Tutto sulla terza dose
Perché si parla di un'ulteriore dose di vaccino contro il coronavirus, dove si è iniziato a farla e cosa dicono dati e ricerche sulla sua utilità
di Emanuele Menietti – @emenietti
Da alcuni mesi ricercatori, medici, governi e autorità sanitarie si confrontano sull’opportunità di somministrare una terza dose del vaccino contro il coronavirus, a distanza di qualche tempo dalle due già previste dal normale ciclo vaccinale. Un’ulteriore dose potrebbe favorire il mantenimento della protezione offerta dal vaccino, che nel corso del tempo tende a ridursi, anche se non è ancora completamente chiaro di quanto.
In alcuni paesi, come Israele e Stati Uniti, la somministrazione della terza dose è già stata avviata per alcune categorie di persone, mentre in altri come l’Italia si sta seguendo un approccio più cauto in attesa di avere dati più chiari sulla durata della risposta e della memoria immunitaria dopo le due dosi di vaccino (o la dose singola nel caso del vaccino di Johnson & Johnson).
Vaccini e sistema immunitario
In generale, un vaccino serve a sviluppare una risposta immunitaria contro un particolare virus o batterio (patogeno), in modo che l’organismo impari a riconoscerlo e a contrastarlo nel caso di successive infezioni. Un processo simile avviene quando si contrae un patogeno e poi si guarisce, ma il vaccino lo fa avvenire senza ammalarsi, quindi senza tutti i rischi annessi dovuti alla malattia.
Il nostro sistema immunitario è estremamente complesso e ha varie risorse per occuparsi dei patogeni, al punto che il funzionamento di alcune di queste non è ancora totalmente chiaro agli stessi ricercatori. In presenza di una minaccia esterna, interviene prima con difese piuttosto grezze e pronte all’uso e in seguito con sistemi più raffinati, che permettono non solo di contrastare il patogeno, ma anche di conservarne memoria. Qualcosa di simile avviene dopo avere ricevuto un vaccino, anche se questo è sostanzialmente innocuo perché non potrà portare allo sviluppo della malattia vera e propria.
La durata della memoria immunitaria varia molto a seconda delle minacce e di come queste sono state incontrate. In alcuni casi, come per il morbillo, si sviluppa un’immunità per tutta la vita, mentre in altri la memoria tende a ridursi nel corso del tempo lasciando via via il nostro organismo meno preparato a nuove eventuali invasioni dello stesso patogeno.
Tempo e memoria
Determinare con precisione quanto duri questa memoria è estremamente difficile, e lo è ancora di più nel caso in cui sia passato poco tempo, come avvenuto con l’emersione dell’attuale coronavirus e dei vaccini sviluppati per tenerlo sotto controllo, perché i dati disponibili sono limitati.
Le prime persone a essere state vaccinate contro il coronavirus sono stati i partecipanti ai test clinici per verificare sicurezza ed efficacia dei vaccini, poco più di un anno fa. Sono alcune decine di migliaia per ogni tipo di vaccino e sono ancora oggi seguite dai ricercatori, per comprendere come si modifichi l’efficacia non solo nel corso del tempo, ma anche a seconda del luogo in cui vivono e della diffusione di varianti che non si erano ancora affermate nel momento in cui erano stati sviluppati i vaccini.
A queste persone si aggiungono alcuni milioni di individui che avevano ricevuto per primi il vaccino tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2021. Sono un campione più difficile da analizzare rispetto ai gruppi selezionati per i test clinici, ma numericamente più rilevante e utile per fare valutazioni sul mantenimento della protezione offerta dai vaccini.
Che cosa fa un’ulteriore dose
Come abbiamo visto prima, la vaccinazione spinge il nostro organismo a produrre un maggior numero di cellule immunitarie, che a loro volta producono anticorpi e altre molecole, che tendono poi a ridursi nel corso del tempo. La memoria rimane in alcune cellule (linfociti B e T), che terranno d’occhio l’organismo nel caso di infezioni vere e proprie in futuro.
