Che storia ha l’Afghanistan
È molto travagliata, ha riguardato grandi imperi ed è piena di invasioni straniere, ben prima di quella degli Stati Uniti
Dopo la conquista di Kabul da parte dei talebani, due settimane fa, molti giornali hanno recuperato un vecchio e notissimo cliché sull’Afghanistan. Il paese, secondo una definizione che ha origini contestate, sarebbe “la tomba degli imperi”, sia perché in molti hanno provato a conquistarlo senza riuscirci, sia perché, come nel caso dell’Unione Sovietica, invadere l’Afghanistan fu l’ultimo atto prima del crollo definitivo.
In realtà, l’Afghanistan ha conosciuto diverse invasioni straniere di discreto successo, e la sua fama – dovuta a molte condizioni, tra cui le asperità del terreno e del clima – si può dire guadagnata soltanto a partire dal Diciannovesimo secolo. Soprattutto, la storia del paese è molto più profonda, e le sue relazioni con le grandi potenze degli ultimi secoli hanno un’enorme complessità. La storia anche remota dell’Afghanistan ha contribuito a generare molti problemi che si trascinano ancora oggi, e che in parte hanno influenzato la situazione degli ultimi anni.
Le origini
L’Afghanistan era noto con questo nome (che significa “terra degli afgani”) già nel Settecento, all’epoca della dominazione della dinastia Durrani, il cui capostipite Ahmad Shah Durran-i-Durrani è considerato il padre del moderno Afghanistan. Nonostante in antichità questa parte di territorio nel mezzo dell’Asia Centrale fosse considerata impossibile da conquistare, in realtà è stata attraversata e spesso conquistata da diversi imperi, tra cui quello di Alessandro Magno – fondatore di Herat, oggi terza città più grande del paese – e quello mongolo, che nel 1221 invase l’Afghanistan distruggendo le coltivazioni e rendendolo un territorio prevalentemente deserto.
Come ha scritto lo storico militare Stephen Tanner nel suo libro Afghanistan: A Military History from Alexander the Great to the War against the Taliban, l’invasione mongola ha inciso moltissimo sui caratteri dell’Afghanistan nei secoli a venire:
Il fatto che l’Afghanistan sia considerato oggi non un paese fragile, ma duro e ostile – pronto alla guerra, piuttosto che disposto alla resistenza passiva – dipende dalla pressoché totale distruzione dell’elemento sedentario della sua popolazione proprio in quest’epoca. Città e fattorie, che basavano la propria vita su tecniche di coltivazione vecchie di secoli, si trovarono indifese sul cammino delle orde mongole, mentre una larga parte delle popolazioni nomadi fu in grado di eludere il loro attacco.
Già all’epoca, e anche nei secoli precedenti, queste terre erano abitate da una grande varietà di popoli con culture e lingue molto differenti. Semplificando all’estremo, oggi si distinguono tre grandi gruppi: i pashtun, che vivono prevalentemente lungo il confine pachistano (in larga parte, i talebani fanno parte di questa etnia); gli hazari, musulmani sciiti; e i gruppi etnici dell’Asia Centrale (turcomanni, tagiki e uzbeki).
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Anche se costituito da territori aspri e desertici, l’Afghanistan è sempre stato suo malgrado l’obiettivo dell’espansionismo di imperi vicini e lontani, principalmente per la sua posizione strategica. Incuneato tra il subcontinente indiano, la Cina, l’ex impero zarista e l’Iran, l’Afghanistan era un passaggio obbligato verso tutte queste zone del mondo, e infatti nel corso dei secoli è stato attraversato da importanti strade carovaniere della zona, fonti di grossi guadagni al tempo in cui non c’erano le varie compagnie europee delle Indie (fondate nel Seicento) e le vie commerciali transoceaniche non erano ancora sviluppate.
