Dobbiamo parlare di vulvodinia
È una patologia cronica e dolorosa che riguarda molte donne, spesso invalidante, ma poco studiata e oggetto di un preoccupante ritardo diagnostico
di Giulia Siviero
È come «un elefante che ti entra nella vita» dice una donna che ha la vulvodinia da dieci anni. È una malattia cronica invalidante, che spesso implica la rinuncia al lavoro, alla vita sociale, alla vita sessuale e che, nelle sue forme più gravi, impedisce azioni quotidiane come lavarsi e stare sedute. Molte donne convivono con questo dolore per anni, talvolta anche a vita. Ma si tratta di una malattia non riconosciuta dal servizio sanitario nazionale, non studiata, non diagnosticata, che viene spesso relegata fra i disturbi di ordine psicosomatico. Molte donne si sentono dire che «è tutto nella loro testa», vengono sottoposte per anni a terapie sbagliate, e si devono rivolgere a molti specialisti prima di riuscire a dare un nome ai loro disturbi. Altre devono intraprendere costose trasferte per curarsi e alcune, infine, rinunciano.
Vulvo che?
La vulvodinia è una sindrome dolorosa cronica che include un’ampia varietà di condizioni cliniche e che comporta l’infiammazione delle terminazioni nervose dell’area vulvo-vaginale e pelvica, ricchissima di muscoli, fasce, vasi sanguigni e nervi.
Chiara Marra, ginecologa e direttrice sanitaria del poliambulatorio CasaMedica di Bergamo, spiega che nel 2015 la vulvodinia: «è stata definita come un dolore vulvare che persiste per più di tre mesi». È dunque un dolore cronicizzato, non un disturbo che compare o scompare. La parola “dolore” viene però usata in modo generico, dice: «può trattarsi di un fastidio perenne, di un bruciore, di un prurito, di un formicolio, di sensazioni di scosse o di fitte, di un peso vescicale, di una sensazione di tagli sulla vulva».
Questo “dolore” può essere spontaneo, presentarsi cioè senza che ci sia una causa scatenante, oppure può essere provocato e iniziare dopo una sollecitazione. Può essere localizzato in un punto preciso della vulva o della vagina (cioè la parte esterna e quella interna) o in più punti contemporaneamente, oppure può essere generalizzato. Pur facendo riferimento alla stessa sindrome, i sintomi, la loro intensità, insorgenza o durata sono molti e diversi tra loro, e non tutti sono presenti allo stesso tempo. Ma si traducono, in ogni caso, nella difficoltà a indossare certi indumenti, ad applicare assorbenti interni o coppette mestruali, a stare sedute, ad andare in bicicletta e in dolori durante i rapporti sessuali, con un impatto molto forte sulla vita delle persone, dal punto di vista lavorativo, sociale, relazionale, sessuale e anche economico.
«Non passa giorno che io non abbia dolore, la mia vita è distrutta e chi mi è vicino vive la malattia con me»
«I miei progetti di vita si sono annientati, ho perso il lavoro perché non riuscivo a stare seduta, le mie finanze e quelle della mia famiglia sono devastate»
«Ho sviluppato disturbi di ansia, disturbi ossessivo-compulsivi, pensieri suicidi»
«Il dolore cambia le persone e io non sarò mai più la donna che ero otto anni fa»
«Sono riuscita a dare la maturità solo perché c’era la didattica a distanza, e io ho potuto seguire tutto restando in piedi».(Alcune testimonianze raccontate dalle ragazze e dalle donne vulvodiniche che lo scorso 22 luglio hanno partecipato a una riunione online organizzata dal gruppo – ci arriviamo – che sta portando avanti la battaglia politica per il riconoscimento della vulvodinia da parte del Servizio Sanitario Nazionale).
L’infiammazione può colpire anche gli uomini e in quel caso prende il nome di neuropatia del pudendo, il nervo che attraverso il bacino innerva i genitali e che, se infiammato, lesionato o compresso, può dare dolore. Anche negli uomini, dice Marra, «il sintomo principale è il dolore della regione perineale, con possibile irradiazione agli organi pelvici, e relative disfunzioni, alla regione lombosacrale, inguinale e alla radice delle cosce».
