Quanto è difficile definire i costi ambientali
Una lista compilata da uno scienziato mostra l’impatto di diverse attività sull’ambiente, e riflette sui limiti di questi calcoli
Nell’ambito dell’ampio dibattito sul riscaldamento globale e sul cambiamento climatico, la riduzione delle emissioni di gas serra, e in particolare di anidride carbonica (CO2) prodotta dalle attività umane, è da tempo considerata una delle pratiche necessarie e più urgenti per la costruzione di società ed economie sostenibili, non solo dal punto di vista ambientale. Negli ultimi anni una parte della comunicazione scientifica sui temi dell’ambiente si è concentrata sull’individuazione e promozione di comportamenti individuali teoricamente più virtuosi definiti attraverso una difficile quantificazione dell’anidride carbonica prodotta da singole e specifiche attività umane, generalmente tra quelle considerate più inquinanti.
Scott Alexander – pseudonimo di un apprezzato psichiatra della Silicon Valley, autore di un blog molto seguito in cui si occupa di scienze, medicina, filosofia e politica – ha recentemente pubblicato una lista in cui, consultando e citando varie fonti accreditate, riporta la quantità di CO2 prodotta da una serie di attività e di comportamenti umani, e quella prodotta dalle attività di specifiche istituzioni e società considerate nel loro complesso.
Quello di provare a definire i costi ambientali delle attività umane, dice Alexander, è un compito fortemente esposto al rischio di produrre stime approssimative e inaffidabili. I calcoli sono infatti spesso basati su assunzioni non universalmente valide e su dati incompleti. Alexander ritiene tuttavia che utilizzare numeri «basati su ipotesi spericolate e che non dovrebbero essere messi a confronto tra loro», ma comunque «probabilmente corretti nell’ordine di grandezza», sia meglio che ragionare in assenza di qualsiasi stima.
La prima colonna del grafico elenca le varie attività e i vari comportamenti presi in considerazione. Nella seconda è riportata la corrispondente quantità di CO2 prodotta, e nella terza colonna la quantità di CO2 è espressa come frazione percentuale delle emissioni prodotte in un anno dall’americano medio (25%, per esempio, significa un quarto delle emissioni annuali dell’americano medio). Alexander riporta poi il costo necessario per “compensare” le emissioni prodotte da quelle attività, secondo una stima ottimista (quarta colonna) e una pessimista (quinta colonna).
Per la stima ottimista è stato preso in considerazione il prezzo proposto dalla maggior parte delle aziende che vendono compensazioni. Nello specifico è stato utilizzato quello proposto da Native Energy, società statunitense di software per la contabilizzazione delle compensazioni di emissioni di gas serra: 15 dollari (12,69 euro) per tonnellata di CO2 compensata. In genere le società che vendono compensazioni pagano le persone nei paesi in via di sviluppo per non abbattere alberi, ma non è così facile e lineare come sembra, fa notare Alexander.
Capita che le persone accettino il denaro e poi abbattano gli alberi lo stesso, per esempio, oppure che prendano i soldi e non abbattano alberi che in ogni caso non avevano intenzione di abbattere. Può anche capitare che accettino denaro più volte, da persone diverse, per non abbattere uno stesso albero. Infine, prosegue Alexander, se anche 15 dollari per tonnellata rappresentasse il prezzo reale delle compensazioni delle emissioni, questo sistema non ammette un aumento di scala in funzione delle necessità: «Resterai senza alberi da proteggere molto prima di esaurire le emissioni da compensare».
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La pratica della compensazione di anidride carbonica è da tempo un argomento molto discusso e oggetto di critiche motivate dai dubbi sulla sua efficacia. Alcuni osservatori ritengono sia soprattutto il risultato del tentativo delle aziende di apparire attente ai temi ambientali, senza offrire particolari garanzie dell’effettiva riduzione delle emissioni. Numerose inchieste hanno inoltre alimentato in anni recenti il sospetto che la reale quantità di anidride carbonica rimossa dall’atmosfera attraverso questi progetti sia inferiore a quella dichiarata.
Per tutte queste ragioni, Alexander abbina alla stima ottimista anche una stima pessimista, ricavata sulla base del costo di 1.000 dollari per tonnellata di emissioni compensate (circa 845 euro) proposto da Climeworks, un’azienda svizzera specializzata in sistemi di cattura della CO2 direttamente dall’aria attraverso particolari processi. «Noterete che c’è più di un intero ordine di grandezza di differenza tra le stime ottimiste e quelle pessimiste: benvenuti nell’economia del clima», commenta Alexander.
La penultima colonna del grafico indica il prezzo di vendita del prodotto dell’attività corrispondente: il prezzo di un hamburger, nel caso dell’attività «mangiare un hamburger», o quello del biglietto dell’aereo, nel caso dell’attività «volare da Los Angeles a New York». I prezzi sono considerati al netto delle oscillazioni di mercato, a volte anche significative. Nel caso dell’attività di estrazione di un Bitcoin, in particolare, Alexander ammette che il prezzo riportato potrebbe cambiare in breve tempo. Nel caso delle aziende è invece riportato il reddito annuale, e per i paesi la stima annuale del prodotto interno lordo.