Tuttavia, gli eventi storici che più hanno contribuito a portare il paese a dove si trova oggi sono accaduti negli ultimi due secoli, a partire dalla disputa nota come The Great Game, il “grande gioco” tra Russia e Regno Unito. Si ritiene che il nome sia dovuto a una corrispondenza del 1840 tra l’ufficiale Henry Rawlinson e un maggiore appena nominato rappresentante politico a Kandahar, in cui il primo disse al secondo di trovarsi di fronte a «un grande e nobile gioco», riferendosi alla sua missione. Il termine è stato poi reso popolare dallo scrittore Rudyard Kipling nel suo romanzo Kim.
L’Ottocento
All’inizio dell’Ottocento erano almeno tre le potenze che avevano interessi nell’Asia Centrale: l’impero britannico, che stava consolidando il proprio dominio nella vicina India, la Francia di Napoleone e la Russia zarista. Dopo l’uscita di scena di Napoleone, nel 1815, rimasero russi e inglesi a contendersi il territorio: i primi puntavano a espandersi verso Kabul, i secondi temevano un’avanzata russa verso i propri possedimenti a sud, nella valle dell’Indo, e si erano alleati con i sikh, storici e odiati rivali degli afgani.
All’epoca il dominio sul paese era conteso tra l’emiro Dost Mohammed e Shah Shujah Durrani, uno degli ultimi membri della famiglia ormai decaduta del fondatore dell’Afghanistan moderno, sostenuto dal Regno Unito ma in gran parte privo di controllo sul territorio.
Shah Sujah nel 1838 firmò a Lahore un trattato assieme a inglesi e ai loro alleati sikh che avrebbe cambiato in maniera profonda la storia dell’Afghanistan. In cambio della protezione di inglesi e sikh, infatti, Shah Sujah cedette di fatto la ricca e fertile valle di Peshawar, che nel tempo entrò a far parte dell’Impero britannico e poi del moderno Pakistan. Fu il primo embrione della divisione del popolo di etnia pashtun, che abitava nella zona e nelle valli vicine e si trovò diviso tra due imperi e poi due paesi differenti.
Ancora oggi questa divisione è al centro del rapporto al tempo stesso conflittuale e simbiotico che permane tra Afghanistan e Pakistan.
Nel suo libro Le guerre afgane, lo storico Gastone Breccia scrive:
Molti guai di oggi – la divisione dell’etnia pashtun tra Pakistan e Afghanistan, l’ingovernabilità delle aree tribali tra i due paesi, l’intolleranza religiosa dei musulmani della zona – hanno la loro origine negli accordi di Lahore del 1838, sottoscritti da un sovrano ancora senza terra e senza prestigio a esclusivo vantaggio di due potenze straniere, che non sarebbero mai state davvero amiche dell’Afghanistan e della sua gente.
Nel dicembre del 1838, 10mila soldati inglesi entrarono in Afghanistan formalmente per aiutare Shah Shujah a liberare la città di Herat, in quel momento assediata dai persiani (alleati della Russia). Nel giro di poco tempo però i persiani si ritirarono, e l’invasione inglese si trasformò in una mera operazione militare per includere l’Afghanistan nella sfera d’influenza dell’Impero, nota come Prima guerra anglo-afgana. Inizialmente l’operazione ebbe successo: Shah Sujah fu insediato a capo dell’Afghanistan. Ma nel giro di poco tempo gli inglesi incontrarono enormi resistenze da parte dei gruppi armati locali sostenitori di Dost Mohammed.
