I cani randagi sono sempre di più, soprattutto al Sud
Le stime parlano di molte centinaia di migliaia, senza che ci sia un piano per contenerli: il problema ogni tanto sconfina nella cronaca
In Italia i cani randagi sono diverse centinaia di migliaia: nel 2012 il ministero della Salute li aveva stimati tra i 500 e i 700mila, ma secondo il Sindacato italiano veterinari nell’ultimo quinquennio potrebbero addirittura essere raddoppiati. Sono cifre di fatto impossibili da verificare, ma gli esperti concordano sul fatto che la tendenza sia al rialzo e che i numeri potrebbero arrivare presto a livelli incontrollabili. È un problema che di anno in anno aumenta e che riguarda soprattutto le regioni del Sud, e se ne parla periodicamente quando accadono gravi fatti di cronaca come quello del 26 agosto, quando una quindicina di cani meticci ha aggredito e ucciso una giovane di vent’anni, Simona Cavallaro, nel bosco di Satriano, in provincia di Catanzaro.
Era in compagnia di un amico: quando i due hanno incontrato i cani, lui è scappato verso una chiesetta abbandonata mentre lei verso l’auto, che però non ha fatto in tempo a raggiungere. Secondo la testimonianza del ragazzo, poco prima dell’arrivo dei cani era passato un gregge. I carabinieri della compagnia di Soverato stanno indagando per capire se il branco di cani venisse in realtà utilizzato da un pastore per controllare i propri animali, e se quindi ne fosse responsabile.
Fatti di cronaca simili, meno gravi, si ripetono frequentemente. Il 28 agosto sul lungomare di Mirto, in provincia di Cosenza, una donna è stata aggredita da un gruppo di cani randagi ma è riuscita a divincolarsi e ripararsi in auto. Il 31 maggio, un uomo era stato aggredito e ferito gravemente ad Aversa (Caserta) da tre cani randagi di grossa taglia mentre stava coltivando il suo appezzamento di terreno. A marzo, un dogo argentino e un pitbull, abbandonati e diventati randagi, avevano attaccato un bambino alla periferia di Foggia. Un’altra aggressione pochi giorni prima era avvenuta a Pizzo Calabro, nella provincia di Vibo Valentia.
In Italia nel 2020, secondo dati forniti dal ministero della Salute, ci sono stati 76.192 ingressi in canili sanitari, 42.665 in canili rifugio (i primi sono istituzionali, i secondi gestiti da volontari) e 42.360 adozioni di cani randagi. Ma, appunto, è la stima su quelli fuori dalle strutture a preoccupare. In alcune regioni prosperano colonie di animali vaganti e gli abbandoni di animali domestici si intensificano nel periodo estivo o con l’apertura della stagione di caccia.
Dopo la morte di Cavallaro nel bosco di Satriano, il ministero della Salute ha pubblicato una nota in cui si spiegava tra l’altro che «negli ultimi venti anni in Italia sono state emanate diverse norme per la tutela degli animali da affezione e per la lotta al randagismo. Tuttavia l’attività ispettiva e il monitoraggio effettuati sul territorio hanno messo in evidenza molte criticità sull’applicazione delle disposizioni vigenti».
Ogni anno, seguendo le direttive della legge 281 del 1991, il ministero ripartisce il fondo per la tutela del benessere e per la lotta all’abbandono degli animali da compagnia. Nel 2020, così come era stato nell’anno precedente, il ministero ha messo a disposizione un milione di euro da distribuire a Regioni e Province autonome perché individuassero le priorità di intervento ed elaborassero il piano operativo di prevenzione del randagismo. Qui nascono i problemi. Perché per esempio, nel 2020, Sicilia e Calabria non hanno comunicato al ministero i numeri sul randagismo, quelli degli ingressi nei canili sanitari e in quelli rifugio e il numero dei cani adottati. Il motivo è che la situazione è talmente critica da rendere quasi impossibile tenere traccia di tutti i cani abbandonati e randagi presenti sul territorio.