È un dato poco significativo, ammette Alexander, ma serve a ricavare quello riportato nella colonna successiva, cioè il rapporto tra il prezzo del prodotto dell’attività e quello delle relative compensazioni necessarie di CO2, calcolate prendendo in considerazione una particolare media tra la stima ottimista e quella pessimista. Se il valore riportato in questa colonna è 10 per cento, per esempio, significa che servirebbe il 10 per cento del prezzo del prodotto dell’attività per compensare l’anidride carbonica emessa.
Nel caso di alcune attività, come per esempio quelle che prevedono l’accensione di un elettrodomestico o di un altro dispositivo domestico, la percentuale riportata è sempre del 45 per cento, ottenuta sulla base del costo dell’elettricità. Ma non è del tutto corretto considerare questo valore come stabile, riconosce Alexander, dato che il costo dell’elettricità in questo tipo di valutazione è un valore estremamente variabile: sarà minore nel caso di utilizzo di energie rinnovabili, maggiore nel caso di utilizzo di combustibili fossili.
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Per ogni attività della lista Alexander rimanda alla fonte da cui ha tratto la stima numerica e, in alcuni casi, a una serie di riflessioni utili a comprendere quanto sia complicato definire in modo corretto e senza ampi margini d’errore i costi ambientali in termini di produzione di CO2.
Nel caso dell’attività «prendere l’autobus per venti miglia [circa 32 chilometri]», Alexander ha detto di aver preso in considerazione l’orario di punta, presumendo che il viaggio medio in autobus per una distanza di quel tipo sia prevalentemente motivato dal pendolarismo. Ma lo ha fatto anche per evitare di prendere in considerazione un dato discutibile. Secondo lo studio da lui consultato, infatti, prendere un autobus non in orario di punta sarebbe più inquinante che guidare una macchina per percorrere la stessa distanza. I ricercatori assumono che in quel caso l’intero autobus abbia un unico passeggero, e questo scenario produrrebbe più anidride carbonica rispetto a quello di un unico passeggero in una macchina.
È un po’ una forzatura, secondo Alexander, considerato che l’autobus percorrerà quella distanza in ogni caso, con o senza quell’unico passeggero. Ma è anche un ragionamento inevitabile, dato che per la stima del costo ambientale individuale di questa attività è comprensibilmente preso in considerazione dai ricercatori il costo in anidride carbonica prodotta dall’autobus diviso il numero di passeggeri.
Ci sono poi altre valutazioni che determinano stime inevitabilmente approssimative. Per ottenere il valore relativo all’attività di una centrale elettrica a gas naturale è stato preso in considerazione il costo ambientale di un grande impianto a Martin, in Florida. Per l’attività delle centrali a carbone è stato preso in considerazione il costo ambientale di uno dei più grandi impianti del Nord America, nella contea di Bartow, in Georgia. Chiaramente, sono valori che possono variare molto a seconda del paese e di altre condizioni.
Nel caso della quantificazione della riduzione di emissioni determinata dalla scelta individuale di «diventare vegetariani», altro esempio, molto dipende anche da quanta carne mangi abitualmente l’individuo che decide di non mangiarne più. Alexander ha preso in considerazione uno studio condotto nel Regno Unito e sostiene di aver raccolto altri dati sufficienti a concludere che gli americani mangiano più carne degli inglesi, e che di conseguenza diventare vegetariani comporti una riduzione di emissioni differente a seconda dei casi.
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Anche «trasferirsi dalla periferia in città» è un comportamento difficile da stimare in termini di riduzione di CO2. In genere si assume che gli abitanti delle città realisticamente abbiano case e macchine più piccole rispetto agli abitanti di periferia, ma la riduzione non sarebbe poi così grande, aggiunge Alexander, mantenendo le dimensioni di casa e di auto. Inoltre non è detto che gli abitanti di periferia siano responsabili di maggiori emissioni, dal momento che in genere appartengono a famiglie più numerose e quindi i loro costi ambientali dovrebbero essere suddivisi tra più persone quando si produce una stima pro capite.
Alexander dedica infine ampio spazio a una delle questioni più note e controverse quando si parla di comportamenti individuali virtuosi in termini di costi ambientali: avere un figlio o una figlia in meno. Contesta prima di tutto uno dei dati largamente circolati negli ultimi anni, utilizzato da un discusso articolo pubblicato nel 2017 sulla rivista Environmental Research Letters (e ricavato da un precedente studio del 2008), che descriveva la scelta di avere un figlio o una figlia in meno come il singolo comportamento umano a maggiore impatto in termini di riduzione stimata della produzione di anidride carbonica (58,6 tonnellate all’anno). «È strano: l’adulto medio ne produce soltanto 20, quindi perché i bambini dovrebbero inquinare tre volte più degli adulti?», si chiede Alexander.