Le cause
«Non è vero che le cause della vulvodinia non si conoscono, come spesso si sente dire o si legge in giro», dice Marra: «Si riconoscono diversi fattori patogenetici che concorrono alla vulvodinia o alla neuropatia del pudendo».
Questi fattori, di solito, si presentano combinati tra loro. Hanno un ruolo, ad esempio, le infezioni genitali ricorrenti, «che spesso hanno alla base problemi intestinali, cioè un’alterazione della flora batterica intestinale che si ripercuote sulla flora batterica vaginale e anche vescicale». Quasi sempre, poi, ci sono disfunzioni del pavimento pelvico, quell’insieme di muscoli, fasce, legamenti, tessuto sottocutaneo e cutaneo che chiude inferiormente il bacino e che ha la funzione di proteggere, sostenere e soprattutto mantenere nella corretta posizione gli organi pelvici, vescica, utero e retto. Un’ipercontrattilità di questa muscolatura, spiega Marra, provoca dolore nei rapporti, cistiti, infezioni o dolore spontaneo, esattamente come i muscoli della schiena e del collo, che se sono contratti fanno male».
Tra i fattori che possono causare la vulvodinia ci possono essere traumi che hanno lesionato direttamente i nervi, l’endometriosi («le due patologie vanno a braccetto, nel senso che condividono lo stesso terreno infiammatorio»), o alcune allergie: «Ci sono allergie che in Italia troppo spesso vengono poco considerate da questo punto di vista, ma che possono dare sintomi a livello genitale, come prurito o bruciore, o che possono causare la sindrome del colon irritabile, e quindi a cascata infezioni genitali e urogenitali».
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Va poi tenuto presente, spiega Marra, l’aspetto ormonale: «Ci sono vulvodinie che si presentano dopo l’assunzione della pillola: con meno estrogeni in circolo, le mucose diventano più sottili, le terminazioni sono più esposte, c’è minor lubrificazione e tutto questo può causare dolore nei rapporti sessuali favorendo poi l’avvio di un circolo vizioso».
“È tutto nella tua testa”
In tutto questo, va considerato anche l’aspetto emotivo e psicologico della persona, dice Marra: «L’aspetto emotivo può avere un ruolo nella genesi di una patologia, ma non solo della vulvodinia: in una situazione di forte stress, così come contraiamo la mandibola contraiamo anche il pavimento pelvico». Ma affermare questo non significa sostenere che la vulvodinia “dipende dalla testa”.
«Durante la mia prima visita ginecologica mi è stato detto che quello che sentivo non era dolore, mentre un altro specialista mi ha detto che il mio era un problema psicologico»
«Le donne della vostra generazione sono molto più stressate, ed è questo che causa i tuoi problemi: è tutta questione di testa»
«Potrebbe trattarsi di una suggestione tua, magari di qualcosa che sei convinta di avere e invece non hai»
«Non hai nulla, è solo nervosismo, lo vedo da come ti mangi le unghie»
«È un problema psicologico, forse non hai un buon rapporto con gli uomini, forse hai dubbi sul tuo orientamento sessuale»
«Se ti fissi su quella zona è ovvio che ti sembra di sentire dolore, devi solo spostare la tua attenzione su altro»(Testimonianze raccolte dal sito vulvodinia.online)
Secondo uno studio statunitense condotto nel 2001, circa il 16 per cento delle donne sperimenta nel corso della propria vita sintomi riconducibili alla vulvodinia. Non è poco, ma è sicuramente un dato sottostimato, secondo Marra. È stato poi calcolato che il 45,1 per cento delle donne che si rivolge a uno specialista venga accusato di somatizzare o di ingigantire i propri sintomi, che il 40 per cento delle donne che presentano dolore vulvare cronico da diverso tempo preferisce non rivolgersi più a un medico perché percepisce del pregiudizio verso i propri sintomi e che il 60 per cento delle donne con dolore cronico consulti più di tre specialisti prima di ricevere la diagnosi corretta.