Dice al Post Claudia Taccani, responsabile legale dell’Oipa, Organizzazione internazionale protezione animali: «il problema principale, soprattutto per quanto riguarda il Sud Italia e in particolar modo le zone rurali, è quello della mancanza di attenzione nella custodia dei cani. Gli animali, spessissimo senza microchip di identificazione, vengono lasciati liberi di girare per conto proprio e si riproducono, non essendo sterilizzati. Quello della non sterilizzazione è un altro punto critico. I cuccioli che sopravvivono diventano randagi, a loro volta senza sterilizzazione».
I cani che riescono a sopravvivere ai pericoli della vita in strada, alla mancanza di cibo e alle malattie si uniscono molto spesso ad altri cani e formano dei branchi più o meno numerosi, visto che la sopravvivenza è più probabile in gruppo. I branchi composti da più esemplari possono individuare una zona, diventano quasi stanziali e considerano un territorio come proprio, da proteggere. Le femmine non sterilizzate partoriscono cuccioli che a loro volta diventano vaganti a meno che non trovino qualcuno che li adotti e li mantenga. Il fenomeno così si alimenta e aumenta.
«Purtroppo molti proprietari di cani non voglio farli sterilizzare anche solo per non pagare il costo al veterinario», continua Taccani. «Si potrebbe così pensare a incentivi a livello economico. Un’altra cosa fondamentale sarebbe effettuare a tappeto i controlli applicando le sanzioni che in realtà sono ora decisamente blande».
In Puglia, a Vieste, è nata da tempo l’iniziativa “Zero cani in canile” portata avanti dai volontari della Lega Nazionale per la Difesa del Cane. La sua ideatrice, Francesca Toto, ha realizzato un’analisi del territorio per mappare i branchi rendendosi conto che i cani vaganti, considerati randagi, in realtà erano di proprietà. Il 55% erano cani da pastore provenienti dalle campagne mentre il 30% circa erano cani da caccia. Da una parte c’è stato il controllo delle forze dell’ordine con verifiche a tappeto. Dall’altra è partita una campagna di sensibilizzazione, con l’istituzione del “chip day”, giornata in cui ai cani venivano inseriti i gratuitamente i microchip per l’identificazione. È nata anche una innovativa iniziativa per concludere accordi con associazioni di categoria, a cui si possono fare sgravi fiscali, in modo da identificare, assieme ad associazioni animaliste, aziende disposte a custodire fino a due o tre cani. A Vieste sia il canile rifugio sia il canile sanitario sono ora vuoti.
Michele Pezone, responsabile legale della Lega Nazionale per la difesa del cane, spiega che «in realtà anche i cani vaganti, i cani randagi, sono cani padronali. Bisogna mettere in atto, soprattutto al Sud, una grande campagna per la proprietà responsabile. Insomma, ci vuole maggiore senso civico. E poi ci vogliono iniziative pratiche. In Italia gli uffici dell’anagrafe degli animali di affezione sono passivi, attendono che il proprietario vada a registrare il proprio cane. E questo spesso non succede. Bisognerebbe quindi che gli uffici fossero più attivi sul territorio, mappando la situazione».
Nella passata legislatura il deputato Michele Anzaldi di Italia Viva aveva presentato una proposta per tassare i cani non sterilizzati che poi, disse, «in gran parte, finiscono inevitabilmente a ingrossare le file del randagismo».
Accanto al problema del randagismo e dei tanti cani che finiscono con il passare la vita nei canili e nei rifugi perché non vengono adottati (la legge del 1991 vieta la soppressione, non che sia una soluzione auspicabile), c’è quello del mercato nero che si stima coinvolga in Italia 400.000 cuccioli per un giro d’affari di circa 300 milioni di euro. I cuccioli, che vengono poi pagati anche un ventesimo del prezzo di mercato, arrivano in Italia soprattutto dall’Est Europa, spesso stipati in doppi fondo o bagagliai, e percorrono tragitti molto lunghi. Arrivano spesso senza aver finito lo svezzamento perché così hanno più mercato, privi di microchip e con documentazioni false per quanto riguarda i trattamenti vaccinali. Molti muoiono durante il tragitto, altri, non vaccinati, si ammalano e muoiono in seguito.