La dinamica della campagna britannica e della reazione afgana secondo Breccia è per certi versi paragonabile alla situazione del 2001. Come gli Stati Uniti, anche gli inglesi raggiunsero il loro obiettivo iniziale, ma si trovarono di fronte al problema di come mantenere il controllo della situazione. In una lettera che Breccia cita nel suo libro, l’ufficiale Henry Rawlinson – quello che parlava del “grande e nobile gioco” – prospettò alcune alternative simili a quelle che probabilmente si sono trovati davanti gli strateghi americani un secolo e mezzo dopo:
«I mullah stanno predicando contro di noi da un capo all’altro della regione» scrisse Rawlinson. «Vi sono soltanto tre linee d’azione che possiamo seguire di qui in avanti: possiamo abbandonare il paese, e sperare di mantenere Shah Shujah sul trono grazie alla nostra influenza politica […]; in alternativa, faremmo bene a mettere a ferro e fuoco alcuni dei distretti dove si annidano gli insorti […]; la terza possibilità, infine, è quella di tentare di mantenere il controllo militare del paese, ma pagando un prezzo immenso in denaro e sangue, e rinunciando in partenza alla prospettiva di poter stabilire un limite di tempo sicuro per questa emorragia inflitta al nostro tesoro indiano.
In ogni caso, gli inglesi non dovettero decidere perché nel giro di un paio d’anni le rivolte ebbero la meglio e l’esercito inglese – l’Armata dell’Indo – venne costretto alla ritirata in maniera piuttosto disonorevole. Lo Shah Shujah venne assassinato nell’aprile 1842 e Dost Mohammed si insediò a capo del paese.
Nonostante l’esito disastroso della Prima guerra anglo-afgana, tra il 1878 e il 1880 se ne combatté una seconda, in una rinnovata fase del Great Game tra Russia e impero britannico. Il secondo conflitto andò un po’ meglio per i britannici, che ottennero una certa influenza sul governo afghano.
Poco dopo la fine della guerra, nel 1893, il diplomatico britannico Mortimer Durand negoziò con l’emiro afghano Abdur Rahman Khan i limiti delle rispettive sfere di influenza. Il risultato fu la cosiddetta linea Durand, lunga 2.670 chilometri, che ancora oggi definisce il confine tra Afghanistan e Pakistan, e che con il tempo sancì definitivamente la divisione della popolazione pashtun.
Nella Terza guerra anglo-afgana, anche nota come Guerra di indipendenza e combattuta nel 1919, gli afgani riuscirono infine a guadagnare autonomia sui britannici. Dopo questa guerra, il Regno Unito riconobbe l’Afghanistan come stato indipendente.
Il Novecento
Durante la Seconda guerra mondiale il paese rimase neutrale. Dopo il 1945, con la rapida dissoluzione dell’impero coloniale britannico, il governo di Kabul e l’emiro Mohammad Zahir Shah tentarono di superare la linea Durand per far nascere un Pashtunistan, uno stato pashtun, e risolvere così le annose dispute territoriali e religiose con il Punjab pakistano, ma l’operazione non ebbe successo.
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Negli anni Cinquanta si cominciò a formare un nuovo Great Game, in parallelo alla Guerra Fredda. Al posto della Russia degli zar c’era quella sovietica, al posto del Regno Unito gli Stati Uniti. Nel 1953 divenne primo ministro Mohammad Daoud, cugino dell’emiro, che cercò di avvicinarsi agli americani, data la storica diffidenza nei confronti dei russi. Le missioni diplomatiche andarono però piuttosto male e l’Afghanistan cominciò ad avvicinarsi sempre di più all’orbita sovietica: il primo viaggio all’estero di Nikita Krusciov, successore di Stalin, fu proprio in Afghanistan.
Nel 1973 Daoud organizzò un colpo di stato, abolì la monarchia e dichiarò l’Afghanistan una repubblica: per farlo, si servì dell’appoggio di un partito comunista afgano clandestino (PDPA, Partito democratico del popolo afgano) costituito pochi anni prima con l’aiuto dei sovietici, che ben presto se ne servirono per preparare il terreno per una futura egemonia.
