Una canzone dei Big red machine

O anche due, per ricominciare

(Jenny Anderson/Getty Images for Elsie Fest )
(Jenny Anderson/Getty Images for Elsie Fest )

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
Bentornati, intanto, e benvenuti ai nuovi arrivati. Un autunno che arriva non è un autunno senza le canzoni adeguate: e anzi, introduco subito un piccolo cambiamento, che ci è sembrato sensato: la canzone che ripeschiamo dall’archivio delle prime settimane di vita della newsletter – quando eravate ancora pochi – d’ora in poi la mettiamo a fine settimana, il giovedì, e spostiamo la serata di maggior vivacità al mercoledì. Ok?
Sto finendo di vedere questa serie che si chiama White Lotus, non la fine del mondo ma neanche di quelle che decidi di smettere senza arrivare in fondo: c’è una colonna sonora originale particolare ed efficace alternata a canzoni tradizionali hawaiiane, una delle quali mi suonava familiare, e in effetti sembra L’arca di Noè, canzone di precoce ambientalismo di Sergio Endrigo del 1970 (precede pure Eppure soffia di Bertoli, sul tema, che è del 1976 ma molto più bella): e mi è sembrata una coincidenza notevole il fatto che, somigliando a una vecchia canzone hawaiiana, parli di barche e di natura.
A proposito di travasi, ma in direzione opposta: alla fine dello scorso millennio Tanita Tikaram – cantautrice britannica di successo planetario con un disco del 1988, poi rapidamente ridimensionata malgrado una particolare popolarità in Germania – pubblicò una versione in inglese di E penso a te di Battisti. Riuscì a non peggiorarla troppo anche perché il coro è antiproiettile: e ieri lei ha pubblicato su Instagram un’improvvisazione divertente con un coro di distinti signori inglesi, professionisti, a margine di un festival.
Il mese scorso è uscita la colonna sonora (qui su Spotify) di un film che si chiama Flag Day, in cui suonano e cantano Eddie Vedder dei Pearl Jam e Glen Hansard – che sono amiconi da un pezzo – e la figlia di Vedder, Olivia. Vedder fa anche una cover di Drive dei REM.

New Auburn
Big red machine

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È uscito questo disco, molto atteso per due diverse e complementari ragioni: una è che loro, Big red machine, sono due dei musicisti più di culto e successo nel rock americano di qualità degli scorsi decenni, ovvero Justin Vernon dei Bon Iver e Aaron Dessner dei National. L’altra è che entrambi, soprattutto Dessner, erano stati corresponsabili l’anno scorso del risultato enorme del disco di Taylor Swift* – cantante pop di successi assai più mainstream e leggerini – e della di lei legittimazione presso pubblici nuovi e più difficili.

Che poi, in realtà, pubblici più difficili ne esistono sempre meno, soprattutto negli Stati Uniti, dove da molti anni stampa e critici – intimoriti da un complesso di snobismo – hanno invece sdoganato la celebrazione delle frivolezze pop più insignificanti e volatili (campo, il pop, dove peraltro gli americani sono sempre più scarsi dei britannici, al contrario che col rock). Un po’ quella cosa che a sprazzi è capitata purtroppo anche da noi in molti ambiti culturali, quella per cui a un certo punto si è dato riconoscimento pure ai film di Alvaro Vitali come segno di una qualche creatività del cinema italiano. Non sia mai che passiamo per troppo colti.

Ma torniamo ai Big red machine, che non è che possiamo ricominciare la stagione delle Canzoni lagnandoci della deriva dei tempi: e anzi, appunto, c’è del buono. I due trafficano insieme da una decina d’anni abbondante, e hanno fatto un primo disco con questo nome nel 2018, coinvolgendo altri musicisti e soprattutto cantanti donne.

Ora, ancora più forti della presentabilità commerciale data dal disco con Taylor Swift, hanno pubblicato un nuovo disco loro, di nuovo con molte voci femminili ospiti. Il risultato migliore in questo senso è l’ultima canzone, molto notturna, con Anaïs Mitchell che la canta: ma mi piace molto anche Birch, che nel pianoforte è piuttosto un pezzo dei National (certo: togli la voce di Matt Berninger e non è che non si noti), in cui Taylor Swift è presentata come specchietto per allodole ma la sua presenza è discreta e sullo sfondo.

The way I woke up was old

Non ho capito bene cosa voglia dire, e le prime volte che l’ho ascoltata ho pensato ci fosse un “I” in mezzo, soggetto di “was old”: insomma che lui si sentisse vecchio per il modo in cui si era alzato, che è un po’ come mi sento io alzandomi dal letto la mattina, soprattutto alla fine delle estati. Ma conto che migliori, riabituandosi alle vite quotidiane. No?

E ho divagato ancora, ma New Auburn dovete solo ascoltarla: New Auburn è un posto nel Wisconsin, lo stato di Justin Vernon, e la canzone chiude il disco come se parlasse a qualcuno che c’è sempre stato o che sta ascoltando il disco ora, o che è entrambe le persone.

Who are you to listen? Who are you to care?
Just someone who knows me from anywhere
Where do we come from out of thin air?
I hear you whisper in the back of my hair

*la cosa che ne avevo scritto qui a luglio dell’anno scorso:
Il disco di Taylor Swift che era stato annunciato giovedì è uscito, ed è stato molto celebrato in giro per la sua svolta “indie”. L’impressione è che sia come quando McDonald’s introdusse le insalate e tutti ad ammirare la svolta salutista, considerato il menu fino ad allora: anche qui, complimenti per provarci (This is me trying, si chiama una canzone) ma poi c’è sempre Taylor Swift che canta in quel modo ansimante e fatuo da cornetto Algida (riesce a farne a meno solo nella terzultima canzone, Betty), devastando i tentativi di Aaron Dessner dei National di farne un disco di buoni suoni. È andata a giocare nel campionato maggiore ma per ora in zona retrocessione (il disco su Spotify).
(Matteo Bordone ha articolato meglio la recensione)

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