Anche la neuropatia del pudendo negli uomini, spesso, non è riconosciuta, per cui la sua incidenza non è del tutto nota. Alcuni medici svizzeri, dice Marra, hanno documentato un’incidenza dell’1% nella popolazione generale». E Orphanet, sito europeo sulle malattie rare, ha dichiarato che la neuropatia del pudendo riguarda il 4% dei pazienti che accedono ad un consulto per dolore e che colpisce 7 donne ogni 3 uomini: un rapporto donne-uomini di poco più di 2 a 1.
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Silvia Carabelli ha la vulvodinia. All’inizio del 2021 ha iniziato a scrivere un diario pubblico sulla sua malattia. Spiega che i suoi primi sintomi risalgono a una decina di anni fa e che la sua situazione si è aggravata nel luglio 2020, durante un rapporto sessuale «che è stato impossibile avere perché bruciava da morire il vestibolo e tutto l’interno della vagina, e ogni passaggio sembrava una lama sulla carne».
Da quel momento la situazione «è esplosa»: «uno stato di infiammazione importante, con rossore, bruciore, gonfiore, la sensazioni di spilli conficcati nella vulva e scosse che partivano dal ventre per arrivare ai genitali esterni: 24 ore su 24, eccetto i momenti di sonno, un dolore spontaneo che non se ne andava mai». La diagnosi, sbagliata o comunque imprecisa, era sempre la stessa: vaginite. Ed era sempre la stessa, sbagliata, anche la cura: antibiotico locale ad ampio spettro.
«Creme e ovuli non solo non sono serviti ma hanno peggiorato i disturbi». A fine ottobre, quasi per caso durante un pap test, la diagnosi è arrivata da una ginecologa più informata di altre: «Ha eseguito il test del cotton fioc, lo swab test: una leggerissima pressione in alcuni punti della vulva che, se sei sana, è un semplice tocco, ma se hai i nervi infiammati, come nel mio caso, ti fa saltare per aria. “Oh povera, hai la vulvodinia… Ne hai mai sentito parlare?”, mi disse».
La vulvodinia ha un ritardo di diagnosi di quasi 5 anni in media e le ragioni sono diverse. Spesso alcuni dei sintomi vengono confusi con altro: «Vengono interpretati in modo scorretto come segnali di infezioni», ci spiega Marra, «e quindi trattati per mesi o per anni come tali, con ovuli, creme, antimicotici o antibiotici per bocca, che non fanno altro che peggiorare la sintomatologia».
Dall’altra parte il ritardo diagnostico è dovuto a una questione che Marra definisce «culturale»: «Purtroppo c’è ancora molta ritrosia a comunicare i disturbi legati alla sfera sessuale e genitale: ci sono donne che riferiscono dolore e disagio solo dopo anni che lo provano, quasi come se dolore e sesso fossero compatibili e come se il dolore ai genitali fosse qualcosa di accettabile».
«Mi vergogno a parlarne, anche col mio medico, perché non capirebbe. In passato anche specialisti, ginecologi o urologi, mi hanno scambiato per mitomane, per una che voleva farsi notare»
«Ho disturbi nevralgici localizzati per lo più nella zona genitale, anale e perianale dall’età di quattordici anni, ora ne ho trentuno. I miei problemi fisici, per anni non li ho comunicati ai miei genitori perché mi vergognavo»(Testimonianze dal sito AINPU)
Una delle cause principali del ritardo diagnostico è però una diffusa disinformazione e impreparazione nella categoria medica: «Anche durante la mia specializzazione in ginecologia e ostetricia, e l’ho fatta in un’ottima scuola, nessuno ci ha mai parlato di vulvodinia», dice Marra. E il risultato è che le donne che ne soffrono non vengono adeguatamente accolte e curate. «Il pensiero dominante, difficile da scardinare, è che i disturbi dell’area genitale siano dovuti a problematiche psicologiche: “le donne con la vulvodinia in realtà il problema ce l’hanno nella testa”. Sono frasi che purtroppo sento spesso», conclude Marra.
