Il complicato rapporto tra i progressisti e la genetica
Da tempo vengono segnalati i limiti dell'approccio prevalente nella sinistra, secondo cui è solo l'ambiente a determinare il comportamento di una persona
Paige Harden è una giovane e apprezzata psicologa e genetista comportamentale americana, docente all’Università del Texas, a Austin, dove dirige un laboratorio di genetica del comportamento evolutivo. È considerata una delle più autorevoli scienziate nell’ambito degli studi più recenti sull’influenza dei geni sullo sviluppo delle persone, sia per quanto riguarda i tratti caratteriali che i risultati nella vita, inclusi il livello di istruzione, il reddito e l’inclinazione alla criminalità. Nel 2017 ha ricevuto dalla American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti, un ambito riconoscimento – quello destinato agli psicologi nelle prime fasi della loro carriera – per le sue ricerche su «come integrare la conoscenza genetica con le intuizioni cliniche ed evolutive classiche nel comportamento umano».
L’idea che fattori genetici siano alla base di una parte più o meno significativa dei nostri comportamenti in età adulta è un argomento molto controverso, che da decenni alimenta un dibattito vivace e molto polarizzato – a volte causa di ostilità esplicite – tra teorici di opposti modelli di analisi della natura umana. Da una parte ci sono gli studiosi che ritengono rilevanti e meritevoli di indagine scientifica soltanto le correlazioni tra l’individuo e l’ambiente in cui nasce e cresce. Alla parte opposta ci sono quelli che ritengono prevalente o largamente dominante l’influenza dei geni.
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È una discussione complessa e articolata, intorno alla quale esistono ideologie radicate anche nei contesti accademici, e con ripercussioni sul modo e sui criteri con cui valutiamo – e di fatto sono fondate – le nostre società, dall’istruzione pubblica alle politiche sociali. Harden – alla quale il New Yorker ha recentemente dedicato un lungo articolo – sostiene che la ricerca genetica sulle differenze individuali umane sia compatibile con obiettivi sociali progressisti ed egualitari, ed è considerata da molti suoi colleghi la scienziata più impegnata nel tentativo ambizioso di integrare e sintetizzare attraverso la ricerca genetica tradizioni e scuole di pensiero divergenti.
Nel suo libro più recente, La lotteria dei geni. Come il DNA influenza la nostra vita e la società, Harden scrive:
«Sì, le differenze genetiche tra due persone qualsiasi sono minuscole rispetto ai lunghi tratti di DNA arrotolati in ogni cellula umana. Ma queste differenze incombono pesantemente quando si cerca di capire perché, per esempio, un bambino ha l’autismo e un altro no; perché uno è udente e un altro no; e, come descriverò in questo libro, perché un bambino avrà difficoltà con la scuola e un altro no. Le differenze genetiche tra di noi sono importanti per le nostre vite. Causano differenze nelle cose a cui teniamo. Costruire un impegno per l’egualitarismo sulla nostra uniformità genetica equivale a costruire una casa sulla sabbia».
Harden ha raccontato al New Yorker che in seguito alla pubblicazione dei risultati delle sue prime ricerche, nel 2015, cominciò a percepire di essere sgradita in diversi contesti pubblici e formali, tra sociologi, economisti e altri scienziati. Molti di loro, soprattutto quelli vicini alle posizioni della sinistra americana, sembravano certi che qualsiasi ricerca sulla genetica del comportamento – anche se ben intenzionata – conducesse verso l’eugenetica. Ma Harden riteneva che quelle diffidenze provenissero da un’era ormai passata, in cui i geni erano descritti «in termini di codifica del destino individuale».
Ne ebbe conferma quando in una lunga conversazione via email con colleghi della Russell Sage Foundation ricevette da alcuni di loro, tra i più illustri, diverse contestazioni dopo aver condiviso i risultati di un’importante collaborazione internazionale guidata dal medico Daniel Belsky, docente alla Duke University School of Medicine. La ricerca, condotta su un campione di persone neozelandesi di discendenza nordeuropea, aveva identificato parti del genoma che mostravano una correlazione statisticamente significativa con il livello di istruzione.
In pratica, il gruppo guidato da Belsky aveva utilizzato quei dati per compilare una sorta di “punteggio poligenico” – una somma ponderata delle varianti genetiche rilevanti di un individuo – in base al quale sarebbe stato possibile spiegare in parte le differenze all’interno della popolazione nella capacità di lettura. Già dalle risposte ricevute in quella occasione, Harden si rese conto dell’esistenza di approcci difficili da conciliare. Da una parte, c’erano quelli inclini a insistere sul fatto che i geni non contino davvero; dall’altra, quelli che sospettano che i geni siano anzi le uniche cose che contano.
