente diffuso, ma è comunque difficile fare stime accurate sui tempi nel mondo reale, dove ci sono più variabili da tenere in considerazione.
Altri obiettivi dello studio sono l’analisi dei luoghi in cui vivono le persone infette, per valutare quante particelle virali si depositino effettivamente sulle superfici e con quali fattori di rischio, e capire meglio gli effetti del coronavirus sul nostro organismo. Oltre alla risposta immunitaria e ai tempi di reazione delle nostre difese, i ricercatori vogliono valutare quali siano le conseguenze neurologiche della COVID-19 e il loro legame con la cosiddetta “long COVID”, che in alcuni comporta una maggiore durata dei sintomi come stanchezza e mal di testa.
E proprio il rischio della “long COVID” aveva spinto nei mesi scorsi diversi ricercatori a criticare il ricorso agli HCT, considerato che ci sono ancora molte cose da capire intorno agli effetti nel medio-lungo termine della malattia. Altri avevano fatto notare come test di questo tipo non avessero più molta utilità, considerato che ormai ci sono diversi tipi di vaccini disponibili contro il coronavirus e che il loro impiego su centinaia di milioni di individui rende possibile la raccolta di un’enorme quantità di dati, per valutarne l’efficacia e non solo.
I sostenitori degli HCT ritengono invece che l’iniziativa del Royal Free Hospital sia importante per approfondire le conoscenze sulla COVID-19 e sul coronavirus, anche in vista dello sviluppo di nuovi vaccini, compresi quelli che potrebbero funzionare contro più tipi di coronavirus. Dicono inoltre che i rischi per i volontari siano contenuti, perché l’infezione è stata indotta utilizzando quantità limitate di coronavirus. L’avvio di ulteriori HCT potrebbe inoltre rendere più rapidi i test per verificare l’affidabilità di nuovi vaccini sperimentali, o per valutare gli effetti di farmaci già esistenti nel contrastare i sintomi della COVID-19.