Quello studio, sottolinea Alexander, sostiene che ciascun figlio o figlia di un individuo avrà un giorno a sua volta altri figli, e quei figli altri figli, e così via, e tutto questo dovrebbe essere imputato all’individuo che personalmente decide di avere il primo figlio o la prima figlia nella catena. Questo porterebbe a un costo ambientale teoricamente infinito, ma gli autori dello studio assumono che i tassi di fertilità diminuiranno gradualmente finché tutto convergerà verso un numero ampio ma finito di persone. In sostanza calcolano la quantità di CO2 che tutte quelle persone produrranno sulla base di varie ipotesi nel lontano futuro – «non plausibili», sostiene Alexander – e la dividono per la durata della vita del primo individuo, stimata in circa 80 anni, e arrivano a concludere che avere un figlio o una figlia determini un costo ambientale di 58,6 tonnellate di CO2 in più all’anno per ogni anno di vita del genitore.
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Ci sono motivi per ritenere sensato questo ragionamento, sostiene Alexander, ma ce ne sono a suo avviso di più per ragionare in termini diversi e preferire una stima dell’effettiva quantità di CO2 prodotta in un anno da un bambino o da una bambina «reali». Ha quindi utilizzato i dati ricavati da uno studio svedese più recente pubblicato sulla rivista scientifica PLoS One e intitolato “I genitori controbilanciano le emissioni dei loro figli?”, in base al quale le famiglie con bambini producono circa 680 chilogrammi di CO2 in più ogni anno rispetto alle famiglie senza.
Considerando che ogni famiglia con bambini ha in media due figli, sebbene non sia un ragionamento del tutto lineare, Alexander stima un valore di 340 chilogrammi per bambino o bambina. A questa valutazione aggiunge quella relativa al fatto che gli americani producono una quantità di emissioni tre volte superiore a quella degli svedesi, quindi stima che un figlio o una figlia negli Stati Uniti produca un aumento di emissioni pari a poco più di una tonnellata.
Alexander si chiede se sia effettivamente corretto ragionare in questo modo: «Dopotutto, alla fine i figli crescono e producono più emissioni, di cui anche tu sarai responsabile per aver partorito quei figli». Ma si dice ottimista riguardo al fatto che nel 2040, quando i figli saranno cresciuti abbastanza da produrre i normali livelli di CO2 di una persona adulta, quei livelli normali saranno molti più bassi e i prezzi per la compensazione delle emissioni molto più economici.
«Se, quando i tuoi figli saranno adulti, le emissioni medie di CO2 saranno di 7,5 tonnellate a persona (la metà di quelle di oggi) e le compensazioni dirette di CO2 catturata dall’aria [quelle dell’attuale stima pessimista] avranno un costo di 50 dollari per tonnellata (il 5 per cento del costo di oggi, come previsto da alcuni), allora quando i tuoi figli saranno adulti il costo ambientale dovrebbe semmai essere inferiore a quello attuale. Inoltre, quando i tuoi figli saranno adulti, guadagneranno da soli e puoi quantomeno sperare che compensino le proprie emissioni».
In conclusione, Alexander suggerisce una lettura ottimista dei dati della lista, che potrebbero per alcuni aspetti apparire scoraggianti («trascorri 11 mila ore [458 giorni] senza aria condizionata, e avrai risparmiato la stessa quantità di CO2 prodotta da un caccia F-35 in un singolo attacco aereo»). Sostiene che anziché concentrarsi soltanto sulla riduzione sarebbe consigliabile investire in compensazioni delle emissioni. «Anziché bollire vivo per tutta l’estate, spendi tra 0,04 e 2,50 dollari l’ora in compensazione del tuo utilizzo dell’aria condizionata». Non è nemmeno detto, aggiunge Alexander, che la compensazione debba essere intesa come un valore lineare e quantificabile di CO2 rimossa dall’atmosfera. «Questo è probabilmente un uso meno efficace del denaro rispetto alla donazione della stessa somma a un qualsiasi ente di beneficenza contro il cambiamento climatico».
Quanto ai comportamenti individuali responsabili, sulla base di quanto da lui appreso nella compilazione della lista, Alexander suggerisce di provare a tenersi aggiornati e informati, preferire prodotti di aziende che si impegnano nelle compensazioni delle emissioni, eleggere politici che prendano sul serio il problema, «soprattutto politici sostenitori della tassa sulle emissioni, del “cap-and-trade” [un sistema che prevede un tetto massimo di emissioni consentite in determinati settori produttivi], degli standard sulle emissioni dei veicoli, dell’energia nucleare e rinnovabile, e che sostengano la chiusura delle centrali a carbone il prima possibile».