La storia della genetica del comportamento, sintetizza il New Yorker, «è la storia del tentativo di ogni generazione di tracciare una via di mezzo». All’inizio degli anni Sessanta, quando questa disciplina cominciò a formarsi, il rischio dell’eugenetica era avvertito come reale e concreto soprattutto per effetto del ricordo molto vivo delle atrocità naziste. Il modello dominante nella spiegazione dello sviluppo umano era il comportamentismo, sostenuto dai principi progressisti del dopoguerra e in parte fondato sulla speranza che modificare l’ambiente potesse produrre qualsiasi risultato.
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Partendo dalla constatazione della distribuzione non uniforme delle capacità umane, scrive il New Yorker, i primi genetisti del comportamento assunsero che «la nostra natura non è né perfettamente fissata né perfettamente plastica, e che questa era una cosa buona». E diedero priorità agli studi sugli animali, per evitare che i loro interessi scientifici potessero essere fraintesi e utilizzati al di fuori dei contesti accademici.
Nel 1965, le ricerche del genetista John Paul Scott e dell’etologo John L. Fuller – alla cui memoria è dedicato il premio Fuller-Scott, assegnato ogni anno dalla Behavior Genetics Association – mostrarono che, nonostante le differenze genetiche riconoscibili tra le razze canine, non sembravano esserci distinzioni categoriche utili a concludere che, per esempio, i pastori tedeschi siano più intelligenti dei labrador. Le variazioni più significative si verificano piuttosto a livello individuale, e l’ambiente era importante tanto quanto le qualità innate, se non di più.
Ma qualche anno più tardi Arthur Jensen, psicologo e docente dell’Università della California a Berkeley, pubblicò sulla rivista Harvard Educational Review un articolo intitolato “How Much Can We Boost IQ and Scholastic Achievement?” (“Quanto possiamo aumentare il Quoziente Intellettivo e il rendimento scolastico?”), ritenuto ancora oggi uno dei più controversi articoli nella psicologia americana. Jensen sostenne l’esistenza di un divario nel QI delle diverse popolazioni americane, la cui ragione era almeno in parte genetica e immutabile. Definiva quindi sostanzialmente inefficaci gli interventi politici mirati a contrastare quelle che considerava differenze naturali.
Le tesi di Jensen avviarono un dibattito pubblico molto acceso e anche violento, scrive il New Yorker, da cui scaturirono «proteste studentesche, minacce di morte e accuse di totalitarismo intellettuale». Le stesse controversie di allora alimentano ancora oggi, in forme diverse e meno violente, un dibattito incentrato su diverse questioni irrisolte e approfondite da studi successivi a quelli di Jansen. In ambito accademico, i suoi critici sostenevano che i percorsi sociali che dai geni portano a tratti complessi fossero talmente contorti e insondabili da rendere inadatta e sostanzialmente stupida qualsiasi nozione di “causalità genetica”.
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Nel 1972, il sociologo americano Christopher Jencks, dell’Università di Harvard, obiettò che l’affermazione in base alla quale i geni spiegherebbero le differenze tra gli individui nei punteggi dei test del QI non implica necessariamente che i geni influenzino la capacità di apprendimento di un individuo. E propose un esperimento mentale, per spiegare questo concetto. «Se, per esempio, un paese si rifiuta di mandare a scuola i bambini con i capelli rossi, si potrebbe dire che i geni che causano i capelli rossi abbassino i punteggi di lettura. Questo non ci dice che i bambini con i capelli rossi non possono imparare a leggere».
A questa forma di determinismo genetico si oppose fortemente anche il biologo evoluzionista e genetista statunitense Richard Lewontin, che utilizzò un’analogia diversa. Supponiamo, scrisse Lewontin, di acquistare un sacchetto di semi di mais e di coltivarne una manciata in un ambiente attentamente controllato, con illuminazione uniforme e soluzioni nutritive uniformi, e un’altra manciata in un terreno altrettanto illuminato ma povero di nutrienti. Le piante varieranno in altezza all’interno di ciascuno dei due gruppi, ma nel secondo saranno tutte scarsamente sviluppate e l’altezza media del gambo sarò inferiore a quella relativa al primo gruppo.
Ciò che Lewontin intendeva mostrare con questo esempio era la possibilità che rispetto a un determinato risultato finale, interamente determinato dall’ambiente, la predisposizione genetica comune sia del tutto ininfluente. In questo senso la tesi razziale di Jansen era, sotto molti punti di vista, ingiustificata: era assurdo pensare che, nell’America del 1969, persone di differenti origini etniche godessero delle stesse condizioni. I critici di quel modello non negavano che i test sul QI potessero misurare qualcosa di reale, ma sostenevano che qualsiasi dato tratto da quei test non dovesse essere considerato come un dato puramente biologico e immutabile.
