Come ha funzionato lo smart working nella pubblica amministrazione?
Non ci sono dati per valutarlo, e inoltre raramente è stato davvero “smart working”: ma il ministro Brunetta vorrebbe comunque limitarlo
A un anno e mezzo dall’improvvisa crescita dello smart working con l’arrivo della pandemia, si è tornati a discutere con insistenza delle prospettive di questa modalità di lavoro che in Italia interessa milioni di persone. Fino a qualche mese fa sembrava che non si potesse più tornare indietro: le nuove ondate di contagi avevano costretto la pubblica amministrazione e le aziende a confermare il lavoro da casa, considerato parte della nuova normalità dopo la fase più critica dell’epidemia.
Nelle ultime settimane però una serie di dichiarazioni del ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta hanno messo in discussione tutto quanto: ha infatti proposto di limitare lo smart working al 15 per cento di tutti i dipendenti pubblici. Tra le altre cose, Brunetta ha spiegato che chi fa lavoro agile non ha un contratto specifico, non ha obiettivi e non ha tecnologie. «Insomma, è un lavoro a domicilio all’italiana», ha detto.
Anche se espresse con modi perentori, secondo alcuni esperti le preoccupazioni di Brunetta non sono infondate. L’economista Carlo Cottarelli, favorevole a far tornare gran parte dei dipendenti pubblici al lavoro in presenza, ha parlato di «cosiddetto smart working emergenziale». Quello che in Italia viene chiamato smart working, in effetti, non è davvero smart working. Per come viene applicato in Italia, soprattutto nella sua versione forzata dagli effetti dell’epidemia, sarebbe meglio chiamarlo telelavoro, il lavoro fatto in casa seguendo esattamente gli stessi orari previsti in ufficio e con una postazione simile.
Lo smart working, nella sua definizione originale, prevede invece più flessibilità e pochi vincoli. Si può lavorare dove si vuole, quando si vuole: l’importante è raggiungere gli obiettivi stabiliti. Capire quali sono i limiti dello smart working “all’italiana” e i suoi vantaggi aiuta a comprendere meglio le critiche di chi vorrebbe eliminarlo e le ragioni di chi sostiene che rappresenti il primo modello di un futuro lavorativo per certi versi inevitabile, considerando il progresso tecnologico e culturale.
Secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, prima della pandemia i lavoratori in smart working erano in totale 570mila, tra cui pochi dipendenti pubblici. Nel 2019 solo il 7 per cento di tutte le pubbliche amministrazioni aveva attivato iniziative definite “informali”, più per rispondere alle direttive che i governi avevano emanato sul tema che per convinzione.
Nel marzo 2020, con le misure restrittive imposte per evitare la diffusione dei contagi, lo smart working nella pubblica amministrazione ebbe una crescita significativa: i dati pubblicati dalla Ragioneria dello Stato e dal FORMEZ, il Centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle pubbliche amministrazioni, un organo consultivo della presidenza del Consiglio, dicono che durante l’emergenza sanitaria un milione e 836mila dipendenti pubblici hanno lavorato da casa.
Secondo un’indagine della fondazione dei consulenti del lavoro, a maggio 2021, dopo la terza ondata dell’epidemia, la percentuale era scesa al 37,5 per cento: 1,2 milioni di persone. Nei mesi precedenti, come era successo in molte aziende private, anche moltissimi lavoratori erano tornati negli uffici pubblici: già da settembre del 2020 erano riprese le riunioni in presenza, erano stati riaperti gli sportelli e in generale c’era stato un graduale ritorno al passato.
Il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta vorrebbe che nelle prossime settimane questo ritorno fosse più consistente e veloce. A margine del forum Ambrosetti che si è tenuto a inizio settembre a Cernobbio, Brunetta ha detto che lo smart working resterà solo per una quota fino al 15 per cento dei dipendenti pubblici. Non è ancora chiaro come il governo si muoverà: secondo una delle ipotesi circolate nei giorni scorsi potrebbe essere approvato un DPCM, un decreto del presidente del Consiglio, per fissare la nuova soglia. Sarà molto importante capire come verrà scritto il provvedimento, perché le parole e le formulazioni usate – per esempio, con l’utilizzo dell’avverbio «preferibilmente» – potrebbero lasciare aperte alcune possibilità.
In un intervento pubblicato dal Foglio il 9 settembre e intitolato “Lettera ai difensori (ipocriti) dello smart working nella Pa”, Brunetta ha risposto alle tante critiche seguite alla proposta di introdurre una soglia al 15 per cento. La sua argomentazione principale riguarda proprio il modello di emergenza applicato negli ultimi mesi in Italia, non ispirato a flessibilità, autonomia e responsabilità. «È una forma di lavoro domiciliare forzato, realizzata nel giro di pochi giorni trasferendo meccanicamente all’esterno delle amministrazioni alcune delle attività che prima venivano svolte in ufficio, e solo quelle che, nell’emergenza, potevano immediatamente essere delocalizzate in funzione dei processi e delle tecnologie esistenti, senza una scelta organizzativa e strategica di fondo», ha scritto.
