Metà dei beni sequestrati alla criminalità organizzata è inutilizzata
Lo dice un'indagine della Commissione bicamerale antimafia, che spiega i problemi nel processo di regolarizzazione e riassegnazione
C’è un problema in Italia che riguarda i beni sequestrati alla mafia. Secondo dati aggiornati a giugno 2021, 18.518 immobili e 2.929 aziende in 2.176 comuni devono ancora essere destinati. In pratica bisogna ancora capire cosa farne: se venderli o liquidarli, abbatterli in alcuni casi o se assegnarli ad associazioni del terzo settore. Molte amministrazioni comunali dicono di non sapere nemmeno se nel loro territorio esistano beni sotto sequestro. E anche quando lo sanno, spesso non conoscono le finalità cui possono essere destinati e qual è la strada da seguire per arrivare a utilizzarli.
In generale il percorso burocratico è lentissimo, gli immobili si deteriorano, le aziende sequestrate rischiano il fallimento. Le criticità sono descritte nella relazione dell’inchiesta sui beni sequestrati e confiscati realizzata dalla Commissione bicamerale antimafia e approvata all’unanimità ad agosto. Due mesi prima era stata l’associazione Libera a realizzare un rapporto in occasione dei 25 anni della legge 109 del 1996, che integrava la legge Rognoni-La Torre del 1982 per quanto riguardava la restituzione alla collettività dei beni tolti ai mafiosi.
Dall’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre (l’articolo 17 della legge dice «Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego») sono stati sequestrati 36.000 beni immobili: il 48% è stato destinato, dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità, a finalità istituzionali e sociali, ma per circa metà rimane ancora da decidere cosa farne (l’elenco dei beni si trova sul sito Open Re.Gi.O).
Secondo la relazione di Libera il maggior numero di beni immobili è stato confiscato in Sicilia (6.906), quindi in Calabria (2.908), in Campania (2.747), in Puglia (1.535) e in Lombardia (1.242). I problemi che bloccano i vari passaggi burocratici possono essere l’esistenza di quote indivise, irregolarità urbanistiche, occupazioni abusive (i proprietari non se ne sono mai andati oppure hanno chiesto a parenti o amici di occupare l’immobile) o problemi strutturali.
Le aziende confiscate sono invece 4.384: il 34% è già stata destinata alla vendita o alla liquidazione, all’affitto o alla gestione da parte di cooperative formate dai lavoratori. La maggior parte però, il 66%, è ancora in gestione all’agenzia. Il problema, per quanto riguarda le aziende, è che molte sono scatole vuote o società paravento per le quali un percorso di regolarizzazione è impossibile. Dice il dossier di Libera: «Sul fronte delle aziende la maggior parte di quelle confiscate giunge nella disponibilità dello Stato priva di reali capacità operative; le aziende sono spesso destinate alla liquidazione e alla chiusura, se non si interviene in modo efficace nelle fasi precedenti».
Il problema principale per un’azienda confiscata alla criminalità organizzata è paradossalmente il passaggio alla legalità: il lavoro nero deve essere sostituito da lavoro regolare, vanno pagate tasse e contributi pregressi, la gestione delle forniture diventa infine trasparente. E fornitori che prima non esigevano pagamenti arretrati per timore di rappresaglie violente da parte della criminalità, nel momento in cui il bene passa allo Stato tornano a esigere quanto spetta loro. I costi, insomma, sono alti.
In più c’è un problema legato alle banche. Lo sottolinea la relazione della Commissione antimafia: «Le banche vedono nelle misure giudiziarie non un passo positivo verso la legalità ma un aumento dei rischi». Il risultato è che le aziende, così come gli immobili a uso abitativo, restano per mesi o anni utilizzati. E più passa il tempo più hanno poi bisogno di interventi di recupero. Tra i beni sequestrati c’è anche il denaro di conti correnti, titoli azionari, fondi di investimento che confluiscono poi nel Fug, il Fondo unico giustizia, che li utilizza per vari scopi come l’assistenza alle vittime di violenza. Spetta al presidente del Consiglio determinare, di anno in anno, come devono essere utilizzati i soldi del Fondo.
In un incontro che ebbe con i membri della Commissione parlamentare antimafia, il 21 settembre 2017 in occasione dell’anniversario dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, Papa Francesco definì «palestre di vita» i beni confiscati alla mafia e riconvertiti a uso sociale. Sono 900 le organizzazioni dell’associazionismo che ne hanno avuti in gestione. Le organizzazioni criminali non sono state a guardare.
«I beni sequestrati affidati all’associazionismo e al volontariato», dice don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, «sono diventati strumenti di prevenzione antimafia che i clan mafiosi hanno provato sempre ad ostacolare – perché hanno inferto un duro colpo al loro potere economico e di controllo del territorio – tentando azioni elusive, di condizionamenti fino ai danneggiamenti ed alcune volte alla distruzione dei beni stessi».
Dove non sono arrivate le organizzazioni criminali arriva a volte la burocrazia, troppo lenta, e anche la miopia, o semplicemente la scarsa preparazione, delle amministrazioni locali. Don Ciotti parla di «una debole capacità di gestione, la presenza di varie forme di criticità sullo stato dei beni, un raccordo insufficiente tra fase giudiziaria e amministrativa, una trasparenza delle informazioni ancora parziale, una difficoltà a mettere in atto una concreta progettualità sostenibile».