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La proliferazione degli studi sui gemelli durante gli anni Ottanta, scrive il New Yorker, contribuì fortemente a cambiare un approccio teorico basato in parte su intuizioni di tipo morale prive di fondamento. Quando la schizofrenia e l’autismo, per esempio, si rivelarono in gran parte ereditari, la comunità scientifica abbandonò definitivamente alcune dannose teorie che associavano quei disturbi a un presunto rapporto inadeguato del bambino o della bambina con i genitori (la teoria delle cosiddette “madri frigorifero”).
Per alcuni tratti come l’intelligenza, i progressisti continuarono tuttavia a insistere sul fatto che le differenze – non solo a livello di gruppo ma anche a livello individuale – fossero semplicemente l’effetto di un ambiente diseguale. I conservatori, scrive il New Yorker, sottolinearono che quel tipo di approccio selettivo rispetto alle scoperte scientifiche fosse intellettualmente disonesto.
Nel 1997, un influente psicologo del Dipartimento di Psicologia dell’Università della Virginia pubblicò un breve saggio intitolato “The Search for a Psychometric Left” (“La ricerca di una sinistra psicometrica”), in cui invitava i suoi colleghi progressisti a non respingere le valutazioni quantitative ottenute dai più recenti metodi d’indagine psicologica. L’autore di quel saggio è Eric Turkheimer, di cui Harden è stata allieva e che è oggi considerato uno dei più importanti genetisti comportamentali della sua generazione. In conclusione del saggio, Turkheimer scrisse:
«Una sinistra psicometrica riconoscerebbe che l’abilità umana, le differenze individuali nell’abilità umana, le misure dell’abilità umana e le influenze genetiche sull’abilità umana sono tutte reali ma profondamente complesse, troppo complesse perché si possano imporre su di esse schemi biogenetici o politici. […] L’opposizione al determinismo, al riduzionismo e al razzismo, nelle loro forme estreme o moderate, non deve dipendere dal rifiuto generale di fatti innegabili – anche se facilmente interpretati nel modo sbagliato – come l’ereditarietà».
Già all’epoca Turkheimer era abbastanza noto per la sua convinzione che le spiegazioni biologiche del comportamento umano difficilmente avrebbero soppiantato quelle culturali e psicologiche. Sosteneva l’idea che i processi rilevanti nello sviluppo degli individui fossero troppo disordinati per essere chiariti e fissati a livello molecolare. Con questo non intendeva che la genetica del comportamento fosse inutile, ma insisteva sul bisogno di una prospettiva più modesta riguardo ai risultati che era possibile ottenere grazie a essa.
Gli studi sui gemelli potrebbero non spiegare mai come un dato genotipo possa rendere più probabile la depressione, per esempio, ma possono servire a evitare il tipo di inferenze che negli anni Sessanta attribuivano ai genitori e all’ambiente le responsabilità di determinate patologie. Il lavoro di Harden, scrive il New Yorker, è pienamente all’interno di questa tradizione di studi. Per esempio, Harden ha utilizzato uno studio sui gemelli per dimostrare che l’idea della “pressione sociale” (“peer pressure”) come motore dell’abuso di sostanze tra gli adolescenti fosse, nella migliore delle ipotesi, un’eccessiva semplificazione di correlazioni estremamente complesse tra geni e ambiente.
I primi anni di specializzazione di Harden coincisero con un periodo di importanti scoperte scientifiche e con un massiccio ingresso dei genetisti in un campo di ricerca a lungo dominato dagli psicologi. Nel 2003, gli scienziati annunciarono di aver completato la prima mappatura completa del genoma umano, da molti ritenuti il più grande e complesso progetto di ricerca biologica nella storia. Conoscere nel dettaglio le informazioni che compongono il DNA umano permise, per esempio, di attribuire alcune malattie come quella di Huntington alla mutazione di un singolo gene, e questo contribuì a diffondere l’idea che anche i tratti complessi della personalità potessero essere derivati altrettanto chiaramente.
Alcuni studi riuscirono a individuare un gene associato all’aggressività, altri alla depressione, ma gli esperimenti non furono replicati, e in breve tempo fu chiaro che i tratti complessi possono essere associati a più geni e che i singoli geni possono appartenere a una varietà di attributi. E ancora oggi una delle principali difficoltà delle ricerche sulla genetica del comportamento consiste nell’individuazione di quali geni influenzino un dato comportamento e di come ciò avvenga.