Una dose di rinforzo induce una nuova moltiplicazione delle cellule immunitarie, che a loro volta producono nuovamente anticorpi, che nel corso del tempo tendono nuovamente a svanire. Il processo fa sì che alla fine rimanga una quantità maggiore di cellule immunitarie, che potranno offrire una risposta più immediata ed efficace nel caso di una nuova infezione.
Attraverso il sistema linfatico, l’autostrada del nostro sistema immunitario, alcune di queste cellule raggiungono inoltre i linfonodi, dove attraverso mutazioni diventano via via più abili nel produrre anticorpi altamente specifici contro la minaccia che hanno incontrato. Questo processo (“maturazione dell’affinità”) è alla base della costruzione di una migliore protezione contro le malattie. In natura avviene con la ripetuta esposizione ai patogeni (quasi sempre ammalandosi), mentre con i vaccini tramite la somministrazione di dosi aggiuntive quando necessario.
Questo effetto di rinforzo viene in parte raggiunto con la seconda dose dei vaccini contro il coronavirus, ma secondo diversi ricercatori due somministrazioni potrebbero non essere sufficienti per stimolare la massima produzione possibile di nuove cellule immunitarie.
Riduzione
Studi svolti in vari paesi hanno evidenziato una possibile riduzione della memoria immunitaria, con una conseguente protezione inferiore a mesi di distanza dalla somministrazione del vaccino. A oggi non è però possibile quantificare con precisione questa riduzione, né comprendere se sia tale da rendere necessario l’impiego di ulteriori dosi.
Per rilevarla si fa un calcolo degli anticorpi (“titolo”), partendo da un campione di sangue prelevato a distanza di tempo dalla vaccinazione. Il problema è che il livello di protezione offerto dagli anticorpi è altamente soggettivo: varia da individuo a individuo ed è difficile stabilire una soglia al di sotto della quale si possa dire di non essere protetti.
Con tutti i vaccini, i livelli di anticorpi e di alcuni tipi di cellule immunitarie si riducono nel corso del tempo, proprio come avviene tra chi si è ammalato e ha sviluppato in un modo diverso (e più rischioso) quelle risorse. I dati finora disponibili indicano che questo sia il caso anche per i vaccini contro il coronavirus, ma una riduzione non implica necessariamente una minore protezione.
Per avere qualche riferimento fermo, i ricercatori sono alla ricerca di un “correlato di protezione”, cioè di un punto chiaro per fissare una soglia, in modo da poter determinare al di sotto di quali valori dei livelli di anticorpi neutralizzanti sia opportuno procedere con una nuova somministrazione.
Dati e analisi
In attesa di avere un correlato di protezione affidabile e condiviso, i ricercatori si sono messi a studiare i dati sulle vaccinazioni contro il coronavirus nel mondo reale, e in particolare nei paesi in cui era stato vaccinato da subito un alto numero di individui.
Molte attenzioni sono state orientate verso Israele, uno dei paesi ad avere vaccinato più rapidamente la propria popolazione nei primi mesi in cui i vaccini iniziavano a essere disponibili. La maggior parte delle somministrazioni aveva riguardato il vaccino di Pfizer-BioNTech, uno dei più diffusi in Occidente e il più utilizzato in Italia.
Le prime indagini svolte in primavera, a 3-4 mesi di distanza dall’avvio della campagna vaccinale, avevano fornito dati incoraggianti sul mantenimento della protezione da parte dei vaccini in Israele. Quello di Pfizer-BioNTech aveva confermato sostanzialmente la propria efficacia del 95 per cento nel prevenire la COVID-19.
Una successiva analisi sui vaccinati israeliani condotta lo scorso luglio aveva però segnalato una sensibile riduzione dell’efficacia, scesa al 64 per cento. La diminuzione era probabilmente dovuta a più fattori: da un lato una riduzione della memoria immunitaria e dall’altro la diffusione della variante delta nel paese, più contagiosa e non in circolazione quando erano stati sviluppati i primi vaccini a mRNA, come quello di Pfizer-BioNTech.