Per capire meglio quali siano i problemi, si può guardare alla situazione della Sicilia dove, dice Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia dell’Assemblea Regionale Siciliana, «i numeri sono impietosi». In Sicilia su 780 imprese definitivamente confiscate solo 39 sono attive. Per quanto riguarda quelle “destinate”, solo 11 su 459 non sono state poste in liquidazione.
Ha detto Claudio Fava nella sua relazione del febbraio 2021:
«È assente un approccio manageriale da parte dell’Agenzia… Poca sinergia istituzionale fra i soggetti (Agenzia, coadiutori giudiziari, enti locali, prefetture, tribunali…). Manca un reale sistema di sostegno delle imprese confiscate, spesso disarmate di fronte ai sabotaggi del mercato e al ritorno di fiamma di Cosa nostra. Troppi i beni immobili che risultano ancora occupati da coloro a cui erano stati confiscati: per lo Stato e per la società civile, danno e beffa insieme. Grave, poi, che il vulnus emerga spesso solo grazie alla volenterosa attività di monitoraggio svolta da alcune associazioni del terzo settore».
Che la situazione in Sicilia sia complicata lo conferma al Post anche Matteo Ianniti, giornalista del giornale I Siciliani giovani, che ha avviato una campagna per verificare, a Catania e in tutta la Sicilia, l’effettivo stato degli immobili sequestrati, e se fossero poi finiti realmente a coloro a cui erano destinati. «Ci siamo accorti presto», dice Ianniti, «che l’85% degli immobili erano ancora nelle mani di quelli a cui erano stati sequestrati. Andammo a vedere tre palazzine sequestrate a Catania e che secondo Open Re.Gi.O erano state assegnate ai carabinieri. Trovammo panni stesi e ingenuamente pensammo che fossero dei carabinieri. Nient’affatto, erano dei parenti del soggetto a cui il bene era stato sequestrato che avevano occupato le palazzine. I carabinieri non ne sapevano nulla».
Per quanto riguarda le aziende la questione è ancora più complicata: «Molte società sono all’interno di scatole cinesi, non bisogna pensare che all’indirizzo dove è indicata una società ci sia veramente un’azienda. Spesso non c’è assolutamente nulla e quella società serviva solo di copertura, o per il passaggio di denaro sporco. Certo, ci sono esempi anche virtuosi come la Geotrans, una società di trasporti che si è salvata dopo molte traversie grazie all’arrivo di nuovi clienti».
La storia della Geotrans è quella di un’azienda di trasporti sequestrata a Vincenzo Ercolano e Cosima Palma Ercolano, figli di Giuseppe Ercolano e di sua moglie Grazia Santapaola (sorella del boss Nitto Santapaola). La gestione venne data all’amministratore giudiziario che si accorse presto però che gli Ercolano avevano fondato una nuova società, divisa solo da un muro dalla sede dell’azienda ora amministrata dallo Stato. La nuova società, giorno dopo giorno, portava via i clienti alla Geotrans. La società confiscata perse in poco tempo l’80% dei clienti. Ora la Geotrans è rinata come cooperativa di lavoratori.
A Trapani c’è un altro esempio ora virtuoso. A metà degli anni Novanta la Calcestruzzo Ericina venne sequestrata al boss mafioso Vincenzi Virga. Per cinque anni, però, i figli del boss mafioso a cui apparteneva l’azienda furono presenti tutti i giorni all’interno dell’impianto gestendo di fatto gli affari. Nel 2000 l’azienda fu confiscata definitivamente ma a quel punto accadde che la società, fiorente in mano alla criminalità organizzata, vide crollare le commesse, sia pubbliche sia private. La mafia fece terra bruciata attorno all’azienda sperando di farne crollare il valore per poi riacquistarla a prezzi bassissimi. Fallì nel tentativo perché, come previsto dalla legge, la Calcestruzzi Ericina venne affidata a una cooperativa costituita dai lavoratori dell’azienda.
Secondo Libera l’Agenzia nazionale si deve dotare ora di competenze e professionalità per poter eliminare i ritardi. Servono le persone giuste per svolgere tutte le funzioni e i compiti di gestione, destinazione, verifica e monitoraggio del riutilizzo, assieme ovviamente all’autorità giudiziaria e alle amministrazioni locali. L’associazione ha anche dato vita a una Scuola di formazione nazionale beni confiscati.
Esistono poi altre iniziative. La Federmanager ha previsto un corso per formare in un anno 40 professionisti esperti di diritto, economia e cultura aziendale che si occupino di gestione, recupero e rilancio delle attività sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata. Da parte sua la Commissione bicamerale antimafia propone di fornire ora agli enti locali un vademecum: si va dalla finalità a cui può essere destinato il bene al percorso che bisogna seguire per utilizzarlo, fino a come presentare la manifestazione di interesse all’Agenzia nazionale, con tanto di documenti e indirizzi utili da contattare in caso di difficoltà.
Il vademecum arriva a 29 anni di distanza dall’approvazione della legge Rognoni-La Torre, avvenuta il 13 settembre 1982. Quattro mesi prima, il 30 aprile, Pio La Torre era stato assassinato a colpi di mitra assieme al suo aiutante Rosario Di Salvo in piazza Generale Turba, a Palermo.