Le scelte di chi era nelle Torri Gemelle
Cosa hanno passato impiegati e impiegate che la mattina dell'11 settembre erano al 25° piano della Torre Nord, raccontato dal Wall Street Journal
«Karen, è solo un mucchio di gente che vuole farsi pubblicità. Le persone lì pagano per parlare». Chris Ferreri ricorda di aver cercato di convincere Karen Seymour a non andare a una conferenza, in programma il giorno dopo al 106° piano della Torre Nord. Il tema trattato erano le tecnologie finanziarie, e Seymour pensava che sarebbe stato utile per il suo lavoro di specialista informatica. Ferreri era il suo capo: «Davvero, voglio andare» gli disse. A quel punto Ferreri rinunciò, raccomandandosi però di chiamare qualora la conferenza fosse stata davvero interessante.
L’11 settembre 2001 Seymour lasciò le sue figlie gemelle di 3 anni e mezzo e si diresse alla conferenza di buon mattino. Sarebbe iniziata alle nove, ma Karen arrivò con largo anticipo. Ferreri invece rimase nell’ufficio dove lavoravano, al 25° piano, sede di una filiale di una grande agenzia di brokeraggio finanziario, l’ICAP. La conferenza non si tenne mai, perché alle 8:46 il primo Boeing dirottato si schiantò tra il 93° e il 99° piano. Ferreri non avrebbe più avuto notizie di Seymour.
Un recente articolo del Wall Street Journal ha raccolto storie come questa, ricostruite attraverso le testimonianze dei dipendenti dell’ICAP sopravvissuti all’attentato delle Torri Gemelle di New York. Altri colleghi e colleghe di Seymour ricordano come decisioni prese nel giro di pochi attimi, in preda alla concitazione e al panico, ebbero poi ripercussioni gigantesche. Una scelta piuttosto che un’altra, aspettare qualche minuto o andare via subito, scendere o salire, la mattina dell’11 settembre poteva letteralmente fare la differenza tra vivere o morire.
«Scelte apparentemente minori, fatte spesso in stato confusionale, ebbero un impatto enorme sulle esperienze successive e su quanto è avvenuto dopo» racconta Marie Patton, che all’epoca dell’attentato lavorava per l’ICAP. «Ancora oggi scopro nuove storie dai miei colleghi».
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Nel caso di Patton, la scelta da prendere era quando e quanto in fretta abbandonare l’ufficio. Lei e i suoi colleghi si allontanavano dai loro posti molto raramente. Saltavano pause pranzo ed esercitazioni antincendio per rimanere sempre nei pressi di un telefono: mancare una chiamata di un cliente poteva significare rinunciare a un buon affare. Cercavano di evitare persino di andare al bagno. Ma quella mattina, Patton si allarmò subito quando da una finestra del 25° piano vide i bagliori provocati dal riflesso dei vetri, giù. Capì che dovevano essere caduti dai piani superiori.
«Qualcuno deve prendere una cazzo di decisione qui» ricorda di aver urlato. «Dobbiamo evacuare, andiamocene e basta, uscite!». Lei e altre persone si diressero verso le scale, e scendendo incontrarono alcuni vigili del fuoco che salivano.
Ferreri invece si mosse più velocemente, ma non perché avesse capito cosa stava succedendo. Al momento del primo impatto si era appena incontrato con un aspirante impiegato, lì per un colloquio. Ferreri sentì l’edificio ondeggiare e vide i cassetti della sua scrivania aprirsi di colpo. Nei minuti successivi lui e altri 25 dipendenti dell’ICAP si diressero all’uscita di sicurezza, ma senza troppa fretta. Ferreri lasciò addirittura la valigetta e il cellulare in ufficio, convinto che sarebbe tornato di lì a poco.
Una volta uscito, perse di vista il resto del gruppo in mezzo al caos che si era già scatenato. Ritrovò i colleghi dopo poco e si diressero verso ovest, ma in quel momento sentirono un gran boato: alzando la testa, Ferreri vide la parte inferiore del secondo Boeing che filava dritto verso la Torre Sud. Ricorda di aver pensato che senza dubbio ci sarebbero stati altri attacchi, e di aver valutato di buttarsi nel fiume Hudson per salvarsi. Invece si imbarcò su un battello per Staten Island. Riuscì a tornare a casa solo nel pomeriggio, e nei giorni seguenti partecipò a 25 funerali di amici e conoscenti, tra cui quello di Karen Seymour.
«Se avessi aspettato venti minuti per andarmene, probabilmente non sarei qui» dice Ferreri. Le cose che non scorderà mai sono le immagini e gli odori. «Ogni colore era trasformato dal grigio della cenere. Alla fine era tutto diventato cenere, tutto dello stesso colore, non importava chi o cosa».
Un altro impiegato, Michael Stasinski, ricorda che nei momenti successivi al primo impatto c’erano alcuni colleghi che non volevano andarsene. Dopo aver avvertito la scossa, sentì distintamente i cavi di un ascensore nelle vicinanze spezzarsi. A quel punto lui e altri membri del personale di sicurezza guardarono fuori e notarono i detriti che cadevano dai piani superiori. Senza perdere altro tempo, Stasinski e il personale di sicurezza cercarono di convincere i vicini di scrivania a formare un gruppo e uscire, incontrando qualche resistenza.
«Ascoltate, dovete andarvene» ricorda di aver detto. «Senza di voi non ce ne andiamo». Si fecero le 9:15 prima che l’opera di persuasione andasse a buon fine. Il gruppo si diresse verso le scale, dove si unì a molti altri gruppi. Il flusso di persone era lento, ci misero venti minuti ad arrivare all’ampio piano ammezzato della torre. Una volta lì, Stasinski sentì gli avvertimenti dei vigili del fuoco – «Non guardate su!» – e poi i tonfi sulle vetrate, provocati dalle persone degli ultimi piani che si erano buttate giù.
Tra i dipendenti dell’ICAP solo Seymour morì. La società tornò a lavorare meno di una settimana dopo l’attacco alle Torri Gemelle, grazie al sostegno dei concorrenti che offrirono spazi e uffici provvisori per far ripartire le sue attività. Oggi, dopo una serie di fusioni e acquisizioni, ha la sua sede in un edificio di fronte al memoriale del World Trade Center. «Guardo fuori dalla finestra ed è lì» dice Stasinski. «Ogni giorno ci viene ricordato l’accaduto. Non si dimentica mai».
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