Test clinici, mesi dopo
L’analisi dell’andamento dei primi vaccinati nei test clinici (quelli necessari per verificare efficacia e sicurezza in modo da ottenerne l’autorizzazione) può essere un’ulteriore risorsa per valutare e quantificare una eventuale riduzione nella protezione. A fine luglio, per esempio, Pfizer-BioNTech hanno pubblicato una ricerca preliminare nella quale hanno segnalato una riduzione nell’efficacia del loro vaccino dal 96 all’84 per cento dopo sei mesi. In precedenza Moderna aveva rilevato un calo più contenuto dell’efficacia del proprio vaccino.
I partecipanti ai test clinici vengono seguiti per mesi dopo la vaccinazione, per fare queste e altre analisi. Il problema è che man mano che passa il tempo diventano un campione statistico meno rilevante: scoprono se hanno ricevuto effettivamente un vaccino o una sostanza che non fa nulla (placebo), condizione che può poi determinare una modifica nelle loro abitudini e l’introduzione di maggiori variabili, difficili da tenere sotto controllo. Chi ha scoperto di avere ricevuto effettivamente il vaccino potrebbe avere assunto comportamenti meno cauti e responsabili, cosa che potrebbe avere inciso sulle successive stime dell’efficacia dei vaccini.
Malattia grave
È importante ricordare che una riduzione dell’efficacia in generale non implica affatto che la vaccinazione sia meno utile. I vaccini a oggi disponibili sono altamente efficaci nel proteggere dalle forme gravi della malattia. Tale circostanza riduce il rischio di sviluppare sintomi che rendano necessario il ricovero in ospedale e che, in alcuni casi, possono causare la morte.
Meno ricoveri per COVID-19 implica che gli ospedali possano funzionare normalmente, senza finire al collasso come avvenuto durante le prime ondate, non solo per fornire assistenza a chi si è ammalato a causa del coronavirus, ma anche per tutti gli altri. È ormai accertato e dimostrato che i vaccini riducono i ricoveri e i decessi, così come hanno consentito di fare i vaccini per le altre malattie sviluppati nel corso del Novecento e che hanno contribuito a salvare milioni di vite in tutto il mondo.
Terza dose
I primi indizi su una eventuale riduzione nel tempo dell’efficacia e un sensibile aumento dei casi, dovuto per lo più alla variante delta, ha spinto alcuni governi a organizzare la somministrazione di una terza dose del vaccino alla popolazione già vaccinata.
Già a fine luglio in Israele era stata avviata una campagna di richiami per gli over 60, via via estesa fino ai trentenni nel corso del mese di agosto. Più di 1,3 milioni di persone hanno ricevuto la terza dose: solo nella fascia di popolazione tra i 70 e i 79 anni si è superata la soglia del 75 per cento. Israele sta ancora sperimentando una nuova ondata e non è chiaro se il ricorso alla terza dose offrirà qualche beneficio immediato, anche se lo scorso fine settimana il ministero della Salute israeliano ha diffuso alcuni dati incoraggianti.
Negli Stati Uniti si è deciso di avviare la somministrazione di una terza dose per i soggetti più a rischio, come gli immunodepressi, mentre dalla seconda metà di settembre anche il resto della popolazione potrà ricevere un’ulteriore dose di vaccino.
In Francia è stata raccomandata alla popolazione una terza dose del vaccino a tutte le persone con più di 65 anni e a quelle in particolari fasce a rischio. Dovrà essere somministrata almeno sei mesi dopo avere completato il ciclo vaccinale.
In Germania l’orientamento è di consigliare la terza dose ai fragili e ai più anziani, anche se sono ancora in corso alcune valutazioni su come organizzare la somministrazione.
Italia
In Italia al momento si è parlato di terza dose solamente per i soggetti più fragili e a rischio, come gli immunodepressi. Nel loro caso, infatti, due dosi di vaccino potrebbero non essere sufficienti per sviluppare una risposta immunitaria adeguata contro il coronavirus, perché il loro sistema immunitario è meno reattivo. Non sono state invece assunte decisioni definitive su un’ulteriore dose per il resto della popolazione, e lo stesso Giovanni Rezza, direttore generale della prevenzione presso il ministero della Salute, è stato molto cauto sul tema in un recente articolo nel quale ha ricordato che a oggi «non sappiamo ancora del tutto rispondere» su quanto duri l’immunità offerta dai vaccini.
