La storia di Matteo Messina Denaro, il più ricercato
Sappiamo tante cose sul principale latitante italiano, boss di Cosa Nostra, tranne la più importante: dov'è
di Stefano Nazzi
Di Matteo Messina Denaro si sanno molte cose. Si sa che soffre un po’ di strabismo, che adora i dolci alla ricotta e che passa molte delle sue ore da latitante a giocare ai videogiochi (testimonianza di alcuni pentiti) e a fare puzzle (fece contattare una ditta produttrice da un suo fedelissimo per recuperare un pezzo mancante), che lo chiamano u siccu, il magro, e che lui si è dato da solo il soprannome di Diabolik. Si sa anche che ha rinunciato a malincuore alle iniziali cucite sui polsini delle camicie, potenziale indizio sulla sua identità, e che, sempre parola dei pentiti, si tiene in forma con la cyclette.
Si sanno tante cose ma non si conosce quella più importante: dov’è. Lo cercano le procure di tutta Italia e le polizie di mezzo mondo, come dimostra la strana operazione delle forze speciali olandesi in un ristorante dell’Aia. La Procura di Trento, che stava indagando su un giro di riciclaggio di denaro, era convinta che in quel ristorante ci fosse Matteo Messina Denaro.
L’intervento è finito con un clamoroso scambio di persona: al suo posto è stato arrestato un uomo inglese.
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Matteo Messina Denaro è il “numero uno” tra i latitanti italiani, uno dei maggiori ricercati al mondo. L’ultima volta che qualcuno lo vide libero era in vacanza a Forte dei Marmi, nell’agosto del 1993, con suoi fidatissimi amici Filippo e Giuseppe Graviano. Poi più nulla. Le storie su di lui delineano la figura di un mafioso spietato, pronto a uccidere anche gli innocenti, forse più furbo degli altri, di sicuro più prudente, ai limiti della paranoia. Non è mai stato in carcere.
È nato a Castelvetrano (Trapani), nella valle del Belice, nel 1962. Lì ha frequentato le scuole fino a che non si è ritirato dall’Istituto tecnico commerciale Ferrigno di Castelvetrano. Come riporta il libro L’invisibile, scritto da Giacomo Di Girolamo, in una lettera recuperata dalla polizia nel 2015 Messina Denaro scriveva: «Io qualche rimpianto nella mia vita ce l’ho, il non avere studiato è uno di essi. È stato uno dei più grandi errori della mia vita, la mia rabbia maggiore è che ero un bravo studente solo che mi sono distratto con altro».
Ciò che distrasse Messina Denaro fu seguire le orme del padre, Francesco, don Ciccio, boss mafioso di Castelvetrano legato da una stretta alleanza ai corleonesi di Totò Riina, il clan vincente degli anni Ottanta e Novanta. A vent’anni Messina Denaro partecipò attivamente, assieme ai corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. Divenne il pupillo di Totò Riina. Era già un mafioso però prendeva l’indennità di disoccupazione dall’Inps, e se ne vantava. Andava in giro con una Porsche, si vestiva Armani, al polso aveva un Rolex Daytona.
Fu Paolo Borsellino, nel 1989, a iscrivere per la prima volta il suo nome in un fascicolo d’indagine. Un commissario di polizia di Castelvetrano, Rino Germanà, iniziò a indagare su quel ragazzo: quel ragazzo decise di ucciderlo. Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, a bordo di una Fiat Tipo, intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo. Iniziarono a sparare, il commissario rispose al fuoco, uscì dalla macchina e si gettò in mare inseguito da Bagarella il cui Kalašnikov si inceppò.
Anni dopo Giovanni Brusca, come ricorda sempre il libro di Di Girolamo, disse durante l’udienza di un processo: «Bagarella le armi moderne non le sa usare». Germanà si salvò.
Dopo l’attentato, Messina Denaro divenne latitante: ufficialmente il suo nome è iscritto nella lista dei ricercati dal 2 giugno 1993. A quel punto era già diventato il capo di Cosa Nostra nella provincia di Trapani, leader indiscusso delle nuove leve. I soldi arrivavano dalle estorsioni: per gran parte dei contratti, accordi, transazioni nella zona del trapanese, una percentuale doveva essere versata ai Messina Denaro.
Tanti altri soldi arrivavano dallo smaltimento illegale dei rifiuti, dal riciclaggio di denaro e naturalmente dal traffico di droga. I soldi passavano attraverso i conti di centinaia di prestanome. Messina Denaro faceva, e presumibilmente fa, affari in Sudamerica, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Nord Africa. Fedelissimo di Totò Riina, Messina Denaro esercitava il controllo militare sul trapanese. Era lui a decidere gli obiettivi da colpire, lui a comandare gli eserciti nelle guerre di mafia.