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Nel periodo in cui Harden stava finendo la sua tesi specialistica i ricercatori cominciarono ad avviare una serie di cosiddetti studi di associazione genome-wide (genome-wide association study, o GWAS), basati sulla possibilità di identificare nel genoma umano centinaia o migliaia di punti in cui le differenze nelle sequenze del DNA potrebbero essere correlate a tratti complessi o a un determinato risultato. Dopo alcuni primi risultati deludenti, gli studi GWAS negli ultimi cinque anni si sono rapidamente evoluti.
I “punteggi poligenici” possono oggi rappresentare una buona parte della varianza di una popolazione in altezza e peso, e servire a prevedere malattie cardiovascolari e altre patologie come il diabete. I ricercatori hanno inoltre scoperto collegamenti tra geni e tratti comportamentali complessi. Il più grande studio GWAS sui livelli di istruzione ha identificato nel genoma quasi 1.300 punti correlati al successo scolastico, e ha permesso di formulare punteggi con validità predittiva. Le persone con i punteggi più alti avevano circa cinque volte più probabilità di laurearsi rispetto a quelle con i punteggi più bassi: che è una stima con un livello di accuratezza paragonabile, scrive il New Yorker, a quelle basate sulle tradizionali variabili delle scienze sociali, come il reddito dei genitori.
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Parlando con il New Yorker, Harden è stata molto cauta rispetto alle conclusioni che è possibile trarre dai suoi studi e molto chiara riguardo ai limiti dei GWAS. Sostiene che queste ricerche forniscano semplicemente un quadro di come i geni siano correlati al successo, o alla salute mentale, o alla criminalità, «per particolari popolazioni, in una particolare società, in un particolare momento storico». Non avrebbe quindi senso, sostiene, confrontare risultati tra popolazioni di paesi o di epoche diverse.
Inoltre i punteggi poligenici hanno uno scarso valore predittivo per quanto riguarda i risultati individuali. Negli studi GWAS sul successo scolastico, per esempio, tra le persone con i punteggi più bassi ce ne sono molte che proseguono gli studi universitari, e tra quelle con i punteggi più alti ce ne sono molte che non arrivano a prendere il diploma di scuola superiore.
Ed esistono poi casi in cui i risultati di studi GWAS possono non essere particolarmente significativi, più o meno nello stesso senso in cui non lo sono le conclusioni sui bambini con i capelli rossi nell’esperimento mentale di Jencks. Uno studio sull’utilizzo delle bacchette a San Francisco, fa l’esempio il New Yorker, scoprirebbe prevedibilmente che questa abilità è geneticamente correlata a gruppi con origini asiatiche, «che è ben lontano dall’essere una scoperta su una destrezza innata con un particolare utensile».
Secondo Harden, uno dei principali limiti del dibattito sulla genetica del comportamento è che è ancora in larga parte basato su una distinzione superficiale tra cause genetiche immutabili e cause ambientali duttili. E sarebbe preferibile, secondo lei, accettare che nel comportamento umano tutto è legato a un lungo intreccio causale di geni, personalità e cultura, e quanto più si riesce a comprendere di questo intreccio, tanto più efficaci potrebbero essere i nostri interventi.
Harden, conclude il New Yorker, non è l’unica scienziata a condividere l’auspicio di Turkheimer di una “sinistra psicometrica”. Argomenti simili ai suoi sono stati trattati dai sociologi americani Dalton Conley e Jason Fletcher nel libro The Genome Factor, del 2017, dal sociologo dell’Università di Stanford Jeremy Freese e dallo scrittore socialista Fredrik deBoer, autore del recente libro The Cult of Smart. Opinioni simili a quelle della cosiddetta «sinistra ereditaria», come la definisce il New Yorker, sono state attribuite anche allo psichiatra e saggista californiano Scott Alexander e al filosofo Peter Singer.
«Le argomentazioni etiche di Harden sono quelle che ho sostenuto per molto tempo. Se ignori queste cose che contribuiscono alla disuguaglianza, o se fai finta che non esistano, rendi più difficile raggiungere il tipo di società che apprezzi», ha detto Singer al New Yorker. «Ma c’è una sinistra politicamente corretta che non è ancora aperta a queste cose», ha aggiunto.
La prospettiva della «cecità genetica», ha detto Harden al New Yorker, «perpetua il mito che quelli di noi che hanno “successo” nel capitalismo del ventunesimo secolo lo hanno ottenuto principalmente a causa del duro lavoro e dello sforzo, e non perché ci è capitato di essere i beneficiari di incidenti di nascita, sia ambientali che genetici».