Breve storia (triste) della vulvodinia
Silvia Carabelli, che è politicamente molto attiva nei movimenti femministi, sostiene che il ritardo diagnostico abbia «molto a che vedere con il retaggio patriarcale che ancora oggi caratterizza l’ambito medico», così come il resto della società. La medicina ha sempre assunto come modello, considerandolo neutro, il corpo maschile. La ginecologia è nata per occuparsi della capacità riproduttiva della donna e non della sua salute sessuale. E poi ci sono il silenzio e il tabù che hanno circondato, e circondano tuttora, i genitali femminili e tutta la sfera del piacere sessuale femminile: «Vulvodinia, endometriosi e fibromialgia, che a volte si presentano insieme e correlate in alcune pazienti, sono tre sindromi considerate tipicamente femminili, anche se non tutte riguardano solo le donne. Ma proprio per questo sono svalutate e scarsamente considerate».
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La storia “triste”, della vulvodinia spiega tutto questo piuttosto bene. L’individuazione della patologia risale alla fine dell’Ottocento: nel 1880 il ginecologo statunitense T.G. Thomas la inquadrò come «un’eccessiva sensibilità delle fibre nervose deputate all’innervazione della mucosa vulvare in una parte ben precisa della vulva stessa». Da lì in poi, salvo un paio di ulteriori apparizioni nella letteratura scientifica e mentre l’isteria era invece parecchio discussa, la vulvodinia non venne più menzionata fino alla nascita, nel 1970, della Società Internazionale per lo Studio delle Malattie Vulvovaginali (ISSVD).
Al congresso che si tenne cinque anni dopo, la vulvodinia venne descritta come la sindrome della «vulva che brucia». Quella specie di definizione venne formalmente rivista nel 2004 e soltanto nel 2019 la vulvodinia è stata inserita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD) che entrerà però in vigore il primo gennaio 2022.
La vulvodinia ha dunque una storia recentissima. Il suo processo di emersione, da un lato, è stato favorito dall’incontro e dallo scambio tra donne con i medesimi sintomi e disturbi («molte sono arrivate ad un’individuazione del problema ben prima della diagnosi medica», dice Carabelli); dall’altro, è stata fondamentale l’attività divulgativa online di alcune associazioni, nate per lo più da pazienti o ex pazienti: «I gruppi di auto-mutuo-aiuto per scambiarsi consigli e sostenersi a vicenda nell’esperienza del dolore cronico sono stati e continuano ad essere fondamentali, proprio come lo sono stati negli anni Settanta i gruppi di self-help nati sui temi della salute sessuale delle donne».
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Le cure
La terapia per la vulvodinia si concentra sulla cura dei sintomi e deve passare per forza dalle catene causali che concorrono alla sindrome: deve cioè, spiega Marra, «lavorare su tutti i fattori, e deve veramente prendere in considerazione tutto».
Una donna vulvodinica è dunque seguita da più figure professionali: la ginecologa, l’urologo, l’ostetrica o la fisioterapista che fanno la riabilitazione del pavimento pelvico. E poi, dice Marra, possono esserci altre figure satellitari: «Un gastroenterologo accompagnato da un nutrizionista o da un dietista, che si occupano della parte intestinale; il posturologo o l’osteopata, dato che il pavimento pelvico si può contrarre per un problema posturale; uno psicologo o uno psicosessuologo, un neurologo quando la componente di neuropatia del pudendo è molto estesa. E anche lo psichiatra può servire, perché la terapia prevede molto spesso dei farmaci che fanno parte della classe degli antidepressivi o degli antiepilettici».
In Italia i medici formati per curare vulvodinia e neuropatia del pudendo sono pochissimi, così come i centri che si occupano in modo integrato della patologia: «È invece fondamentale lavorare in équipe» per Marra: «Non devono essere la paziente o il paziente a gestire gli specialisti, dobbiamo essere noi a metterli al centro».
«Io sono di Palermo e qui non esiste nessun medico specializzato in questa malattia e la cosa deprime molto. Non sempre si ha la possibilità di allontanarsi e soprattutto per lunghi periodi. Io non lavoro e le spese sono tante e incidono notevolmente sulla mia vita».
