Il tennis rende infelici?
I casi di depressione e difficoltà psicologica tra professionisti sono molti, probabilmente perché è uno degli sport più solitari
A novembre dello scorso anno il tennista australiano Nick Kyrgios aveva parlato per la prima volta pubblicamente della sua depressione, in un’intervista con il Daily Telegraph in cui a un certo punto aveva detto: «Non penso che la gente capisca quanto puoi sentirti solo nel tennis». Sono diverse le frasi e le riflessioni dei tennisti del presente e del passato, a volte diventate poi celebri, che hanno a che fare con la solitudine e i suoi effetti sulla dimensione psicologica, che in uno sport come il tennis è fondamentale.
«È un uno-contro-uno là fuori. Non ti puoi nascondere, non puoi passare la palla» disse una volta Pete Sampras. In un’intervista del 2009, Rafael Nadal – uno dei più forti nella tenuta mentale durante le partite – disse: «Il tennis è uno sport duro, c’è una gran competizione e giochi da solo. Fisicamente e mentalmente è uno dei più difficili».
Tutta questa solitudine e il gran peso che ha l’aspetto psicologico hanno fatto sì che infelicità, depressione e difficoltà siano entrate da tempo nel racconto pubblico intorno al tennis agonistico, forse in misura maggiore rispetto agli altri sport e con più frequenza negli ultimi anni, almeno da quando una decina di anni fa uscì l’autobiografia di Andre Agassi – Open – che parlava molto di questi temi ed ebbe un gran successo. Più di recente ne ha parlato il giornalista sportivo Matthew Futterman sul New York Times, prendendo spunto da un episodio avvenuto durante gli US Open, uno dei quattro tornei del Grande Slam in corso a New York in questi giorni.
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Dopo essere stata sconfitta al terzo turno, la scorsa settimana, la tennista giapponese Naomi Osaka ha parlato in conferenza stampa con un atteggiamento piuttosto triste e dimesso, trattenendo a fatica le lacrime quando ha dovuto anticipare il suo futuro: «Onestamente non so quando giocherò la prossima partita di tennis», ha detto. Di Osaka si era parlato molto già mesi fa in seguito alla sua decisione di ritirarsi dal Roland Garros (un altro torneo del Grande Slam) e per il fatto di aver parlato pubblicamente della sua vulnerabilità e dei suoi problemi di salute mentale, cosa che aveva innescato un dibattito che era andato oltre il tennis e si era esteso a tutto lo sport professionistico.
Futterman invece si è interrogato sui motivi per cui spesso il tennis rende i più grandi giocatori del mondo – ricchi, famosi e pieni di gloria – «così insopportabilmente depressi». Partendo da lontano, Futterman elenca una serie di tennisti che hanno interrotto le loro carriere per problemi psicologici, spesso più temuti rispetto a quelli fisici: Bjorn Borg, leggendario tennista svedese degli anni Settanta, giocò quattro finali degli US Open, non vincendone nessuna. Dopo l’ultima, nel 1981, decise di non giocare mai più un torneo del Grande Slam, e così fu. Aveva solo 25 anni.
Un’altra è Steffi Graf, una delle tenniste più forti di sempre, che si ritirò ad appena 30 anni non perché avesse problemi fisici, ma perché non si sentiva più motivata abbastanza. E lo stesso Andre Agassi (peraltro marito di Graf) ha ammesso di aver fatto uso di sostanze stupefacenti in un periodo in cui la sua carriera stava andando piuttosto male. Non è l’unico: Jennifer Capriati, che fu numero uno del mondo nei primi anni Duemila, attraversò varie fasi di esaurimento nervoso – che la portarono a ritirarsi per alcuni periodi – e di dipendenza dalle droghe. La sua carriera agonistica finì nel 2004, quando aveva 28 anni.
Il motivo principale di queste frequenti depressioni è la particolare solitudine dei tennisti e delle tenniste. Anche negli sport di squadra la dimensione psicologica ha una sua rilevanza, ma in quel caso l’atleta in difficoltà non ha tutta la pressione su di sé, e può farsi forza con i compagni per superare i momenti negativi. Ma la solitudine dei tennisti è diversa anche rispetto a quella degli altri sport individuali, paragonabile forse solo a quella del nuoto. «I giocatori di golf fanno uno sport molto frustrante» scrive Futterman. «Ma camminano attraverso campi d’erba bellissimi e silenziosi, con un caddie al loro fianco che li consiglia e gli offre sostegno tecnico e morale».
I tennisti professionisti, invece, non possono parlare con nessuno durante gli incontri, al limite li si vede alzare lo sguardo verso il loro angolo per cercare un qualche tipo di sostegno a distanza, gesticolando verso le persone del proprio staff, che però siedono sugli spalti e generalmente – il regolamento varia a seconda dei tornei e delle circostanze – non possono parlare con i giocatori. Inoltre nel golf arrivare al secondo o terzo posto ha un significato diverso rispetto a quanto avviene nel tennis. In un torneo di tennis vince solo chi alza il trofeo, tutti gli altri – anche se per esempio hanno raggiunto le semifinali giocando molto bene – perdono, con tutte le conseguenze psicologiche del caso.
Come se non bastasse, la vita di chi pratica tennis agonistico è piuttosto dura anche fuori dal campo, in modo particolare per i professionisti di bassa classifica. Viaggiano in continuazione in tutto il mondo, si pagano tutto da soli (e per chi non è tra i primi 50 nel ranking mondiale i guadagni non sono altissimi), si ritrovano con gli orari spesso sballati e la stagione – molto provante – dura 11 mesi. Due anni fa il tennista statunitense Noah Rubin aprì un profilo Instagram chiamato @behindtheracquet (“dietro la racchetta”) che racconta proprio le difficoltà anche psicologiche delle centinaia di tennisti professionisti meno forti di quelli più noti e celebrati.
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Secondo Daria Abramowicz, una psicologa dello sport che lavora per la tennista polacca Iga Swiatek, il tennis professionistico nella sua forma moderna risucchia tutte le energie di una persona, perché è un percorso che consiste in tentativi di scalare il ranking mondiale, difendere la posizione acquisita, coltivarsi i tifosi e trovarsi buoni sponsor, fondamentali per la stabilità economica ma anche molto esigenti nei confronti dell’atleta.
«Se hai il serbatoio vuoto o semivuoto, e se ti senti sovraccarico per via delle continue contestazioni alle tue performance, allora è impossibile godersi il percorso e il momento presente» ha detto Abramowicz a Futterman. Un modo efficace per tutelare la propria salute mentale, sempre secondo Abramowicz, è costruirsi un sentimento di autostima che non si basi sulle vittorie e le sconfitte, o sulla posizione in classifica, ma sulle relazioni con le altre persone: «Bisogna tenere a mente quali sono i valori fondamentali, perché senza quelli non c’è niente. Solo terra bruciata».