In settimana il tema era stato affrontato anche dal ministro della Salute, Roberto Speranza, che aveva confermato l’avvio a breve della somministrazione di una terza dose per i fragili, mentre è stato un poco più vago sulla possibilità di estendere la procedura al resto della popolazione.
Terza dose / rinforzo (booster)
Nel caso della vaccinazione contro il coronavirus si è utilizzata per lo più la dizione “terza dose” per indicare un’ulteriore somministrazione del vaccino, successiva al completamento del ciclo vaccinale. In realtà “terza dose” dovrebbe essere impiegato per indicare la somministrazione per chi è immunodepresso e il cui sistema immunitario non ha risposto completamente alla ricezione delle due dosi precedenti.
I vaccinati senza questi problemi di salute, che vengono sottoposti a una nuova somministrazione, ricevono invece una dose di “rinforzo” (“booster”, in inglese) che come abbiamo visto serve per stimolare ulteriormente la loro risposta immunitaria. Non è tecnicamente una “terza dose”, anche perché per alcuni potrebbe trattarsi della seconda nel caso in cui avessero ricevuto il vaccino monodose di Johnson & Johnson. La maggior parte dei vaccini prevede comunque due somministrazioni per il ciclo iniziale e per questo “terza dose” è diventato il modo più diffuso per riferirsi al booster.
Critiche
Dati ed evidenze scientifiche intorno alla durata della protezione offerta dai vaccini contro il coronavirus sono ancora limitati e, per questo, i governi che hanno già scelto di procedere con le terze dosi hanno ricevuto qualche critica da esperti e istituzioni sanitarie. In più occasioni l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha invitato i paesi più ricchi ad astenersi dal somministrare le terze dosi, considerato che ci sono ancora miliardi di persone in tutto il mondo che non hanno ricevuto nemmeno una dose a causa della scarsa disponibilità dei vaccini.
L’OMS ha ricordato che le prime analisi indicano una prolungata protezione dalle forme gravi di COVID-19 dopo la vaccinazione, condizione più che sufficiente per vaccinare più persone possibili prima di pensare a terze dosi e booster.
Altri osservatori hanno fatto notare che in molti dei paesi più ricchi la percentuale di completamente vaccinati è comunque bassa, rispetto agli obiettivi che ci si era posti, sia a causa della mancanza di dosi sia per l’esitazione di fasce della popolazione a vaccinarsi. In queste circostanze, alcuni riceveranno una terza dose del vaccino, mentre altri non ne avranno ancora ricevuta nemmeno una, riducendo l’efficacia della campagna vaccinale.
Scommessa
La scelta di alcuni governi di procedere con la terza dose per i già vaccinati è quasi esclusivamente politica, non essendoci a oggi evidenze scientifiche chiare sulla durata dell’immunità né la possibilità di quantificare i benefici di un’ulteriore dose nella situazione attuale con la variante delta, né tanto meno in futuro all’emergere di ulteriori varianti. È una scommessa che i paesi più ricchi ritengono di potersi permettere non avendo molto da perdere: anche se non funzionasse, l’impatto sulle loro economie di una spesa per ulteriori vaccinazioni sarebbe comunque inferiore rispetto agli effetti negativi di nuovi lockdown.
Mentre si procederà con le terze dosi per precauzione, nei prossimi mesi dovrebbero emergere nuovi dati sull’andamento dell’efficacia e della protezione offerta dai vaccini nel tempo. Si potranno inoltre mettere a confronto gli esiti della vaccinazione con la terza dose con quelli del normale ciclo vaccinale, ottenendo ulteriori informazioni per organizzare eventuali future nuove campagne vaccinali.
L’attuale coronavirus è del resto nelle nostre esistenze da poco più di un anno e mezzo. La ricerca e l’esperienza medica sul campo hanno permesso di sviluppare terapie più efficaci per trattare la COVID-19 e i vaccini per prevenirla, ma molti aspetti della malattia e del virus che la causa devono essere ancora approfonditi e per farlo occorre tempo.