Tanto denaro arrivava anche dagli appalti: la sua famiglia aveva praticamente il monopolio delle costruzioni nella provincia. Era della famiglia tutto il ciclo produttivo che ha portato all’edificazione di case abusive ovunque, lungo la costa di Castelvetrano e Mazara del Vallo. In una delle aziende produttrici di calcestruzzo, a Mazara del Vallo, si tenevano tra l’altro i summit mafiosi. È lì che venne deciso l’attentato a Maurizio Costanzo e fu messa a punto la strategia stragista che Messina Denaro condivise in pieno. Fu lui a segnalare a Riina i monumenti a Roma, Milano e Firenze da colpire per attaccare lo Stato tra il 1992 e il 1993.
Ha raccontato Francesco Geraci, pentito di mafia: «Un giorno Matteo mi venne a trovare chiedendomi cosa ne pensassi di un progetto di attentati da effettuare nei confronti di personaggi famosi come Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro e altre personalità di rilievo. Disse che così si sarebbe destabilizzato lo Stato. Io risposi “Buono è”. Così lui mi disse che presto ci saremmo trasferiti a Roma a frequentare i vip».
Prima di partire, Messina Denaro portò Geraci, Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Fifetto Cannella a comprare vestiti eleganti. A Roma frequentarono locali alla moda sperando di incontrare personaggi dello spettacolo e attori. Iniziarono a studiare i movimenti di Maurizio Costanzo, andarono almeno due volte al teatro Parioli dove Costanzo registrava la sua trasmissione. L’attentato fu tentato in via Fauro, a Roma, il 14 maggio 1993: Costanzo e la moglie Maria De Filippi ne uscirono illesi.
Messina Denaro decise che dopo Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo molto critico nei confronti dei corleonesi, dovesse morire anche la fidanzata Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, strangolata il 15 luglio 1992. Fu sempre lui ad autorizzare il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne di un mafioso pentito, rapito a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, il 23 novembre 1993, strangolato e poi sciolto nell’acido da Giovanni Brusca l’11 gennaio 1996, dopo 25 mesi di prigionia.
Ma Messina Denaro ha sempre cercato di apparire diverso dalla figura classica del mafioso. In una lettera datata 1 febbraio 2005, trovata in un covo abbandonato e firmata Alessio (pseudonimo che ha usato spesso), scrisse, con una certa ricercatezza:
«Oggi vivo per come il fato mi ha destinato, mi preoccupo soltanto di essere un uomo corretto, ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita e spero di morire da uomo giusto, tutto il resto non ha più valore. Non pensi che io dica ciò con arroganza, se mi vedesse noterebbe solo umiltà in questo mio dire, non c’è neanche cattiveria e astio verso qualcuno nelle mie parole; veda, io ho conosciuto la disperazione pura e sono stato solo, ho conosciuto l’inferno e sono stato solo, sono caduto tantissime volte e da solo mi sono rialzato; ho conosciuto l’ingratitudine pura da parte di tutti e di chiunque e sono stato solo, ho conosciuto il gusto della polvere e nella solitudine me ne sono nutrito; può un uomo che ha subito tutto ciò in silenzio avere ancora fede? Credo di no. Oggi aspetto che il mio destino si compia seguendo questo pensiero: “Ho visto ciò che la vita mi ha dato e non ho avuto paura e non ho girato lo sguardo di là e non ho perdonato ciò che non si può perdonare».
E in un’altra lettera, in cui citava tra l’altro lo scrittore brasiliano Jorge Amado:
«Jorge Amado diceva che non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica ed io sono d’accordissimo con lui. In quanto alla morte credo di avere avuto un rapporto particolare con lei, mi è sempre aleggiata intorno e so riconoscerla, da ragazzo la sfidavo con leggerezza per via dell’incoscienza giovanile, oggi da uomo maturo non la sfido, più semplicemente la prendo a calci in testa perché non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita, teme la morte chi sta bene su questa terra e quindi ha qualcosa da perdere, io non ci sono stato bene su questa terra e quindi non ho nulla da perdere, neanche gli affetti perché li ho già persi nella materia già da tanti anni. Spero solo di riuscire a portare a termine ciò che mi sono prefissato prima di andare via, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere, non saranno questi “buoni ” e “integerrimi” della nostra epoca, in preda al fanatismo che riusciranno a fermare un uomo come me».
Dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio del 1993, Messina Denaro divenne il capo indiscusso di Cosa Nostra. Non c’erano altre possibilità, essendo lui il suo “delfino”. Più tardi Riina sembrò pentirsi di questa scelta. Nel 2013, nel carcere di Opera dove era detenuto con il regime del 41 bis, venne registrato mentre parlava con Alberto Lorusso, pugliese della Sacra Corona Unita: «Il padre l’aveva buono. Minchia però il figlio non ne prende niente. Questo signor Messina che fa questi pali, i pali eolici, i pali della luce se li potrebbe mettere nel culo. Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi». Riina si lamentava, probabilmente, della nuova strategia del suo successore, leader della nuova generazione di Cosa Nostra, quella dei mafiosi imprenditori che, come disse un pentito, «preferivano fare un morto in meno e soldi in più».
Ci sono molte cose che distinguono Messina Denaro dai mafiosi alla Totò Riina e alla Bernardo Provenzano. Una è che Messina Denaro non è sposato, non ha attorno a sé una famiglia tradizionale. A Sonia, una sua fidanzata, scrisse nel primo periodo di latitanza: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena».
Un’altra fidanzata, Maria Mesi, finì nei guai, arrestata per favoreggiamento. Nel 1995 fece consegnare a Messina Denaro una lettera in cui gli scrisse: «Ti prego non dirmi di no, desidero tanto farti un regalo. Sai ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella di Secret Maya 2 ancora non è arrivata. Sei la cosa più bella che ci sia». Fu seguendo Mesi che la polizia arrivò vicinissima a catturare Messina Denaro. Accadde nel 1998 quando, seguendola, gli investigatori scoprirono un covo a Bagheria in via Milwaukee 40. Quando gli agenti fecero irruzione, il latitante era già scappato. Vennero trovati un barattolo di Nutella, uno di caviale, un puzzle incompleto, una stecca di sigarette Merit.
Prima di Maria Mesi e Sonia c’era stata una donna austriaca, Andrea Haslener, che lui chiamava Asi. Erano stati fidanzati per quattro anni, dal 1989 al 1993. Si erano conosciuti a Castelvetrano quando lei faceva la receptionist all’hotel Paradise Beach. Messina Denaro, Graviano e altri mafiosi iniziarono a frequentare assiduamente l’albergo. Il direttore Nicola Consales fece capire ad Andrea Haslener che quelle persone non erano gradite: fu assassinato il 21 febbraio 1991.
Tra il 1995 e il 1996 Messina Denaro ebbe una relazione anche con un’altra donna di Castelvetrano, Franca Alagna. I due, nel 1996, ebbero una figlia, Lorenza. Da allora Alagna perse qualsiasi autonomia, costretta sempre in casa e, quando usciva, era accompagnata da parenti o da scagnozzi del compagno. Nel 2013, quando la figlia stava per diventare maggiorenne, lei e la madre chiesero di poter lasciare Castelvetrano e allontanarsi di conseguenza dal mondo dei Messina Denaro. Il boss, dalla latitanza, diede il suo assenso. Secondo gli investigatori, la figlia non ha mai visto il padre. Il 14 luglio Messina Denaro è diventato nonno, sua figlia ha avuto un bambino che non porta il cognome del padre ma quello della madre.
È soprattutto un’altra donna però a essere stata sempre vicina a Messina Denaro: sua sorella Patrizia. È stata lei per lungo tempo a portare i messaggi del fratello e a riceverli per lui. Nel 2018 è stata condannata a 14 anni di carcere per associazione mafiosa. Nelle motivazioni della sentenza c’era scritto: «È accertato il fatto che l’imputata avesse veicolato importantissime comunicazioni da e per il carcere, facendo da tramite tra gli altri mafiosi detenuti e il fratello latitante».