«Avevo quattordici anni quando tutto ebbe inizio e ho dovuto abbandonare tutto quello a cui si dedica un ragazzo della mia età. Poi finalmente, dopo tante cure e interventi inutili subiti (…), da giugno 2011 sono in cura da medici che conoscono la patologia e finalmente sto riprendendo in mano la mia vita. Purtroppo la mia famiglia ha dovuto affrontare molte spese perché in Sicilia non c’è nessun medico che conosce la patologia».
«Ho speso tantissimi soldi per le terapie e per curare anche la depressione che è sopraggiunta in seguito ad anni di dolore»(Testimonianze dal sito AINPU)
Poiché vulvodinia e neuropatia del pudendo sono patologie multifattoriali, non sono di facilissima e immediata soluzione: «Ci vogliono mesi o anni per uscirne, ma anche per prenderne consapevolezza: la conoscenza reciproca e il poter seguire una persona nel tempo permette di riuscire ad arrivare all’obiettivo», dice Marra.
Fuori dall’invisibilità
Carabelli spiega che tra farmaci, visite ed esami, per tutto il primo anno a partire dalla diagnosi, ha speso circa 500 euro al mese: «Era il tetto massimo che mi sono data». Ora è seguita da un neurologo che è a Modena, da una fisioterapista del pavimento pelvico e da un osteopata che sono a Milano, da un’ostetrica che è a Torino, da una ginecologa che è a Bergamo e da altre figure ancora: otto in totale.
Carabelli fa parte di un comitato informale nato negli ultimi mesi, che ha messo insieme soggetti che non avevano mai collaborato prima tra loro: ne fanno parte i pochi medici specializzati in Italia in vulvodinia e neuropatia del pudendo, pazienti e attiviste, e tutte le associazioni competenti (Associazione Italiana Vulvodinia, Associazione Italiana Neuropatia del Pudendo, Cistite.info APS, Gruppo Ascolto Vulvodinia, Vincere Insieme la Vulvodinia; Vulvodinia.info ONLUS). L’obiettivo è arrivare al riconoscimento da parte del Servizio Sanitario Nazionale di queste sindromi.
Il 7 aprile del 2021 Lucia Scanu, del Movimento 5 Stelle, ha depositato alla Camera dei Deputati una prima proposta di legge per far riconoscere la vulvodinia come patologia invalidante. I soggetti che compongono il comitato ne stanno però scrivendo una seconda: definirà meglio e in modo più preciso le patologie, includerà la richiesta di invalidità, fondi per la ricerca, l’istituzione di una giornata per la sensibilizzazione, interventi di informazione e prevenzione nelle scuole, richieste sull’assistenza e sulla creazione di centri specializzati in ogni regione d’Italia, il riconoscimento di tutti i farmaci necessari per le cure, dato che oggi la maggior parte di questi farmaci non è mutuabile. «Una proposta scritta tenendo conto delle istanze delle pazienti, e che includa anche la neuropatia del pudendo, per non escludere nessuno», dice Carabelli.
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Parallelamente al percorso istituzionale, il comitato e chi ne fa parte sta portando avanti altre iniziative: sta organizzando un’auto-inchiesta per raccogliere dati, un convegno che si terrà il 12 novembre a Roma e, anche grazie al movimento femminista Non Una Di Meno, si sta muovendo per sensibilizzare media e opinione pubblica. Per il prossimo 16 ottobre Non Una Di Meno ha ad esempio organizzato un flashmob in tutt’Italia. «Il nostro obiettivo» conclude Carabelli «è rendere visibile ciò che ora non lo è. L’esistente non deve essere sminuito: i gruppi e le associazioni sono luoghi di ascolto e sostegno reciproco, ci sono medici e altre figure che fanno tutto il possibile per curarci o alleviare i sintomi di queste sindromi complesse e croniche. Ma quello che oggi esiste non è sufficiente e la storia di ognuna di noi, una qualsiasi di noi, ne è la prova vivente».