Il 17 aprile 1978 uno dei fondatori del PDPA, Mir Akbar Khyber, venne assassinato in circostanze oscure, e i suoi funerali si trasformarono in una grossa manifestazione antigovernativa. Daoud tentò di arrestare i dirigenti del partito, ma si mosse troppo tardi e il 27 aprile ci fu un nuovo colpo di stato: l’Afghanistan era diventato una repubblica socialista, con a capo (in un governo inizialmente collegiale, poi autocratico) Hafizullah Amin, di professione insegnante.
A prima vista poteva sembrare una notizia positiva per i sovietici, ma presto si capì che i comunisti afgani erano incontrollabili.
Nel corso dei venti mesi in cui il PDPA e Amin governarono l’Afghanistan, si calcola che più di 20 mila persone siano state uccise. Moltissime appartenevano allo stesso partito, sottoposto da Amin e dai suoi colleghi a feroci e periodiche purghe. A chi gli consigliava un approccio graduale, Amin mostrava il ritratto di Stalin che teneva in un ufficio e ricordava che l’unico modo di modernizzare un paese arretrato era usare la stessa ferocia applicata dal dittatore sovietico.
Questi metodi provocarono forti e brutali insurrezioni nel paese, con gruppi armati di mujaheddin (così venivano e vengono ancora oggi chiamati i guerriglieri nel paese) sostenuti dal Pakistan che ben presto cominciarono a conquistare ampie zone rurali, e perfino minacciare grandi città come Herat.
All’inizio l’Unione Sovietica tentò di restare fuori da quello che accadeva nel paese, ma poi dovette cedere. Lo storico e diplomatico britannico Rodric Braithwaite ha raccontato nel suo libro Afgantsy che ciò che fece scattare i sovietici fu l’assassinio da parte di Amin del presidente afgano, Nur Muhammad Taraki, il leader locale più vicino a Mosca.
A quel punto i sovietici capirono di aver perso il controllo: il paese era diviso tra Amin, un dittatore sanguinario che non rispondeva agli ordini di Mosca, e la guerriglia anticomunista.
Il 25 dicembre 1979 – la data con cui tradizionalmente si fa coincidere l’inizio dell’invasione – arrivarono a Bargram, poco lontano da Kabul, enormi aerei da trasporto sovietici carichi di soldati. I vertici sovietici avevano in mente due obiettivi: una rapida operazione di contro-insurrezione contro la guerriglia e un’altrettanto rapida sostituzione di Amin, possibilmente con meno vittime possibili.
Il 28 dicembre i sovietici riuscirono ad avere la meglio su Amin, dopo una lunga battaglia attorno al palazzo presidenziale, e a nominare un sostituto, Babrak Karmal, il quale annunciò via radio che la “macchina della tortura di Amin” era stata distrutta e che il paese si avviava verso una nuova epoca di pace e prosperità.
Ma l’altro obiettivo, quello di sconfiggere la guerriglia, si rivelò impossibile da realizzare. Iniziò una lunga occupazione, in cui i sovietici rimasero impelagati per dieci anni senza riuscire a domare le insurrezioni e la resistenza dei mujaheddin, che a un certo punto furono sostenuti anche dagli Stati Uniti.
Tra tutti gli avvenimenti recenti e meno recenti della storia afgana, l’invasione sovietica è probabilmente quello che più di tutti ha contribuito a radicalizzare la politica del paese e impoverire la società afgana. Le truppe sovietiche si ritirarono nel 1989 e lasciarono un Afghanistan lacerato dai conflitti interni alle stesse fazioni che avevano combattuto contro di loro, e iniziò una sanguinosa guerra civile.
Nel 1994 il mullah Omar, che aveva combattuto tra i mujaheddin, formò il gruppo islamista radicale dei talebani che nel 1996 prese il potere e che ospitò in Afghanistan le basi dell’organizzazione terroristica al Qaida. Nel 2001 il leader di al Qaida, Osama bin Laden, organizzò l’attentato terroristico contro le Torri Gemelle di New York e contro l’edificio del Pentagono a Washington. In risposta, gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan.
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