Da allora la prudenza di Messina Denaro è aumentata. Le indagini hanno accertato che impartisce ordini attraverso una rete di messaggeri fidatissimi. Non usa telefoni, solo “pizzini”, biglietti. È stato lui stesso a spiegare come agire in un pizzino consegnato all’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, che in realtà agiva per conto del Sisde, il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica. Vaccarino riuscì a mettersi in contatto con Messina Denaro prospettandogli l’apertura, come prestanome, di una catena di supermercati nella zona di Agrigento. I due iniziarono a scambiarsi pizzini. Nel primo, Messina Denaro scrisse:
«Tutte le persone che hanno contatto con me hanno dei nomi convenzionali, il suo è Svetonio, ciò la preserverà da rischi inutili, ad esempio il nostro tramite quando riceve un biglietto Svetonio sa che lo deve portare a lei evitando così che ogni volta io gli spieghi a chi lo deve portare, quindi mi vorrà scusare se le ho cambiato nome. La lettera a me lei la chiuda a bigliettino scrivendo fuori Alessio poi io le risponderò con lo stesso sistema, questa persona verrà direttamente da lei e le dirà che viene da parte di suo figlioccio Alessio che sono io. Lei mi deve mandare la sua lettera con le risposte tramite la stessa persona con cui riceverà questa mia, penso che non le verrà difficile trovarlo o farlo cercare. Lei mi deve mandare la lettera entro e non oltre il 20 dicembre, la può anche consegnare il 19 ma non oltre perché se no non mi arriva più. La mia risposta non la riceverà subito. Dato i tempi e dato che sono tutti addosso a me».
Quando l’11 aprile 2006 fu arrestato Bernardo Provenzano, nascosto in un casolare vicino a Corleone, la polizia trovò numerosi pizzini in cui Messina Denaro spiegava all’anziano boss quali affari stesse mettendo in piedi con Vaccarino. All’ex sindaco arrivò poi un ultimo pizzino in cui Messina Denaro si raccomandava «di condurre una vita trasparente in modo da non essere coinvolto nelle indagini». Quando il quotidiano La Repubblica rivelò che Vaccarino agiva in realtà per conto del Sisde, Messina Denaro interruppe ogni contatto.
È forse anche grazie al sistema dei pizzini che Messina Denaro riesce a essere latitante da 28 anni mantenendo intatto il suo potere. Di lui non ci sono impronte digitali, esiste solo una registrazione in cui si sente la sua voce: era custodita nell’archivio del tribunale di Marsala e risale al 1993. Le fotografie sono vecchie, non ce n’è una segnaletica perché non è mai stato carcerato. Esistono solo le ricostruzioni di come potrebbe apparire oggi, a 59 anni.
Secondo gli investigatori che lo cercano, è stato a lungo lontano dalla Sicilia, all’estero. Lo si pensa anche perché i pizzini che invia arrivavano a destinazione anche a distanza di mesi. Sembra certo che all’inizio degli anni Duemila, sotto falso nome, sia stato curato a Barcellona per una malattia degenerativa della cornea. È stato, secondo le ricostruzioni, in Austria, Svizzera, Spagna, Tunisia, sicuramente in Grecia dove andò nel 1994 con Mesi facendosi chiamare Matteo Cracolici. Sembra anche abbia avuto legami con il Venezuela.
Nel cimitero dove c’è la tomba del padre (morto di infarto nel 1998 durante la latitanza) ci sono delle telecamere, ma lì non è mai stato avvistato. Alcuni pentiti hanno testimoniato di sapere che avrebbe come base la Toscana, e che si sarebbe rifatto il volto in Bulgaria. Il collaboratore di Giustizia Mario Pasta ha sostenuto che nel maggio 2010 Messina Denaro era allo stadio Barbera per una partita tra Palermo e Sampdoria. Lì si sarebbe incontrato con altri boss.
Attorno a lui è stata fatta terra bruciata. La sorella, suo vero braccio destro, è in carcere. Molti suoi uomini di fiducia sono stati catturati. Le operazioni di polizia che arrestano suoi complici si susseguono così come il sequestro di beni gestiti, per suo conto, da prestanome. Tra questi c’è anche un’ala del castello di Castelvetrano. A fare affari nel mondo dell’arte per Messina Denaro era Giovanni Franco Becchina, noto commerciante internazionale d’opere d’arte e reperti di valore storico–archeologico. A lui sono stati sequestrati beni, aziende, terreni, conti bancari, automezzi e immobili, tra i quali appunto il castello Bellumvider di Castelvetrano, costruito ai tempi di Federico II, poi residenza nobiliare del casato Tagliavia-Aragona-Pignatelli, principi di Castelvetrano. Tutte le proprietà, secondo la Direzione investigativa antimafia, erano in realtà di Messina Denaro.
Il collaboratore di giustizia Mariano Concetto ha anche dichiarato di aver ricevuto l’incarico da Messina Denaro di rubare il Satiro Danzante, importantissimo reperto archeologico custodito a Mazara del Vallo. Per quel lavoro, rivelò Concetto, «il capo disse che non avremmo visto un euro. E che se ci fossimo lamentati saremmo finiti nel canale di Messina». Quel furto però Messina Denaro non è mai riuscito a portarlo a termine.