Brunetta sostiene che, per come è stato applicato, lo smart working non sia riuscito a risolvere i problemi più rilevanti della pubblica amministrazione italiana: la scarsa efficienza organizzativa e l’eccesso di burocrazia. Non ci sono state «azioni di accompagnamento», non è stata possibile nessuna «sensibilizzazione», nessuna «formazione specifica dei lavoratori», e la definizione di luoghi, tempi, strumenti è stata assente.
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Uno dei limiti più evidenti del dibattito è la mancanza dei dati per misurare la produttività. Al momento non esistono studi o indagini che mostrino con chiarezza se i dipendenti pubblici abbiano lavorato meglio da casa rispetto a quando erano in ufficio. La mancanza di dati è un argomento che viene utilizzato sia dai favorevoli allo smart working, sia dai contrari. Nonostante la valutazione di queste misure sia plausibilmente un compito del suo ministero, Brunetta ha scritto che «non c’è una panoramica delle informazioni relative all’andamento della produttività collegata al lavoro agile». Il motivo, dice, è che è mancata la programmazione, la definizione dei target e degli obiettivi e gli strumenti informatici per la raccolta e analisi dei dati e per il monitoraggio dei risultati raggiunti.
L’economista Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, dice che proprio perché non esistono dati per misurare la produttività dei dipendenti pubblici in smart working non si può essere negativi a prescindere. Secondo Becchetti, nella scelta bisognerebbe considerare i vantaggi potenziali come hanno fatto moltissime aziende private: «Mantenendo tre tipi di incontri lavorativi – faccia a faccia, via webinar e con i messaggi nelle chat – si aumenta la produttività per almeno quattro motivi: risparmio tempo e denaro per gli spostamenti, posso aumentare la frequenza delle interazioni, si possono scegliere l’orario e il luogo più adatti a favorire la produttività dei singoli, e c’è una maggiore conciliazione tra la vita privata e quella lavorativa, con meno stress».
Uno dei problemi dovuti alla distanza tra chi lavora in un ufficio è la perdita della qualità delle relazioni tra colleghi, che può avere effetti anche sui risultati. «Ma non si risolve con una ritirata totale», continua Becchetti. «La sfida è costruire legami forti tra i componenti dell’organizzazione. Si può fare in molti modi, anche con occasionali attività in presenza: se si riescono a costruire legami forti, lavorare insieme in chat non è un problema. Le aziende che devono fare profitti hanno scelto questa strada: significa che è conveniente».
Quest’ultima osservazione, largamente diffusa tra i favorevoli allo smart working, è stata piuttosto contestata dai critici. L’obiezione è che il lavoro e i servizi della pubblica amministrazione sono molto diversi da quelli di un’azienda privata: gli uffici pubblici non possono eliminare gli sportelli, il cosiddetto “front office”, perché altrimenti ampie fasce della popolazione – soprattutto gli anziani – rimarrebbero prive di servizi. Inoltre in molte aziende lo smart working era già stato applicato in passato, pur con quote ridotte rispetto al periodo dell’emergenza, e aver già fissato regole e obiettivi ha aiutato quando lavorare da casa è stato inevitabile a causa del coronavirus. Ma anche in questo caso la mancanza di programmazione può essere considerata una lacuna della pubblica amministrazione, non abituata a cambiare la sua organizzazione e le sue regole: solo il 33 per cento delle amministrazioni statali – 54 su 162 – ha approvato il POLA, il piano operativo del lavoro agile.
Un anno fa in Italia era nato un sindacato chiamato Smart Workers Union, che negli ultimi giorni ha diffuso una petizione per chiedere il diritto soggettivo di lavorare in smart working in tutte le attività della pubblica amministrazione che non prevedono la presenza negli uffici. La petizione, che al momento ha raccolto 21mila firme online, punta soprattutto a salvare le esperienze virtuose che verrebbero annullate dal taglio annunciato da Brunetta. «La Regione Emilia-Romagna, per esempio, ha fatto un piano organizzativo del lavoro agile», spiega Gilberto Gini, segretario di Smart Workers Union. «È un piano evoluto: hanno previsto percorsi di controllo e hanno concesso grande autonomia ai lavoratori. Se si tornerà a una soglia fissa, i tanti enti che hanno applicato lo smart working con lungimiranza e con ottimi risultati, come l’Emilia-Romagna, dovrebbero buttare tutto quello che è stato fatto di buono».
Secondo Gini il problema è soprattutto culturale. Per ragioni storiche e di impostazione organizzativa, nella pubblica amministrazione ci sono moltissimi manager convinti che i lavoratori siano più efficienti e produttivi se controllati in ufficio. È lo stesso principio applicato nelle aziende che hanno revocato lo smart working subito dopo la fine dell’emergenza: si motiva la richiesta di rientro in ufficio con la necessità di incentivare il confronto tra i dipendenti, comunque piuttosto limitato nella pubblica amministrazione, mentre in realtà l’esigenza più urgente è avere un maggiore senso di controllo attraverso la presenza dei lavoratori in ufficio.
Mariano Corso, responsabile scientifico dell‘Osservatorio smartworking del Politecnico di Milano, nonché componente della Commissione tecnica sul lavoro agile nella pubblica amministrazione, ha detto che a questo punto tornare indietro sarebbe «svilente», soprattutto se la scelta non deriva da reali esigenze dell’amministrazione pubblica, ma al «teorema populistico dei furbetti del cartellino».